< La Merope
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Atto quinto
Atto quarto

ATTO QUINTO

SCENA I

Polidoro e FIgisto.

Egisto.   Padre, non piú, non piú; che se creduto

avessi io mai di tal recarti affanno,
morto sarei prima che por giá mai
fuor della soglia il piè. Fra pochi giorni
io ritornar pensai; ma strani tanto,
come pur ora i’ ti narrava, e tanto
acerbi casi sono in che m’avvenni,
ch’ebbi a bastanza nell’error la pena.
Polifonte.   Ma così va chi a senno suo si regge.
Egisto.   Tu mai piú declinar da’ tuoi voleri
non mi vedrai; e poiché fatto ha ’l cielo
che qui mi trovi, io ti prometto ogn’arte
ben tosto usar, perché mi sia concesso
partirmi e tornar teco al suol natio.
Polifonte.   S’ami il tuo suol natio, partir non déi.
Egisto.   Vuoi che lasci in dolor la madre antica?
Polifonte.   La madre tua qui ti desia.
Egisto.   Qui? forse
perch’ora ho il padre appresso?
Polifonte.   Anzi la madre
hai presso e il padre troppo lungi.
Egisto.   Come?

Che di’ tu mai? Qui tra le fauci a morte

sempre sarò; vuol Merope il mio sangue.
Polidoro.   Anzi ella il sangue suo per te darebbe.
Egisto.   Se giá due volte trucidar mi volle!
Polidoro.   Odio pareva, ed era estremo amore.
Egisto.   Me n’accorgeva io ben, se il re non era.
Polidoro.   Ma non t’accorgi ancor ch’ei vuolti estinto.
Egisto.   Se dall’altrui furore ei mi difese!
Polidoro.   Amor pareva, ed odio era mortale.
Egisto.   Padre, che parli? Quai viluppi e quali
nuovi enigmi son questi?
Polidoro.   O figlio mio,
o non piú figlio, è giunto il tempo omai
che l’enigma si sciolga, il ver si sveli,
giá t’ha condotto il fato ove non puoi
senza tuo rischio ignorar piú te stesso.
Perciò nel primo biancheggiar del giorno
a ricercarti io venni; alto segreto
scoprir ti deggio alfin.
Egisto.   Tu mi sospendi
l’animo, sí che il cor mi balza in petto.
Polidoro.   Sappi che tu non se’ chi credi; sappi
ch’io tuo padre non son. Tuo servo i’ sono;
né tu d’un servo, ma di re sei figlio.
Egisto.   Padre, mi beffi tu? scherzi, o ti prendi
gioco?
Polidoro.   Non scherzo no, che non è questa
materia o tempo da scherzar; richiama
tutti i tuoi spirti e ascolta: il nome tuo
non Egisto. è Cresfonte. Udisti mai
che Cresfonte giá re di questa terra
ebbe tre figli?
Egisto.   Udillo, e come uccisi
fur pargoletti.
Polidoro.   Non giá tutti uccisi
fur pargoletti, poiché il terzo d’essi
se’ tu.

Egisto.   Deh che mai narri!

Polidoro.   Il ver ti narro:
tu di quel re sei figlio; all’empie mani
di Polifonte Merope tua madre
ti sottrasse ed a me suo fido servo
ti dié, perch’io lá ti nodrissi occulto
e alla vendetta ti serbassi e al regno.
Egisto.   Son fuor di me per meraviglia e in forse
mi sto s’io creda o no.
Polidoro.   Creder mi dèi,
ché quanto dico, il giuro, e quella gemma
— gemma regal — Merope a me giá diede;
e spento or ti volea, perch’altri a torto
le asserí che rapita altrui l’avevi,
e l’omicida in te di te cercava.
Egisto.   Ora intendo, o gran Giove. Ed è pur vero
che mi trasformo in un momento e ch’io
piú non son io? D’un re son figlio? È dunque
mio questo regno, io son l’erede.
Polidoro.   È vero,
s’aspetta il regno a te, se’ tu l’erede.
Ma quanto e quanto...
Egisto.   In queste vene adunque
scorre il sangue d’Alcide. O come io sento
farmi di me maggior! Ah! se tu questo,
se questo sol tu mi scoprivi, io gli anni
giá non lasciavo in ozio viil sommersi;
grideria forse giá fama il mio nome;
e ravvisando omai l’erculee prove,
forse i messeni avrianmi accolto e infranto
avriano giá del rio tiranno il giogo.
I’ mi sentia ben io dentro il mio petto
un non so qual non ben inteso ardore,
che spronava i pensier, né sapea dove.
Polidoro.   E perciò appunto a te celar te stesso
doveasi; il tuo valor scopriati, e all’armi

di Polifonte e t’esponea all’inique

sue varie frodi.
Egisto.   In questo suolo adunque
fu di mio padre il sangue sparso? In questo
gl’innocenti fratelli... E quel ribaldo
pur anco regna? e va superbo ancora
del non suo scettro? Ah! fia per poco; io corro
a procacciarmi un ferro; immerger tutto
quel vo’ nel petto, qui fra mezzo a tutti
i suoi custodi; io vo’ che ciò senz’altro
segua; del resto avranne cura il cielo.
Polidoro.   Ferma.
Egisto.   Che vuoi?
Polidoro.   Dove ne vai?
Egisto.   Mi lascia.
Polidoro.   O cieca gioventú! Doventi guida
sconsigliato furor?
Egisto.   Perché t’affanni?
Polidoro.   La morte...
Egisto.   Altrui la porto.
Polidoro.   A te l’affretti.
Egisto.   Lasciami al fin.
Polidoro.   Deh, figlio mio — ché figlio
sempre ti chiamerò — vedimi a terra:
per questo bianco crin, per queste braccia,
con cui ti strinsi tante volte al petto,
se nulla appresso te l’amor, se nulla
pònno impetrar le lagrime, raffrena
cotesto insano ardir; pietá ti muova
della madre, del regno e di te stesso.
Egisto.   Padre, ché padre ben mi fosti, sorgi;
sorgi, ti prego, e taci; io vo’ che sempre
tal mi veggia vèr te, qual mi vedesti.
Ma non vuoi tu ch’omai m’armi a vendetta?
Polidoro.   Sí, voglio; a questo fin tutto finora
s’è fatto; ma le grandi ed ardue imprese

non precipizio, non furor, le guida

solo a buon fin saper, senno, consiglio,
dissimulare, antiveder, soffrire.
I giovani non sanno; io mostrerotti
come t’abbia a condur; ma creder dèi,
ché mi credea tuo padre ancora, e i saggi
suoi consigiier non disprezzaron mai
il mio parere. E pur quali uomin fûro!
Non ci son piú di quelle menti.
Egisto.   E credi
tu che se questo popolo scorgesse
l’odiato usurpator morder la terra,
e che s’io mi scoprissi, entro ogni core
non pugnasse per me l’antica fede?
Polidoro.   Qual fede? O figlio, or non son piú que’ tempi.
A tempo mio ben si vedea, ma ora
troppo intristito è ’l mondo e troppo iniqui
gli uomin son fatti. Io mi ricordo e voglio
narrarlo: erasi...
Egisto.   Taci, esce il tiranno.
Polidoro.   Fuggiam, ci occulteremo dietro quelle
colonne.

SCENA II

Polifonte e Adrasto.

Polifonte.   Tu m’affretti assai per tempo,

ben sollecito sei.
Adrasto.   Giá tutto è in punto.
Coronati di fior, le corna aurati
stannosi i tori al tempio; arabi fumi
di peregrino odor, di lieto suono
musici bossi empiono l’aria; immensa
turba è raccolta e giá festeggia e applaude.

Polidoro.   Or Merope si chiami. Io di condurla

a te lascio il pensier. Precorrer voglio
ed ostentarmi al volgo, esso schernendo
che non ha mente, ed i suoi sordi dèi
che non ebbero mai mente né senso.
Qual uom, qual dio tòrmi di man lo scettro
potrebbe or piú, poiché son ombra e polve
tutti color che giá potean sul regno
vantar diritto? Il mio valore, Adrasto,
il senno mio furo i miei dèi. Con questi
di privato destin scossi l’oltraggio,
e fra l’armi e fra ’l sangue e fra i perigli
a un soglio alfin m’apersi via; con questi
io fermo ci terrò per sempre il piede.
Fremano pur invan la terra e ’l cielo.
Parmi Merope udir; di lei tu prendi
cura, e s’ancor contrasta, un ferro in seno
vibrale al fine; e se con me non vuole,
a far sue nozze con Pluton sen vada.

SCENA III

Merope, Ismene e Adrasto.

Merope.   O qual supplizio, Ismene, o qual tormento

Ismene.   Fa core al fin.
Merope.   Mai non mi diero i dèi
senza un ugual disastro una ventura.
Ismene.   Vinci te stessa e ai lieti dì ti serba.
Merope.   Cresfonte mio, per te soffrir m’è forza.
Adrasto.   Reina, io pur t’attendo: or che piú badi?
Merope.   Di malvagio signor servo peggiore.
Adrasto.   Ad opra cosí lieta in mesto ammanto?
Merope.   Del sommo interno affanno esso fa fede.
Adrasto.   Offende quest’affanno il tuo consorte.

Merope.   Che di’ tu? Non per anco è mio consorte.

Adrasto.   O questo, o de’ tuoi cari un fiero scempio.
Merope.   Pensamento maligno, empio, infernale!
Ismene. (in disparte) Cedi, cedi al destin; non far che guasto
resti il gran colpo giá a scoccar vicino.
Merope.   Questo è il solo pensier che pur mi frena
dal trapassarmi il sen; questa è la speme
per cui ceder vorrei, per cui mi sforzo
far violenza al cor. Ma oimé rifugge
l’animo e si disdegna e inorridisce.
Adrasto.   Se di strage novella or or non vuoi
carco vedere il suol, tronca ogn’indugio;
condur per me si dèe la sposa al tempio.
Merope.   Di’ piú tosto la vittima.
Adrasto.   E che? Forse
nuovo parrá, qualora pur si veggia
regal donna esser vittima di stato?
Merope.   Ma si vada: sul fatto i dèi fors’anco
nuovo nel cor m’accenderan consiglio.
Andianne, Ismene, omai.

SCENA IV

Egisto e Polidoro.

Egisto.   Quella è mia madre,

ch’or strascinata è lá?
Polidoro.   Ben duro passo
è quello a cui l’astringe il fier tiranno.
Ma che s’ha a far? Forse da questo male
alcun ben n’uscirá: la sofferenza
e l’adattarsi al tempo non di rado
han cangiato in antidoto il veleno.
Egisto.   Io men vo’ gire al tempio e la solenne
pompa veder.

Polidoro.   Vanne; curiosa brama

punge i cor giovinetti: vanne, figlio,
ch’io seguir non ti posso; a quella calca
reggere i’ non potrei. Se tal mi fossi
qual era allor che i lunghi interi giorni
seguiva in caccia il padre tuo, ben franco
accompagnare i’ ti vorrei; ma ora,
se il desio mi sospinge il piè vien manco.
Vanne, ma avverti ognor che di tua madre
l’occhio sopra di te cader non possa.
Egisto.   Vano è che tu di ciò pensier ti prenda.

SCENA V

Polidoro e poi Euriso.

Polidoro.   Ben ebbe avverse al nascer suo le stelle

quella misera donna. O quanto egli erra
chiunque dall’altezza dello stato
felicitá misura! E quanto insano
è ’l vulgo che si crede ne’ superbi
palagi albergo aver sempre allegrezza!
Chi presso a’ grandi vive a pien conosce
che, quant’è piú sublime la fortuna,
tanto i disastri son piú gravi, e tanto
piú atroci i casi, piú le cure acerbe.
Euriso.   Ospite, ancor se’ qui? Molto m’è caro
di rivederti; ma tu fermo hai ’l piede
in reggia scelerata, in suol crudele.
Polidoro.   Amico, il mondo tutto è pien di guai;
terra è facil cangiar, ma non ventura.
Piacque cosí agli dèi. Miser chi crede
— e pur chi non lo crede? — i giorni suoi
menar lieti e tranquilli. È questa vita
tutta un inganno, e trapassar si suole

sperando il bene e sostenendo il male.

Euriso.   Ma perché tu, che forastier qui sei,
non vai nel tempio a rimirar la pompa
del ricco sagrificio?
Polidoro.   Oh! curioso
punto i’ non son; passò stagione, assai
veduti ho sagrifici. Io mi ricordo
di quello ancora, quando il re Cresfonte
incominciò a regnar. Quella fu pompa!
Ora piú non si fanno a questi tempi
di cotai sagrifici. Piú di cento
fur le bestie svenate; i sacerdoti
risplendean tutti, e dove ti volgessi,
altro non si vedea che argento ed oro.
Ma ben panrmi che a te caler dovrebbe
l’imeneo de’ tuoi re.
Euriso.   Deh, se sapessi
in che dee terminar tanto apparato
di gioia! Io non ho cor per ritrovarmi
presente a sì funesto, orribil caso.
Polidoro.   Qual caso avvenir può?
Euriso.   S’hai giá contezza
di questa casa, tu ignorar non puoi
quanto a Merope amare e quanto infauste
sien queste nozze. Or sappi ch’ella in core
giá si fermò, dove a sì duro passo
costretta fosse, in mezzo al tempio, a vista
del popol tutto trapassarsi il core.
Cosí sottrarsi elegge, e si lusinga
che a spettacol sì atroce al fin si scuota
il popol neghittoso e sul tiranno
si scagli e ’l faccia a pezzi. Ella è purtroppo
donna da ciò; senz’altro il fa. Sull’alba
mandò per me con somma fretta; il cielo
fe’ che non giunsi a tempo; ella per certo
darmi volea l’ultimo addio. Infelice,

sventurata reina!

Polidoro.   Oh come il core
trafitto or m’hai! ben la vid’io partire
trasfigurata e di pallor mortale
giá tinta. O acerbo, o lagrimevol fine
d’una tanta reina!
KEuriso.   Ma non odi
dal vicin tempio alto romor?
Polidoro.   Ben parmi
d’udire alcuna cosa.
Euriso.   Al certo è fatto
il colpo, e se perciò sorse tumulto,
la sorte dei miglior’ correr vo’ anch’io.

SCENA VI

Polidoro, poi Ismene.

Polidoro.   O me infelice! E che giovaron mai

tanti rischi e sudori Senza costei
che piú far si potrá?
Ismene.   Pietosi Numi,
non ci abbandoni in questo dí la nostra
vita.
Polidoro.   Oimé, figlia, ove vai? Deh ascolta.
Ismene.   Vecchio, che fai tu qui? Non sai tu nulla?
Sagrificio inaudito, umano sangue,
vittima regia...
Polidoro.   O destino! In qua! punto
mi traesti tu qua!
Ismene.   Che hai? Tu dunque,
tu piangi Polifonte?
Polidoro.   Polifonte?
Ismene.   Si, Polifonte; entro il suo sangue ei giace.
Polidoro.   Ma chi l’uccise?

Ismene.   Il figlio tuo l’uccise.

Polidoro.   Colá, nel tempio? O smisurato ardire!
Ismene.   Taci ch’ei fece un colpo, onde il suo nome
cinto di gloria ad ogni etá sen vada;
gli eroi giá vinse e la sua prima impresa
le tante forse del grand’avo oscura.
Era giá in punto il sagrificio, e i peli
del capo il sacerdote avea giá tronchi
al toro per gittargli entro la fiamma;
stava da un lato il re, dall’altro in atto
di chi a morir sen va Merope; intorno
la varia turba, rimirando immota
e taciturna. Io, ch’era alquanto in alto,
vidi Cresfonte aprir la folla e innanzi
farsi a gran pena, acceso in volto e tutto
da quel di pria diverso; a sboccar venne
poco lungi dall’ara e ritrovossi
dietro appunto al tiranno. Allora stette
alquanto, altero e fosco, e l’occhio bieco
girò d’intorno. Qui il narrar vien manco:
poiché la sacra preparata scure,
che fra patere e vasi aveva innanzi,
l’afferrare a due mani e orribilmente
calarla e all’empio re fenderne il collo
fu un sol momento; e fu in un punto solo
ch’io vidi il ferro lampeggiare in aria
e che il misero a terra stramazzò.
Del sacerdote in sulla bianca veste
lo spruzzo rosseggiò; piú gridi alzarsi,
ma in terra i colpi ei replicava. Adrasto,
ch’era vicin, ben si avventò; ma il fiero
giovane qual cignal si volse e in seno
gli piantò la bipenne. Or chi la madre
pinger potrebbe? Si scagliò qual tigre,
si pose innanzi al figlio ed a chi incontra
veniagli opponea il petto. Alto gridava

in tronche voci: — È figlio mio, è Cresfonte;

questi è ’l re vostro; — ma il romor, la calca
tutto opprimea: chi vuol fuggir, chi innanzi
vuol farsi; or spinta or risospinta ondeggia,
qual messe al vento, la confusa turba
e lo perché non sa: correr, ritrarsi,
urtare, interrogar, fremer, dolersi,
urli, stridi, terror, fanciulli oppressi,
donne sossopra, oh fiera scena! Il toro,
lasciato in sua balia, spavento accresce,
e salta e mugge: echeggia d’alto il tempio;
chi s’affanna d’uscir preme e s’ingorga
e per troppo affrettar ritarda. In vano
le guardie lá, che custodian le porte,
si sforzaro d’entrar, che la corrente
le svolse e seco alfin le trasse. Intanto
erasi intorno a noi drappel ridotto
d’antichi amici; sfavillavan gli occhi
dell’ardito Cresfonte, e altero e franco
s’avviò per uscir fra i suoi ristretto.
Io che disgiunta ne rimasi, al fosco
adito angusto che al palagio guida
mi corsi, e gli occhi rivolgendo io vidi
sfigurato e convolto — orribil vista! —
spaccato il capo e ’l fianco, in mar di sangue
Polifonte giacer; prosteso Adrasto
ingombrava la terra, e semivivo
contorcendosi ancor, mi fe’ spavento,
gli occhi appannati nel singhiozzo aprendo.
Rovesciata era l’ara e sparsa e infranti
canestri e vasi e tripodi e coltelli.
Ma che bado io piú qui? Dar l’armi ai servi,
assicurar le porte e far ripari
tosto si converrá, ch’aspro fra poco
senz’alcun dubbio soffriremo assalto.

SCENA VII

Polidoro, poi Merope, Egisto, Euriso con séguito d’altri.

Polidoro.   Senza del vostro alto, immortal consiglio

giá non veggiam sí fatti casi, o Dèi.
Voi dal cielo assistete. O membra mie,
perché non séte or voi quai foste un tempo?
Come pronto e feroce or io... Ma ecco...
Merope.   Sí sí, o messeni, il giuro ancora: è questi,
questi è il mio terzo figlio; io ’l trafugai,
io l’occultai finor; questi è l’erede,
questi del vostro buon Cresfonte è il sangue:
di quel Cresfonte che non ben sapeste
se fosse padre o re, di quel Cresfonte
che sí a lungo piangeste. Or vi sovvenga
quanto ei fu giusto e liberale e mite.
Colui che lá dentro il suo sangue è involto
è quel tiranno, è quel ladron, quell’empio
ribelle, usurpator che a tradimento
del legittimo re, de’ figli imbelli
trafisse il sen, sparse le membra; è quegli
ch’ogni dritto violò, che prese a scherno
le leggi e i dèi; che non fu sazio mai
né d’oro, né di sangue, che per vani
sospetti trucidò tanti infelici
ed il cener ne sparse, e fin le mura
arse spiantò distrusse. A qual di voi
padre o fratel, figlio, congiunto o amico
non avrá tolto? E dubitate ancora?
Forse non v’accertate ancor che questi
sia il figlio mio? sia di Cresfonte il figlio?
Se alle parole mie non lo credete,
credetelo al mio cor; credete a questo

furor d’affetto che m’ha invasa e tutta

m’agita e avvampa: eccovi il vecchio, il cielo
mel mandò innanzi, il vecchio che nodrillo.
Polidoro.   Io, io...
Merope.   Ma che? che testimon? che prove?
Questo colpo lo prova: in fresca etate
non s’atterran tiranni in mezzo a un tempio
da chi discende altronde e nelle vene
non ha il sangue d’Alcide. E qual speranza
or piú contro di noi nodrir potranno
Elide e Sparta, se dell’armi vostre
sia conduttor sí fatto eroe?
Euriso.   Reina,
nasce il nostro tacer sol da profonda
meraviglia che il petto ancor c’ingombra,
e piú d’ogni altro a me; ma non pertanto
certa sii pur ch’ognuna che qui tu vedi
correr vuol teco una medesima sorte.
Sparso è nel popol giá che di Cresfonte
è questi il figlio; se l’antico affetto
o se piú in esso stupidezza e oblio
potran, vedremo or or; ma in ogni evento
contro i seguaci del tiranno e l’armi
il nostro re — che nostro re pur sia —
avrá nel nostro petto argine e scudo.
Egisto.   Timor si sgombri; che se meco amici
voi siete, io d’armi e di furor mi rido.

SCENA ULTIMA

Ismene e detti.

Ismene.   Che fai, regina? Che piú badi?

Merope.   Oimé,
che porti?

Ismene.   Il gran cortil... non odi i gridi?

Corri e conduci il figlio.
Egisto.   Io, io v’accorro.
Resta, reina.
Ismene.   Il gran cortile è pieno
d’immensa turba, uomini e donne; ognuno
chiede l’eroe che ’l fier tiranno uccise,
veder vorrebbe ognuno il re novello.
Chi rammenta Cresfonte e chi descrive
il giovinetto; altri domanda ed altri
narra la cosa in cento modi. I «viva»
fendono l’aria; infino i fanciulletti
batton le man per allegrezza; è forza,
credi, egli è forza lagrimar di gioia.
Merope.   O lodato sia tu che tutto reggi
e che tutto disponi. Andiamo, o caro
figlio, tu sei giá re; troppo felice
oggi son io; senza dimora andianne.
finché bolle nei cor sí bel desio.
Egisto.   Credete, amici, che sí cara madre
M’è assai piú caro d’acquistar che il regno.
Polidoro.   Giove, or quando ti piace, ai giorni miei
imponi pur il fin: de’ miei desiri
veduta è giá la mèta; altro non chieggio.
Egisto.   Reina, a questo vecchio io render mai
ciò che gli debbo non potrei; permetti
che a tenerlo per padre io segua ognora.
Merope.   Io piú di te gli debbo, e assai mi piace
di scorgerti sí grato e che il tuo primo
atto e pensier di re virtú governi.



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