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Capitolo XI
Il «mpungu»
Quando giunsero al campo i due dahomeni avevano già caricati i cavalli e si trovavano pronti a partire, mentre l’amazzone, la cui guarigione era prossima, si era coricata nella sua lettiga, su di un fresco strato di foglie.
Alfredo diede il segnale della partenza e tutti si misero in marcia, tenendosi però lontani dalle rive del canale per sfuggire ai nauseanti odori che tramandavano i poveri debitori.
Ve n’era un buon numero di quei disgraziati, poichè numerosi palchi si vedevano delinearsi verso l’ovest seguendo i capricciosi contorni delle sponde. Alcune di quelle costruzioni erano state erette anche in vicinanza della via percorsa dalla carovana ed allora Antao poteva vedere, non senza un brivido d’orrore, i crani dei negri biancheggianti fra gli stracci che coprivano bene o male i corpi.
Grandi bande d’avoltoi volteggiavano senza posa sopra quei funebri palchi e di quando in quando si vedevano calare impetuosamente sopra quegli scheletri disseccati dal sole e già ripuliti dalle formiche, cercando avidamente l’ultimo brano di pelle.
Ben presto però la carovana abbandonò i tristi paraggi del Piccolo Popo, inoltrandosi nella regione dei Togo,1 vasto paese che si trova racchiuso fra le frontiere del Dahomey all’est, quelle degli Ascianti e del possedimento inglese della Costa d’Oro all’ovest e le terre dei Krepi a settentrione.
Evitata la capitale dei Togo, onde non perdere tempo, la carovana costeggiò il lago omonimo che è formato dai due fiumi Haho e Sio, poi si spinse un po’ verso settentrione accampando nei pressi di Dalawe, piccola borgata abitata da alcune centinaia di negri.
Il giorno seguente, dopo d’aver attraversato il Sio, uno dei più considerevoli corsi d’acqua che solcano le regioni della Costa d’Avorio, Alfredo, credendo ormai di aver ingannate abbastanza le spie di Kalani sulla sua vera direzione, risalì verso il nord per guadagnare le grandi foreste del centro, ma obliquando leggermente verso l’ovest, come se volesse puntare su Kewe-Ga che è uno degli ultimi villaggi di frontiera della regione dei Krepi.
Voleva spingersi fino al 7° di latitudine settentrionale per poi piegare definitivamente verso oriente e rientrare nel Dahomey, attraversando l’alto corso del Mono, a meno di trenta o quaranta miglia dalla capitale di Geletè.
Colà era almeno sicuro di varcare le frontiere, senza venire arrestato dalle genti di Kalani.
Verso il tramonto di quello stesso giorno, la carovana accampava in mezzo ai grandi boschi, in una regione affatto selvaggia, fra giganteschi sicomori, bombax, palmizi, platanieri, banani, goyavi, cedri ed aranci di grandi dimensioni.
Le scimmie, così numerose in quelle regioni, ricominciavano ad apparire. Primeggiavano soprattutto le scimmie polto, quadrumani che hanno la testa quasi rotonda ma col muso un po’ sporgente, mani e piedi grandi, unghie robuste e ricurve, la coda corta ed il pelame lanoso, grigio rossastro.
Quantunque non siano più alte di trentacinque o quaranta centimetri, posseggono dei polmoni d’acciaio, poichè lanciano delle grida veramente spaventose.
Queste scimmie hanno un modo curioso per dormire. Invece di rannicchiarsi entro qualche cavo o sulle biforcazioni degli alberi, si aggrappano ai rami coi piedi e colle mani e nascosto il capo sotto l’una o l’altra ascella, rimangono in tal modo sospese tutta la notte.
Erano anche numerosissimi i machi orsini, scimmie non più alte d’un piede, col muso assai appuntito che somiglia a quello dei piccoli orsi, gli orecchi sottili, il pelame fitto, lanoso, bruno oscuro sul dorso e grigiastro sul ventre.
Antao che era impaziente di abbattere qualche animale, avendo udito Asseybo vantare la delicatezza della carne di quelle scimmie, risolse di approfittare del riposo della carovana per cercare d’ucciderne qualcuna.
Senza svegliare Alfredo che gustava un po’ di sonno sotto la tenda, in attesa della cena, s’armò della carabina e si cacciò in mezzo alla foresta seguìto da Asseybo, il quale aveva ricevuto l’incarico di non abbandonare il giovane cacciatore.
Disgraziatamente gli astuti quadrumani, accortisi della presenza degli uomini, si erano affrettati ad abbandonare i dintorni del campo, ritirandosi nei più fitti nascondigli della grande foresta.
— Sono furbe, — disse il negro al portoghese, il quale si sfogava mandando al diavolo tutte le scimmie dell’Africa. — Sanno che agli uomini piace la loro carne.
— Non credo che siano così intelligenti come tu dici. Comunque sia, spero di regalartene qualcuna.
— Ed io te la preparerò arrostita a puntino, padrone.
— Morte di Giove!... Non sarò certamente io che l’assaggerò. Mi sembrerebbe di diventare un antropofago.
— Se tu l’assaggiassi non diresti così, padrone.
— Può essere, ma te la lascio. Già si sa, voialtri non siete schifiltosi e sareste capaci di mangiare anche un vostro simile.
— Io no, ma i dahomeni credo che non si farebbero pregare.
— Oh diavolo!... Forse che i dahomeni sono antropofaghi?...
— Un po’ sì, padrone. Il re del Dahomey, lo sanno tutti, tiene alla sua corte dei cannibali.
— Che istorie mi narri tu, Asseybo?... — chiese Antao stupefatto.
— Ti racconto ciò che ho veduto nella mia gioventù e che i due dahomeni ti possono confermare. Geletè ha dei mangiatori di carne umana, dei cannibali ufficiali.
— E che si dà loro da mangiare?...
— Qualcuno degli schiavi che si decapitano durante la festa dei sacrifici umani. Quegli antropofaghi devono scegliere le parti migliori dell’ucciso e mangiarle in presenza del re.
— E col migliore appetito, per accontentare quel mostro umano.
— Certo, ma si dice però che dopo l’orribile cerimonia si affrettino a sbarazzarsi lo stomaco, prendendo un potente emetico.
— Bel paese che andiamo a visitare. Che non salti il ticchio a quella canaglia di Geletè, di far mangiare anche il piccolo Bruno?
— Non temere per lui. Kalani non può odiare a tal punto il padroncino e se lo ha destinato a guardiano dei feticci, è segno che non vuole che lo si tocchi. Egli attende il padrone per vendicarsi delle frustate che ha ricevute.
— Se possiamo averlo nelle mani gliene daremo ben altre!... Basterà che...
— Zitto, padrone.
— Le scimmie?...
Invece di rispondere, Asseybo aveva fatto tre o quattro salti indietro e guardava la cima d’un grande sicomoro con due occhi che esprimevano un profondo terrore.
— Cosa cerchi? — chiese il portoghese che aveva per precauzione, armata rapidamente la carabina.
— Zitto, padrone, — mormorò il negro con un filo di voce. — Il mpungu!...
— Che un leone mi mangi vivo, se io ti comprendo.
— Il mpungu, padrone. Zitto o siamo perduti.
— Ma io ti dico che non ho paura di nessun mpungu del mondo, dovesse essere il diavolo questo signore mpungu.
— Guarda lassù, padrone. —
Il portoghese, che non aveva capito nulla affatto di quanto aveva detto il negro e che non comprendeva la paura di lui, alzò gli occhi e vide, a circa otto metri da terra, una specie di nido di grandi dimensioni, costruito con alcuni grossi bastoni appoggiati alle biforcazioni dei rami.
— Il nido di qualche grosso uccello forse? — chiese. — Fosse anche un’aquila, non trovo il motivo di spaventarsi.
— No, d’un uccello, padrone, ma di una grande scimmia, tanto robusta da sfidare dieci uomini.
— D’un gorilla?... Diamine, la cosa cambia aspetto e credo che tu abbia ragione di spaventarti. Ma caro Asseybo, non spira buon’aria per noi qui, se si tratta d’uno di quei formidabili scimmioni. L’hai veduto il tuo pum... mpin... Lampi!... La tua bestiaccia infine?...
— No ed il nido mi sembra vuoto, ma il mpungu può ritornare da un momento all’altro e farci a pezzi.
— Prima che ritorni lui, torniamo noi al campo. —
Il portoghese, che aveva udito parlare della forza prodigiosa e della ferocia di quei mostri villosi, girò lestamente sui talloni e preceduto dal negro prese la via del campo.
Il sole tramontava rapidamente e l’oscurità si addensava presto sotto la foresta. Bisognava affrettarsi per evitare dei cattivi incontri ed anche per non smarrirsi, cosa facilissima in mezzo a quelle migliaia di tronchi, ed a quel caos indescrivibile di radici, di liane e di cespugli fittissimi.
Già i pipistrelli giganti cominciavano a lasciare gli alberi ai cui rami si erano tenuti appesi durante il giorno, qualche urlo di sciacallo si era fatto udire, segnale delle fiere che stavano per abbandonare i loro covi per rimettersi in caccia.
Qualche gazzella passava talora, rapida come un lampo, per andare a dissetarsi o per raggiungere il suo nascondiglio prima dell’uscita dei carnivori, mentre le scimmie s’affrettavano a raggiungere le più alte cime degli alberi per mettersi fuori di portata dagli assalti dei leopardi.
Asseybo, le cui inquietudini aumentavano col calare delle tenebre, temendo di essersi troppo allontanato dal campo, affrettava sempre più la marcia, incitando il portoghese a fare altrettanto e girava all’intorno sguardi spaventati. Un uomo come lui, compagno di caccia d’Alfredo, non doveva temere l’incontro di un carnivoro; il suo terrore doveva derivare dalla tema di trovare sulla via il mostruoso mpungu.
Ad un tratto s’arrestò, celandosi rapidamente dietro il grosso tronco d’un albero.
— Hai udito, padrone? — chiese al portoghese, che lo aveva prontamente imitato.
— Non ho udito nulla, — rispose Antao, il quale aveva armato il fucile.
— È stato spezzato un ramo a breve distanza da noi.
— Lo avrà spezzato qualche animale.
— Temo che sia stato il mpungu.
— Al diavolo il tuo mpungu. So che è terribile, ma infine abbiamo due fucili e con una palla piantata nel cuore si uccide anche un elefante.
— Il mpungu non si uccide, padrone.
— Lo vedremo, Asseybo.
— Zitto!... Odi?... —
Uno scricchiolìo di rami spezzati e di foglie secche calpestate si era udito in mezzo ad un macchione di alberi, discosto una cinquantina di metri. Anche i rami bassi delle piante si udivano a spostarsi, come se qualche grosso animale cercasse di aprirsi il passo.
— Vi è qualche belva là dentro, — mormorò Antao, alzando lentamente il fucile.
In quell’istante una massa oscura, non ancora ben distinta, allargò dei rami e comparve arrestandosi sul margine del macchione. Il portoghese l’aveva presa rapidamente di mira, ma Asseybo con un gesto rapido gli aveva afferrato il fucile, abbassandoglielo.
— Non tirare, padrone, — gli mormorò con voce tremante. — Il mpungu!...
— Morte di Nettuno!...
— Non farti udire. —
La scimmia gigante, forse avvertita della presenza dei due uomini dal suo olfatto finissimo, si era avanzata di otto o dieci passi, ma poi si era arrestata in uno spazio scoperto come fosse indecisa se indietreggiare o avanzare.
Antao che era più vicino, poteva osservare comodamente quel mostro delle foreste equatoriali che mai fino allora aveva veduto, poichè tali scimmie non si possono prendere vive, data la loro forza prodigiosa e la loro ferocia.
Era alta un metro e sessanta e fors’anche di più, statura niente affatto straordinaria, essendovene talune che misurano perfino un metro e ottanta centimetri; aveva le spalle larghissime, il corpo d’una lunghezza sproporzionata, avendo le gambe assai corte, ma aveva invece le braccia lunghissime e quali braccia!... Parevano due tronchi d’albero nodosi, ma quei nodi erano costituiti da muscoli prodigiosamente sviluppati.
Le mani ed i piedi corti, larghi e grossi, terminavano con unghie robuste e ricurve, armi formidabili, poichè si dice che con quelle può sventrare facilmente un uomo o strappargli una spalla!...
La faccia di quel mostro villoso ispirava paura tanta era l’espressione feroce e bestiale che vi traspariva. Quegli occhi piccoli, bruni, infossati, che avevano dei lampi strani; quel naso depresso, quella bocca larghissima, armata di denti lunghi e così solidi da schiacciare la canna d’un fucile come un semplice bambù; quelle labbra grosse e quel mento corto, davano alla scimmia antropomorfa un aspetto ben poco rassicurante.
I gorilla non sono molto numerosi e difficilmente s’incontrano al di là della zona equatoriale africana, però non sono nemmeno rari, specialmente nelle fitte foreste della Guinea e del Congo. Pare invece che manchino affatto nelle regioni orientali del continente nero.
Per lo più vivono in due, maschio e femmina, ma qualche volta se ne sono veduti cinque o sei uniti. S’incontrano anche dei solitari, i quali sono dei vecchi maschi e questi sono i più formidabili, i più feroci.
Si tengono ordinariamente celati nei grandi boschi, preferendo quelli umidi, ma amano anche gli altipiani rocciosi e le vallate profonde e poco illuminate. Sono però nomadi ed è raro che soggiornino molto in un luogo, ma ciò deriva dalle difficoltà che incontrano nel provvedersi di viveri. Essendo formidabili consumatori di frutta e specialmente di canne di zucchero selvatiche e di quelle erbe succolenti chiamate amomun granun paradisi, sono costretti a cambiare residenza molto sovente.
Quantunque appartengano alla razza delle scimmie, stanno più volentieri a terra che sugli alberi, ma non si creda che quando camminano si tengano ritti come gli uomini. La loro andatura ordinaria è quella dei quadrupedi anzichè dei bipedi, però talvolta si mantengono per qualche tempo in piedi e fanno anche, in quella posizione, dei tratti di via.
Al pari delle grandi scimmie del Borneo, dei mias, sono di umore triste, ma sono però più feroci, più violenti. Se incontrano degli uomini cercano possibilmente di evitarli, o tutt’al più manifestano la loro inquietudine battendosi fortemente l’ampio petto, che allora risuona come un tamburo, ma guai se vengono assaliti!... Allora più nessun pericolo li trattiene e, consapevoli della propria forza, si scagliano risolutamente sugli avversari che hanno osato disturbarli.
Più nulla resiste a loro. I fucili non hanno sempre la vittoria, poichè quei giganti, se non sono toccati al cuore o nel cervello, possono sfidare parecchie palle. Colle possenti mani spezzano le più solide carabine o le schiacciano coi denti; torcono le lance, spezzano le scuri e guai all’imprudente che cade nelle loro mani!... Un pugno solo basta per sfondare il cranio più resistente; un colpo d’unghia è più che sufficiente per aprire il petto più solido.
I negri hanno una paura immensa dei gorilla e non osano assalirli, anche se si radunano in grosso numero. Preferiscono piuttosto abbandonare i loro villaggi ed i loro campi coltivati, i quali non tardano a venire saccheggiati e distrutti. Non è raro il caso che qualche vecchio gorilla abbia rapito delle negre per poi strozzarle. Si narra però che alcune poterono ritornare ai loro villaggi ancora vive, ma prive delle unghie delle mani, e dei piedi, state loro strappate dal rapitore!...
- ↑ Questa regione è ora un possedimento della Germania.