< La Mala Femmina domata
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William Shakespeare - La Mala Femmina domata (1593)
Traduzione dall'inglese di Carlo Rusconi (1859)
Atto quarto
Atto terzo Atto quinto

ATTO QUARTO


SCENA I.

Una sala nella casa di Petrucchio in campagna.

Entra Grumio.

Grum. Maledizione, maledizione su tutte le rozze che non possono andare! su tutti i padroni che non han cervello! e su tutte le cattive strade! Vi fu mai uomo che soffrisse tanto in un viaggio, quanto ho fatt’io? Mi mandano innanzi per far fuoco, ed essi vengono dietro a me per riscaldarsi. In fede! se non fossi d’una complessione calda, le mie labbra sarebbero attaccate a’ miei denti, la mia lingua al mio palato, il mio cuore al mio petto, prima che avessi potuto avvicinarmi alla predella del camino. — Ma non vi è nessuno in questo luogo? Olà, olà! Curtis! (entra Curtis)

Cur. Chi è che chiama con voce così tremante?

Grum. Un pezzo di ghiaccio, e se ne dubiti puoi far scorrere una delle tue mani dalla mìa spalla al mio tallone, colla prestezza stessa con cui passeresti dalla mia testa al mio collo. Fuoco, fuoco, Curtis, per carità!

Cur. Il padrone e sua moglie, vengono essi, Grumio?

Grum. Sì; ed è anche per ciò che ti esorto a far fuoco.

Cur. Sua moglie è così cattiva come si dice?

Grum. Lo era, buon Curtis, prima di questo freddo, ma tu sai che l’inverno doma uomini e bestie: il freddo ci ha messi tutti alla ragione, il padrone, la padrona, e me ancora. — Ma vuoi tu fare fuoco, o vuoi ch’io ti accusi alla nostra signora, di cui sentirai in breve le mani per iscuoterti dalla tua neghittosità?

Cur. Ma dimmi prima, Grumio...

Grum, Al diavolo! fa il tuo dovere, i padroni son morti dal freddo, e non tarderanno a giungere.

Cur. Ecco che accendo il fuoco: ora dammi novelle, Grumio.

Grum. Novelle finchè vorrai, ma il freddo fa in verità terribile. Lascia che mi riscaldi. Dov’è il cuoco? La cena è pronta? È tutto ben disposto in casa?

Cur. Tutto è ben disposto: dimmi dunque qualche cosa di nuovo.

Grum. Prima di ogni altro saprai che il mio cavallo è morto di fatica; e poi che il mio padrone e la mia padrona sono caduti.....

Cur. Come?

Grum. Dalle loro selle nel fango: e qui potrebbe tessersi una storia.

Cur. Narramela, buon Grumio.

Grum. Accosta l’orecchio.

Cur. Eccomi.

Grum. Odi. (percuotendolo)

Cur. Questo si chiama far sentire, e non far udire.

Grum. Ed è perciò che il mio racconto è sensibile; io ti diedi quel colpo sull’orecchio solo per attirarmene l’attenzione. Ora comincio: Imprimis siamo discesi da una maledetta montagna, e il padrone stava in groppa di dietro alla signora...

Cur. Entrambi sopra un cavallo?

Grum. Che ne cale a te?

Cur. Sopra un cavallo!

Grum. Ebbene, racconta dunque tu la storia. Se non mi avessi interrotto sì mal a proposito avresti appreso come il cavallo cadesse, e come ella restasse sotto di lui; come s’infangasse, e come il mio padrone mi battesse perchè era caduto il suo cavallo: come egli bestemmiasse ed ella lo volesse intenerire colle preghiere, ella che prima non aveva mai pregato alcuno. Mentre io mandava alti gridi, i cavalli sono fuggiti, e abbiam dovuto fare un bel tratto di strada a piedi, fra le imprecazioni del mio signore, e i pianti di sua moglie.

Cur. Da quel che narri, ei deve essere cattivo più del demonio.

Grum. Sì, sì, e tu, e il più superbo fra voi tutti dovrà piegare il capo dinanzi a lui quando sarà qui venuto. Ma a che parlo io di ciò? Chiama Nataniele, Giuseppe, Nicola, Filippo, Gualtiero, Sucursup, e gli altri: abbiano essi gran cura che le loro teste siano ben pettinate, e i loro abiti ben detersi, e le loro giarrettiere ben allacciate; sappiano fare una riverenza con grazia, e non pensino a favellare mai, se non interrogati... Sono essi tutti pronti?

Cur. Sono.

Grum. Chiamali.

Cur. Olà, olà! Non ci udite? Bisogna che veniate incontro al vostro signore per fargli buona accoglienza. (entrano parecchi domestici)

Nat. Benvenuto, Grumio.

Fil. Eccoti dunque ritornato, Grumio.

Gius. Come va, Grumio?

Nic. Amico Grumio!

Nat. Come va?

Grum. Salute a voi tutti. Buon giorno, a te, a te, e a te, amico. Ditemi, è tutto ammanito?

Nat. Tutto: a qual distanza è il nostro signore?

Grum. A due passi di qui, e perciò non perbacco tacete: egli giunge. (entrano Petrucchio e Caterina)

Pet. Dove sono i malandrini? Nessuno alla porta per tenermi la staffa e prendere il mio cavallo? Dove è Nataniele, Gregorio, Filippo?...

Tutti i Dom. Qui, qui, signore; eccoci qui.

Pet. Qui, qui, signore, qui qui... Insensati, villani, bestie da bastone; così compite i vostri doveri? Dove è quell’insensato che ho mandato innanzi?

Grum. Eccomi, signore: insensato come prima.

Pet. Frutto da forca, non t’avevo io imposto di venirmi incontro con costoro?

Grum. L’abito di Nataniele, signore, non era finito, e le scarpe di Gabriele eran tutte da rattoppare nei talloni: non vi era nero per tingere il cappello di Pietro, e Gualtiero aveva il coltello senza fodero. Non potevano quindi comparirvi innanzi che Adamo, Rodolfo e Gregorio; tutti gli altri erano in pessimo arnese.

Pet. Andate, furfante, e recatemi la cena, (escono alcuni Dom.) «Dove è la vita che io menai un tempo (cantando) dove sono quei... siedi, Caterina, e sii la benvenuta. Sono sudato e stanco. (rientrano i Dom. colla cena) Ebbene, è ora che veniate! Buona Caterina, sta allegra. Cavatemi gli stivali, voi maledetti villani Quando?...» vi era un frate grigio che andava per la strada (cantando) togliti di là tu, miserabile: tu mi torci un piede, prendi questo (battendolo) e impara a servir meglio. Sta lieta, Caterina. Un po’ d’acqua qui; olà!... dov’è il mio cane Troilo?... Esci tu, maledetto, e va a pregare mio cugino Ferdinando di venir da noi. (esce un Dom.) È un amico, Caterina, a cui bisognerà che tu dia un bacio e con cui dovrai fare conoscenza. — Dove sono le mie pianelle? — Sicchè verrà quest’acqua? (gli vien presentato un bacino) Lavati le mani, Caterina, e riprendi coraggio. (il Dom. si lascia cadere il bacino dalle mani) Sciagurato, indegno, così ci servi? (lo percuote)

Cat. Calmatevi, ve ne prego, fu un fallo involontario.

Pet. È uno scellerato, un indegno scellerato che merita la corda. Sedete, Caterina; so che avete fame. Volete dire il benedicite o lo dirò io per voi? — Che cosa ci avete dato? Una fetta di montone?.

Dom. Sì.

Pet. Chi l’ha cucinata?

Dom. Io.

Pet. È tutta abbruciata, come pure il resto della cena. Vi fu mai nulla di peggio? Vi fu mai uomo al mondo servito così indegnamente? Recate via di qui questa cena diabolica, miserabili, (gettando le vivande in faccia ai Dom.) e non mi ricomparite più innanzi. Oh stupidi automi! che cosa borbottate fra voi? Fra breve vi raggiungerò e vi tratterò come meritate.

Cat. Ve ne supplico, sposo, non vi sdegnate così: la cena era buona, se aveste voluto contentarvene.

Pet. Ti dico, Caterina, ch’era tutta abbruciata, e che mi si è espressamente proibito di mangiare vivande così arse, perchè ingenerano la bile, e svegliano la collera. È meglio per noi di fare senza cena, che d’alimentarsi con simili pietanze. State quieta, domani andrà meglio, ma per questa sera c’è forza il digiunare. Venite, vi condurrò nella vostra stanza da letto. (esce con Cat. e Cur.)

Nat. (avanzandosi) Pietro, vedesti mai nulla di simile?

Piet. Egli la farà morire. (rientra Curtis)

Grum. Dov’è andato?

Cur. Nella stanza di lei, in cui le fa un sermone per esortarla alla continenza, e grida, bestemmia per appoggiare i suoi argomenti, talchè la poveretta non osa più nè guardarlo, nè aprir la bocca. Ella è immobile come persona svegliata d’improvviso in mezzo a’ suoi sogni. Partiamo, partiamo: eccolo che ritorna. (escono; rientra Petrucchio)

Pet. Così da politico arguto ho incominciato il mio regno, e nutro speranza di raggiungere felicemente il mio scopo. Il mio falco ha ora gli spiriti desti pel digiuno, e finchè non sia domato, non bisogna pascerlo, per non fare che prenda troppo orgoglio. Ho anche un altro mezzo poi per mansuefarlo, ed avvezzarlo a riconoscere la voce del suo signore; è quello di sorvegliarlo, come si sorvegliano quei nibbi che ribelli all’autorità non restano vinti che dalla continua presenza del padrone che li batte. Ella non s’è cibata di nulla oggi, e deve continuare a digiunare. La notte scorsa non ha dormito, e non deve dormire neppur questa: troverò, come per la cena, qualche difetto immaginario nel letto, e lo getterò tatto per aria, simultando la maggior collera del mondo. In mezzo a tante follie dirò che quello che faccio, lo faccio per lei, e griderò, e farò il demonio, perchè non possa dormire. Quest’è il vero segreto per domare una donna ribelle. Se qualcun altro ve ne fosse più mite, sarei ben lieto d’apprendarlo; e carità sarebbe l’insegnare un tal segreto. (esce)

SCENA II.

Padova. — Dinanzi alla casa di Battista.

Entrano Tranio e Ortensio.

Tran. Possibile, amico Licio, che Bianca ami un altro? Vi dico ch’io nutro intorno a lei le più belle speranze.

Or. Per provarvi la verità di quello che v’ho esposto, venite in disparte, ed osservate in qual modo egli le insegna. (si ritirano; entrano Bianca e Lucenzio)

Luc. Ebbene, approfittate voi di quello che leggete?

Bian. Che cosa leggete voi? rispondetemi prima.

Luc. Io leggo quel che professo, l’arte d’amare.

Bian. Possiate divenir maestro in tale arte.

Luc. Oh! lo diverrò, cara Bianca, se voi sarete la sovrana del mio cuore. (s’allontanano)

Or. (avanzandosi) Essi vanno innanzi presto in verità. Che ne dite ora voi, ve ne prego, voi che osavate giurare che Bianca non amava al mondo altro che Lucenzio.

Tran. Oh maledetto amore! Oh sesso incostante! Vi dico il vero, Licio, ch’io ne rimango stupido.

Or. Non v’illudete più a lungo: io non sono Licio, nè sono un maestro di musica, come sembro: sono un uomo che sdegna di continuare questo travestimento per amore d’una fanciulla, che preferisce a un gentiluomo un vil plebeo. Imparate, signore, ch’io mi chiamo Ortensio.

Tran. Signor Ortensio, ho spesso inteso parlare del vostro affetto per Bianca, e poichè i miei occhi son testimoni della sua leggerezza, vuo’ insieme con voi, se ciò vi piace, ripudiare Bianca e l’amore.

Or. Mirate come si accarezzano! Signor Lucenzio, ecco la mia mano; e con essa il giuramento irrevocabile di non più farle la corte, ma di rinunziare a lei, come ad un oggetto indegno degli omaggi che le ho fin qui prodigati.

Tran. Ed io fo qui il medesimo giuramento di non mai sposarla, quand’anche ella me ne supplicasse. Vergogna! Mirate con qual fervore essa gli favella.

Or. Vorrei che tutti, tranne colui, l’abbandonassero! Per me, onde mantenere inviolato il sacramento mio, mi ammoglierò con una ricca vedova prima che scorsi siano tre giorni. La vedova a cui accenno, mi ha amato lungo tempo, mentr’io facevo la corte a quella fanciulla ingrata e sprezzante. Addio, signor Lucenzio, me ne vado. Sarà l’affetto, e non la beltà delle donne che otterrà per l’avvenire il mio amore. Vi lascio nella ferma risoluzione che vi ho manifestata. (esce. Lucenzio e Bianca si avanzano)

Tran. Vaga Bianca, il Cielo vi conceda tutte le benedizioni che possono rendere un’amante felice! Grazie alla mia arte, Ortensio ha giurato di rinunziare per sempre a voi.

Bian. Tranio, voi celiate: avete entrambi rinunziato a me?

Tran. Sì, Bianca.

Luc. Siam noi dunque sicuri di Licio?

Tran. Sì, ed ei va per vendetta a sposare una vedova, dal cui fianco non vuole più discostarsi.

Bian. Dio lo faccia felice!

Tran. Ed egli la metterà alla ragione.

Bian. Ha detto così Tranio?

Tran. In verità, ed è corso alla scuola dove si apprende a metter le donne alla ragione.

Bian. Che scuola è questa? Esiste davvero tale scuola?

Tran. Sì, esiste, e Petrucchio ne è il maestro; è esso che insegna non so quante astuzie per ridurre una fanciulla cattiva alla saviezza, e toglierle ogni baldanza. (entra Biondello correndo)

Biond. Oh padrone ho tanto vegliato che mi sento stanco come un cane; ma alfine ho trovato un uomo onesto che ci servirà come vogliamo.

Tran. Chi è, Biondello?

Biond. Un mercante, o un pedante; non so qual dei due; ma grave nel contegno, e con tutte le apparenze di un padre.

Luc. E che ci faremo di lui, Tranio?

Tran. S’egli vuol lasciarsi persuadere, e vuol credere a quello ch’io gli dirò, terrò modo ch’ei rappresenti il personaggio di Vincenzo, e che si faccia cauzione di Battista Minola. Conducete via la vostra amante, e lasciateci con lui. (escono Luc. e Bian.; entra un Pedante)

Ped. Iddio vi salvi, signore.

Tran. E voi anche: siate il benvenuto. Andate lontano, e giungeste al termine della vostra via?

Ped. Al termine, signore, per una settimana, o due al più, ma dopo tal tempo andrò a Roma, e di là anche a Tripoli, se Dio mi concede la vita.

Tran. Di qual paese siete, vi prego?

Ped. Di Mantova.

Tran. Di Mantova, signore? Oh Cielo! a Dio non piaccia! e voi venite a Padova per avventurare così la vostra vita!

Ped. La mia vita? In qual modo? spiegatevi.

Tran. Corre rischio di morte ogni Mantovano che venga a Padova: forsechè non ne sapete la cagione? I vostri vascelli sono trattenuti nei porti di Venezia, e il doge per una contesa particolare, insorta fra lui e il principe vostro, ha fatto pubblicare e bandire dappertutto questo decreto. È bene da stupire che non ne abbiate inteso nulla: bisogna dire che non siate giunto in questo paese che da poco.

Ped. Oimè! e come farò, avendo cambiali di Firenze, che debbo scontare solo qui!

Tran. Per farvi servizio accudirò io a tale bisogna. Ma ditemi, siete mai stato a Pisa?

Ped. Sì, di sovente: è una città famosa per la gentilezza dei suoi abitanti.

Tran. Conoscete colà un certo Vincenzo?

Ped. Nol conobbi, ma udii parlare di lui: è un mercante di grandi ricchezze.

Tran. Egli è mio padre, signore, e a dir il vero somiglia un poco a voi.

Biond.(a parte) Come un pomo rassomiglia a un’ostrica.

Tran. Per mettere i vostri giorni in salvo in questo estremo perìcolo, a sua contemplazione, (poichè i vostri lineamenti ritraggono dei suoi) io farò per voi quanto posso: ma è necessario che voi prendiate il suo nome, e che veniate ad alloggiare, come se foste mio padre, in casa mia. — Pensate a compiere la vostra parte come dovete: m’intendete, signore? Voi resterete in casa mia finchè abbiate terminato i vostri negozii in questa città: se questo servigio vi piace non vi fate scrupolo di accettarlo.

Ped. Oh! ben volentieri, signore, e sempre di qui innanzi vi riguarderò come il protettore della mia vita e della mia libertà.

Tran. Andiamo, venite dunque con me, perchè ordiniamo il nostro disegno e sappiate quello che dovrete fare. Mio padre è aspettato qui da un giorno all’altro per essere cauzione di una dote, che mi deve dare una delle figlie di Battista, ricco cittadino di Padova; io vi istruirò di tutte le circostanze. Venite con me, signore, per vestirvi come la convenienza richiede. (escono)

SCENA III.

Entrano Caterina e Grumio.

Grum. No, no, in verità; io non l’oserei per la mia vita.

Cat. Più ei m’oltraggia, e più il suo carattere s’inasprisce. Mi ha egli sposata per farmi morire di fame? Gli accattoni che vanno alla porta di mio padre ottengono una limosina, o se è loro rifiutata, la trovano altrove. Ma io che non ho mai saputo pregare, e che non avevo avuto bisogno di farlo, io muoio d’inedia e di sonno: alimentata sono di grida e d’imprecazioni, e ciò che mi fa più disperare, è che egli pretende di provarmi con tutti questi mali trattamenti il suo amore. Si direbbe, ad udirlo, che se io assaggiassi di qualche cibo, o mi abbandonassi in preda al riposo, dovessi cader tosto malata, o anche morirne. Ti prego, Grumio, vammi a trovare qualche cosa da mangiare, quale che si sia.

Grum. Prendereste un piede di bue?

Cat. Sì, eccellente: fammelo recare.

Grum. Temo che non sia vivanda troppo biliosa. Meglio sarebbe forse un po’ di stufato.

Cat. Ebbene, buon Grumio, vammi a prendere quello che vuoi.

Grum. Non so, ma non vorrei far male. Forsechè una fetta di vitello sarebbe la pietanza più adatta per voi?

Cat. È pietanza che molto mi piace.

Grum. Ma dicono che accenda il sangue.

Cat. Non vi berrò dietro che acqua, e ne smorzerò ogni fuoco.

Grum. No, no, non voglio che vi indeboliate coll’acqua.

Cat. Ebbene berrò vino: farò quello che vorrai.

Grum. Il vitello e il vino, o il vitello solo debbo recare?

Cat. Vattene, esci di qui, villano scellerato, che ti piaci nell’insultarmi (battendolo). Sventura a te e a tutti i tuoi simili che si fanno qui un giuoco della mia miseria! Vattene, esci di qui, ti dico. (entra Petrucchio, recando una vivanda; e con lui Ortensio)

Pet. Come sta la mia diletta Caterina? Oh! siete voi piangente?

Or. Ebbene, signora, come state?

Cat. Non troppo bene. Te ne assicuro.

Pet. Rianimate i vostri spiriti, serenate i vostri occhi. Avvicinatevi, mio amore, e assidetevi al desco: ho fatta io stesso questa vivanda. (ponendo il piatto su la tavoìa) Sono sicuro cara Caterina, che codesto mio zelo mi otterrà la vostra riconoscenza. — Come! neppure una parola? Questo piatto non vi piace, lo veggo, e rimangono senza frutto tutte le mie fatiche. — Presto, portatelo via. (a Grumio)

Cat. Indugiate; lasciatelo qui.

Pet. Il più piccolo servizio ottiene riconoscenza, e mio ancora deve essere apprezzato prima che ne sentiate il vantaggio.

Cat. Ve ne ringrazio, signore.

Or. Via, Petrucchio, vergogna! Voi meritate biasimo! Venite, Caterina, io vi terrò compagnia.

Pet. (a parte) Fa di mangiar tu quella vivanda, Ortensio, se mi ami. — Desidero, Caterina, che ritorniate allegra. Mia dolce amica, noi ci porremo in viaggio fra breve verso la casa di tuo padre, dove tu ti mostrerai cogli abiti più eleganti: vesti di seta, ciarpe di Siria, anelli e catene d’oro, braccialetti d’ambra, e quant’altro è stato messo in maggior prezzo dal lusso umano. Hai tu pranzato? Il sartore aspetta per poterti prendere la misura degli abiti che dovrai indossare. (entra un sartore) Vieni, sartore, lasciaci vedere le tue stoffe. (finirà un merciaio) E voi, che ci recate voi?

Mer. Quest’è quel cappello, che vossignoria mi ha comandato.

Pet. Somiglia a una scodella; non mi piace, è indecente. — Portatelo via, e recatene uno più grande.

Cat. Non lo voglio più grande, questo è di moda, e porterò questo solo.

Pet. Quando sarete buona ne avrete anche uno così, ma non prima.

Or. (a parte) Ciò non avverrà fra breve.

Cat. Ma, signore, io credo che potrò almeno parlare: non sono una lattante. Persone, che valevano più di voi, non mi hanno impedito di dichiarare il mio pensiero; e se voi non potete udirmi parlare, chiudetevi le orecchie. La mia lingua vuole esalare tutto il cruccio del mio cuore, o a forza di comprimerlo, il mio cuore scoppierà: prima che espormi a tal disavventura, favellerò come mi piace.

Pet. Avete ragione è un brutto cappello, e siete di buon gusto dichiarandolo.

Cat. Di buon gusto o no, quel cappello mi piace, e l’avrò, o non ne porterò altri.

Pet. Ah! volete una veste? Vediamola, sartore. Oh! grazia di Dio, che razza di stoffa è cotesta? Che cosa v’è qui? Una manica? Si direbbe che fosse un mezzo cannone. È essa tutta uguale e di tale ampiezza? Per tutti i diavoli che specie di abito le hai tu fatto, sartore?

Or. (a parte) Da quello che preveggo, essa non avrà nè veste, nè cappello.

Sart. Voi mi comandaste di fare un abito di moda.

Pet. Sì, ve lo comandai, ma non vi dissi di fare un abito deforme, e di guastarlo per moda. Via, uscite di qui, e siate sicuro ch’io non verrò più da voi. Portate via questa goffa moda, che mi indispettisce.

Cat. Non ho mai veduta una veste più bella in vita mia. Da quello che mi sembra, voi vorrete vestirmi da bambola.

Pet. Sì, dici bene; quest’uomo farebbe di te una bambola.

Sart. La signora nota che siete voi, che farete di lei una bambola.

Pet. Oh eccesso d’insolenza! tu menti, figlio di un ago; auna, bottone, bavero mal tagliato. Verrai tu qui a ostentare la ridicola tua boria? Esci mentecatto, vile e abbietto sarto, o ti farò ricordare per tutta la vita della tua lingua insolente! Io ti dico anche una volta che tu le hai guastato quell’abito.

Sart. V’ingannate signore. Quell’abito è fatto come fu ordinato. Grumio, che me lo commise, potrà attestarlo.

Grum. Io non dissi nulla, recai solo la stoffa.

Sart. Ma come diceste che fosse tagliata?

Grum. Per bacco! colle forbici.

Sart. L’ordinazione sta scritta in questa carta: essa potrà giustificarmi.

Pet. Leggila.

Grum. Quella carta mente, se asserisce ch’io ho detto quello di cui egli mi accusa.

Sart. In primis, una veste larga ed ampia...

Grum. Se ho mai parlato di veste ampia e larga, ch’io sia bastonato. Dissi solo una veste.

Pet. (al Sart.) Continuate.

Sart. Col collo stretto, e ben guarnito.

Grum. È vero che questo l’ho detto.

Sart. Colle maniche arrovesciate...

Grum. Non più di due però.

Sart. E soppannate di raso chermisi.

Pet. Qui sta l’errore.

Grum. Sì, sta qui. Io comandai che le maniche fossero tagliate e poscia riunite. Non dissi nulla nè di fodera nè di raso.

Sart. Quello che io affermo, è vero; e se fossimo lungi di qui ve lo proverei.

Grum. Ti raggiungerò frappoco; prendi la tua carta e dammi la tua auna: lascia quindi fare a me.

Or. Veramente, Grumio, tu avresti così il vantaggio delle armi.

Pet. Alle corte, amico, quella veste non fa per me.

Grum. Avete ragione, perchè ella potrebbe servire solo alla vostra signora.

Pet. Portatela via, e il vostro padrone ne faccia quell’uso che stimerà migliore.

Grum. Miserabile, guarda bene che la veste della mia signora non debba servire ad alcun uso per tuo padrone.

Pet. Che cosa vuoi tu dire con ciò?

Grum. Oh! nulla; era un’idea che mi passava pel capo.

Pet. Ortensio (a parte), di’ che vuoi veder pagato il sartore. — Tu esci dunque di qui, e non infestarci più.

Or. Sartore, io ti pagherò dimani il tuo abito. Non isdegnarti di quello che egli ti disse nella sua collera. Vattene, e saluta il tuo padrone. (il Sart. esce)

Pet. Vieni, Caterina, noi andremo a vedere tuo padre; rimanti cogli abiti semplici che ora indossiamo: le nostre saccoccie saran turgide di oro, se i vestiti sono umili; ed è sempre l’anima che rende ricco il corpo. Come il sole traluce dalle nubi più tenebrose, così l’onore traspare dagli abiti più rozzi. La cornacchia è forse di maggior pregio della lodola, perchè la sua penna è più bella? il serpente val forse meglio dell’anguilla, perchè i suoi colori sono screziati? Oh no, no, cara Caterina: e così nulla tu scemi del prezzo tuo, essendo avvolta in quell’abito modesto. Se credi che vi sia vergogna, ponila sul conto mio. Via, sii lieta; noi partirem tosto per andare a celebrare una festa nella casa di tuo padre. Su via senz’altri indugii. Fateci trovare i cavalli alla fine del viale, dove andremo a piedi passeggiando. Non sono che le sette, e giungeremo in tempo per desinare.

Cat. Vi assicuro, signore, che son quasi le due, e passerà l’ora della cena prima che giunti siamo colà.

Pet. Saranno le sette quando monterem a cavallo. In qualunque cosa ch’io dica, ch’io faccia o ch’io abbia il disegno di fare, voi mi contraddite sempre. Io partirò all’ora che ho detto. (escono)

SCENA IV.

Padova. — Dinanzi alla casa di Battista.

Entrano Tranio e il Pedante vestito come Vincenzo.

Tran. Amico, quest’è la casa; volete che chiami?

Ped. Sì, che altro fare? e ben grande sarebbe l’inganno, se il signor Battista potesse ricordarsi dei miei lineamenti, dopo che sono scorsi venti anni, dacchè eravamo a Genova alloggiati insieme nell’albergo del Pegaso.

Tran. Tutto anderà bene; e in ogni caso, riempite la vostra parte con quella gravità che si addice ad un padre.

Ped. Siate quieto sul conto mio. — Ma ecco, signore, il vostro valletto che viene: sarebbe bene che gli faceste la lezione. (entra Biondello)

Tran. Non temete. Biondello, pensa a far il tuo dovere, e riguarda lui come il vero Vincenzo.

Biond. Riposate in me.

Tran. Ma hai tu fatto il tuo messaggio a Battista?

Biond. Gli ho annunziato che vostro padre era a Venezia, e che oggi l’aspettavate in Padova.

Tran. Sei un valente garzone, ed eccoti di che bere. — Viene Battista: assumete il vostro contegno, signore. (entrano Battista e Lucenzio) — Signor Battista, v’incontriamo a proposito. — Signore (al ped.) quest’è l’onest’uomo di cui vi ho parlato. Ve ne scongiuro, siate in questo momento un buon padre per me: datemi Bianca pel mio patrimonio.

Ped. Un momento, figlio. — Signore, vogliate ascoltarmi. Essendo venuto a Padova per riscuotere alcune somme che mi erano dovute, mio figlio Lucenzio mi ha istruito di un amore che v’è fra lui e vostra figlia; amore, che dopo gli elogi che mi vengono fatti di voi e la passione di questi giovani, sono inchinato ad approvare. Per non mandar quindi la cosa troppo per le lunghe, io acconsento da buono e tenero padre a veder conchiuse queste nozze e se la cosa non vi dispiace, noi ne fermeremo fra di noi gli articoli, e vedrete che nulla vi sarà a ridire.

Batt. Signore, vogliate scusarmi per quello ch’io vi risponderò. La vostra maniera franca ed aperta mi piace grandemente. È vero che vostro figlio ama la figlia mia, e che ne è riamato, perciò dite solo una parola; dite che tratterete vostro figlio da buon padre, e che farete a Bianca una bella contradote, e il patto sarà tosto stretto. Vostro figlio avrà mia figlia, di mio pieno consenso.

Tran. Vi ringrazio, signore. Andiamo; dove stimate voi bene che stendiamo gli articoli di questo contratto?

Batt. Non in mia casa, Lucenzio, perchè voi sapete che i muri hanno le orecchie, o ch’io ho una quantità di domestici curiosi. D’altra parte il vecchio Gremio sta sempre in agguato, e correremmo rischio di essere interrotti.

Tran. Ebbene, segua ciò dunque in casa mia, se lo reputate conveniente. É in essa che alberga anche mio padre, e là concerteremo bene il negozio questa sera fra di noi, senz’essere infestati. Mandate a prendere vostra figlia dal vostro domestico, e il mio andrà a cercare il notaio. Il male è che non essendone stato prevenuto, andrete incontro ad avere un banchetto assai poco splendido.

Batt. Ne sarò contento ad ogni modo, (a Luc. che ha preso il nome di Cambio) Cambio, rientrate, e dite a Bianca di vestirsi tosto: avvertitela di quel che è accaduto. Ditele che il padre di Lucenzio è giunto a Padova, e che è facile ch’ella divenga sposa di Lucenzio.

Luc. Prego gli Dei con tutto il cuore, perchè ciò accada.

Tran. Non invocare altri Dei e parti tosto. Signor Battista, volete seguirmi? Sarete il benvenuto: un piatto solo potrò imbandirvi, ma condito colla salsa di una verace amistà. Di tali digiuni ci vendicheremo poi a Pisa.

Batt. Vi seguo, signore. (esce con Tran. e il Ped.)

Biond. Cambio.....

Luc. Che dici, Biondello?

Biond. Voi avete veduto il mio padrone farvi d’occhio, e sorridere.

Luc. E che per ciò?

Biond. Oh! nulla; ma egli mi ha lasciato indietro per commentarvi quei due segni, e farvene manifesta la morale.

Luc. Udiamo il commento.

Biond. Eccolo. Battista è in ottime mani, dovendo trattare col padre ingannatore di un falso figlio.

Luc. Che vuoi tu dire di lui?

Biond. Sua figlia dev’essere condotta da voi a cena.

Luc. Ebbene?

Biond. Un vecchio prete della chiesa di san Luca sta aspettando i vostri ordini a tutte le ore.

Luc. Conchiudi una volta.

Biond. Ed essi vogliono stendere un falso atto 'cum privilegio ad imprimendum solum. Tali sono le vostre opere, tali le vostre intenzioni: io me ne lavo le mani. (andandosene)

Luc. Ascoltami, Biondello.

Biond. Non posso più restare. Ho conosciuto una fanciulla maritata improvvisamente, come se di niun conto fosse tale cerimonia: voi potreste ammogliarvi del pari, signore, e credo che intendiate di farlo. Addio, signore, il mio padrone mi ha comandato di andare alla chiesa di san Luca per dire al prete di star pronto, per quando voi arriverete colla vostra appendice. (esce)

Luc. Così ella mi segua com’io di buon grado v’andrò. Ma perchè dubiterei io del voler suo? Avvenga quello che vuole, io andrò in traccia di lei: troppa sciagura sarebbe che Cambio ritornasse senz’essa. (esce)

SCENA V.

Una strada pubblica.

Entrano Petrucchio, Caterina e Ortensio.

Pet. Venite, venite, in nome di Dio! siamo alla casa di vostro padre. Buon Dio! come splendida e bella mostrasi questa sera la luna!

Cat. La luna! è il sole: non vi è raggio di luna ora.

Pet. Vi dico che è la luna, che risplende così lucida.

Cat. Ed io so che è il sole che manda quello splendore.

Pet. Oh! pel figlio di mia madre, ossia per me stesso, sarà la luna, o una stella, o quello che mi pare. Sempre contraddite: torniamo indietro, tali opposizioni m’indispettiscono.

Or. (a Cat.) Dite com’egli vuole, o non arriveremo più a casa.

Cat. Ve ne prego, poichè siam venuti così da lontano, continuiamo, e sia pure la luna, o il sole, o tutto quello che vi piacerà. Se voleste anche che fosse una candela, vi giuro che tale io pure la chiamerei.

Pet. Dico che è la luna.

Cat. Io pure lo dico.

Pet. Mentite; è il benefico sole.

Cat. Dio sia benedetto! è il benefico sole: ma cessa di essere il sole dacchè voi dite che non lo è; e la luna muta a tenore delle vostre idee. Qualunque cosa però vogliate chiamarla, cosa eguale sarà anche per Caterina.

Or. Petrucchio, andiamo innanzi: il campo di battaglia è preso.

Pet. Bene, avanti, avanti: ecco come l’acqua deve correre senza trovare inciampi. — Ma silenzio: chi viene verso di noi? (entra Vincenzo in abito da viaggiatore) Buon giorno, bella donzella: dove andate? (a Vin.) Dimmi, cara Caterina, hai tu mai veduta una donna di più lieto aspetto? Quale amabile mescolanza di gigli e di rose sulle sue gote! Quali stelle fanno risplendere il firmamento di luce così pura, quanto quella di cui i suoi due begli occhi animano il suo celeste viso? Bella ed amabile signora, siate felice! Cara Caterina, abbracciala per la sua beltà.

Or. Ei farà diventar pazzo quell’uomo, volendogli far credere che è una femmina.

Cat. Giovine e vaga bellezza, fanciulla adorabile, dove andate voi? Dove è la vostra dimora? Felice il padre e la madre di così bella figliuola! più felice l’uomo cui la favorevole sua stella designa ad avervi per compagna!

Pet. Via dunque, Caterina, io credo che tu divenga folle: non vedi che è un uomo vecchio aggrinzito, e non una fanciulla come tu la chiami?

Cat. Perdono, venerabile vecchio, fu una delusione degli occhi che rimasero tanto abbagliati dal sole, che tutto quello ch’io veggo, mi sembra bleu: ora discerno bene che siete un rispettabile vecchio. Perdonatemi, vi prego, il mio errore insensato.

Pet. Sì, perdonateglielo, buon vecchio, e vogliate dirci da qual parte andate: se venite per la nostra via saremo lieti d’avervi a compagno.

Vin. Bel giovine, e voi gioviale signora, che mi avete sì stranamente incontrato, io vi saluto: il mio nome è Vincenzo; la mia casa è a Pisa, e vado a Padova per trovarvi un mio figlio che non ho veduto da lungo tempo.

Pet. Qual è il suo nome?

Vin. Lucenzio, mio nobile cavaliere.

Pet. L’incontro è dei più lieti, e torna in vera gioia per me figlio vostro, avvegnachè ora la legge, come la vostra venerabile età, mi autorizzano a chiamarvi col nome di padre. La sorella di mia moglie, di questa signora che qui vedete, è divenuta sposa, non ha molto, di vostro figlio. Non ne siate nè sorpreso, nè afflitto: quella fanciulla godeva di un’eccellente riputazione, ricchissima era la sua dote, illesi d’ogni taccia i suoi natali. Di più ella ha tante buone qualità, che sarebbe stata degna di divenire consorte del più nobile gentiluomo. Lasciate ch’io vi abbracci, venerabile e buon Vincenzo, e andiamo insieme a ritrovare il figlio vostro, cui il vostro arrivo colmerà di diletto.

Vin. Ma mi dite voi la verità, ovvero vi ricreate spacciandomi fole, come sogliono fare i viaggiatori nelle loro peregrinazioni?

Or. Vi assicuro, signore, che quello ch’egli dice è vero.

Pet. Inoltriamo e andiamo ad esserne testimoni oculari, perocchè veggo che la celia con cui ci siamo fatti incontro a voi vi lascia gravi sospetti sul nostro conto. (esce con Cat. e Vin.)

Or. Bene sta, Pctrucchio; ottima fu la tua lezione. Vo dalla mia vedova; e se ella persiste nel suo umore sdegnoso tu mi hai insegnato ad essere più triste di lei. (esce)






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