< La Scimitarra di Budda
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22. Yuen-Kiang
21. Il passaggio del Kou-Kiang 23. Le pazzie di due fumatori d'oppio

22.

YUEN-KIANG


Yuen-Kiang è una delle migliori cittadelle della provincia di Yun-Nan. Non è grande, non è molto popolosa, non è fortificata, non ha superbi monumenti, ma ha belle strade larghe e diritte, ombreggiate da tamarindi e da mangostani, numerosi giardini, belle casette dipinte a vivi colori, moltissime capanne e due o tre templi buddisti.

La sua popolazione raggiunge una bella cifra, ma, quantunque la città sia quasi nel cuore dell'Yun-Nan, non è tutta cinese. Vi si incontrano molti birmani, molti lanjani e non pochi tonchinesi e siamesi.

Il commercio poi vi è vivissimo. Numerose carovane provengono dal Kouan-Sì, dal Tonchino, dal Laos e dal Siam, cariche di ricchi prodotti, e altrettante ne partono. Di più, salgono il fiume moltissime barche e qualcuna ne discende dalle province settentrionali.

Non è a dire quale emozione provarono gli intrepidi avventurieri nel mirare quella cittadella che, al dire dei cinesi, racchiudeva in uno dei suoi templi la famosa Scimitarra di Budda. Il Capitano, James, il polacco e perfino il piccolo cinese erano profondamente commossi.

– Diavolo! – esclamò l'americano. – Sento il cuore battermi in istrana guisa. Spero e temo. Dannata Scimitarra. Commuovere il cuore di uno yankee! È incredibile!

– E se vi dicessi che batte anche il mio, che direste? – chiese il Capitano.

– Dirò allora che quell'arma ci ha stregati tutti e due.

– Tutti e tre – disse Casimiro.

– Tutti e quattro – disse il piccolo cinese.

– Una commozione generale, adunque! La trovassimo almeno quella Scimitarra!

– La troveremo, James – disse il Capitano.

– Ma se non ci fosse? – insisté l'americano.

– Andremo in Birmania.

– E se non ci fosse nemmeno là?

– Cammineremo finché la troveremo.

– Questo si chiama parlar chiaro. Dove voi ci condurrete noi verremo, anche all'inferno. M'incarico io di pigliare messer Belzebù pel naso.

– Vi scotterete le dita – disse Casimiro scherzando.

– Poco importa, ragazzo. Perderei volentieri due dita, pur di afferrare la Scimitarra di quel cretino di Budda.

Così discorrendo, gli avventurieri erano giunti presso una grossa borgata. Il Capitano, non amando di mostrarsi così malandato, sporco, stracciato, senza coda e col volto bianco, condusse i compagni in mezzo a una piantagione di bambù per passarvi la notte e per fare un po' di toletta.

Mangiarono alla meglio, senza accendere il fuoco per non attirare l'attenzione dei contadini; rizzarono la tenda e si cacciarono sotto aspettando pazientemente l'alba.

Tutta la notte udirono grida d'uomini e nitriti di cavalli. Erano carovane che si dirigevano verso Yuen-Kiang, provenienti dalle vicine province del Laos, dal Tonchino e fors'anche dal Siam, cariche di sete, di zuccheri, di essenze odorose e di preziose vernici.

Ai primi albori il Capitano, l'americano, il polacco e il cinese erano in piedi. Si accomodarono bene le vesti, si fissarono sulla nuca la lunga coda, si rasero e si dipinsero il volto con acqua giallastra ottenuta col succo di una radice, si copersero gli occhi con occhiali affumicati e, saliti sui cavalli si misero in marcia, preceduti dal cannoniere-spaccamonti.

Yuen-Kiang scintillava sotto i primi raggi del sole, a un miglio di distanza. Attorno, sulle colline, scorgevansi bei palazzini coi tetti acuminati e sormontati dalle solite antenne, banderuole e orifiamme, e qualche vecchio fortino, ma assai malandato. La via era larga, ombreggiata da una doppia fila di tek e fiancheggiata da belle capanne. Numerose carovane la percorrevano, composte di gran quantità di cavalli carichi e scortate da compagnie di soldati di ventura armati di lance, di catane giapponesi, di sciaboloni del Medio Evo, d'archibugi a pietra e perfino a miccia. E tutti salutavano i viaggiatori con un cortese isin isin e una graziosa mossa delle mani. L'americano si ringalluzziva.

– Toh! – esclamò egli. – Che ci credano principi?

– È proprio così – rispose Min-Sì. – Avete sul vostro petto un drago con quattro unghie che può passare per una decorazione principesca.

– Lo dici per burla?

– Parlo seriamente.

– E tu dici che mi credono un principe? Ma allora a Yuen-Kiang desterò grande entusiasmo. Un principe a Yuen-Kiang! Se le cose vanno bene...

– Che cosa farete? – chiese il Capitano.

– Susciterò una sommossa popolare e mi farò creare principe o re di Yuen-Kiang!

– Non commettete simili pazzie, James. Sarebbero capaci di massacrarvi a colpi di bambù, o di tagliarvi in diecimila pezzi nel pozzo dei traditori.

– Brrr! Mi fate venire i brividi.

– Zitto – disse il cinese. – Eccoci a Yuen-Kiang.

Erano infatti giunti a poche centinaia di passi dalle porte della città, che erano difese da grosse torri semidiroccate e guardate da alcuni soldati armati di larghe sciabole, di vecchi archibugi e di lunghe lance.

I viaggiatori si calarono i cappelli sugli occhi, volsero all'ingiù i baffi e, sferzate le cavalcature, entrarono in città col pugno sull'anca.

Nessuno di quei soldati ardì fermare quel drappello; anzi più di uno, credendo realmente di aver a che fare con un principe decorato del drago a quattro unghie, salutò; la qual cosa inorgoglì e non poco lo yankee.

– Cospetto! – esclamò egli, facendo caracollare la sua slombata cavalcatura. – Se cominciamo così, faremo molto fracasso in città.

– Zitto, eterno ciarlone – disse il Capitano. – Badate di non schiacciare la gente.

L'avvertimento non era inutile, poiché la via che percorrevano, bella assai, larga, ombreggiata da tamarindi e fiancheggiata da casette, era ingombra di gente assai affaccendata.

Cinesi, birmani, lanjani, cambogiani, siamesi e persino indiani andavano e venivano, o chiacchieravano, o questionavano.

– Largo! Largo! – tuonò l'americano.

– Muovetevi di lì, poltroni! – gridò il polacco.

– Frusta, ragazzo, frusta!

Il giovinotto non se lo fece ripetere e si mise a frustare la gente a dritta e a manca, poco badando se colpiva le spalle o la faccia. A furia di grida e di frustate, dopo dieci minuti entravano nel cortile di un albergo, uno dei più belli della città.

Consegnati i cavalli ad alcuni stallieri che si erano affrettati ad accorrere, chiamarono il padrone e si fecero condurre nel migliore appartamento, composto di quattro spaziose stanze, ammobigliate con qualche lusso. Divorato un lauto pranzo composto di testa di cinghiale in salsa piccante, di proboscide d'elefante cotta in forno, di topi fritti nel burro, di prosciutti, di uova e di grandi caraffe di liquori, il Capitano prese la parola.

– Amici miei, – disse – raccomando prima di tutto, ora che siamo giunti nel cuore della piazza, la massima prudenza e la massima segretezza. Una parola che vi sfugga basta per mandare a male i nostri sforzi e i nostri sacrifici e fors'anche può costarci la vita.

– Sarò più muto di un pesce – disse James. – Ma come faremo noi a sapere ove celasi la Scimitarra?

– La cosa non è tanto difficile quanto sembra. Coi liquori si fanno sciogliere molte lingue.

– Si tratta forse di ubriacare delle persone?

– Precisamente, James. Ci cacceremo nelle taverne, ubriacheremo facchini, soldati, barcaioli, borghesi e poi li faremo parlare.

– Bel piano! – esclamò lo yankee. – L'ho sempre detto che avete una gran testa. Ma potrà un principe come sono io, decorato del drago a quattro artigli, entrare in una taverna?

– Vi daremo una veste da contadino e da barcaiolo.

– Che! – esclamò lo yankee, facendo una brutta smorfia. – Volete farmi diventare un galeotto?

– La Scimitarra di Budda lo esige.

– Dannata Scimitarra! Orsù, non si può fare a meno. E voi che veste indosserete?

– Una qualunque. Se volete, mi vestirò da straccione.

– Che bella truppa! Se ci vedessero i nostri amici di Canton!

– Fortunatamente non ci vedranno, James.

Il piccolo cinese s'incaricò di provvedere le vesti necessarie, e fu così svelto che una mezz'ora dopo entrava carico di costumi cinesi, birmani e tonchinesi, ricchi gli uni, stracciati gli altri, acquistati da un mercante di cenci.

L'americano, che li passava in rivista, trovò una tonaca da bonzo.

– Se io la indossassi! – esclamò.

– Per farne che? – chiese il Capitano.

– Per entrare nelle bonzerie a chiedere notizie. Ah! Che magnifica idea!

– Tanto magnifica che non vi permetterò mai di indossare quella veste. Voi volete farvi bastonare o condannare alla cangue.

– Toh! Cos'è questa lunga veste di seta nera?

– Una veste da letterato – rispose Min-Sì.

– Se diventassi letterato?

– Nessuno ve lo impedisce – disse il Capitano. – Purché non vi salti il ticchio di mettervi a predicare per le strade.

– Sarò prudente, Giorgio. Ve lo prometto.

La toletta fu fatta in brevi istanti. Il Capitano vestito da ricco borghese, il cinese da birmano, il polacco da campagnolo delle frontiere meridionali e l'americano da letterato di terzo ordine, uscirono sulla piazza che era ingombra di gente.

L'americano si fece subito largo dispensando a destra e a manca qualche scappellotto e perfino qualche calcio.

– Modi più cortesi, sir James – disse il polacco che scoppiava dalle risa. – Se vi fate largo a calci e a scappellotti, vi farete odiare dalla maramaglia.

– Bah! – fe' l'americano. – Un letterato par mio deve avere il passo libero. Tanto peggio pei poltroni. Largo, largo, o vi prendo per la coda.

Il feroce letterato stava per pigliare pel naso un cinese che non era stato pronto a tirarsi da parte, quando la sua attenzione venne attirata da un gruppo di sette od otto donne cinesi dell'aristocrazia.

Quelle dame, che venivano innanzi con un dondolamento tutt'altro che grazioso, dovuto alla estrema piccolezza dei loro piedi crudelmente imprigionati nelle niuhiai o scarpette invisibili, vestivano con molta eleganza ed erano belline tanto; almeno così le trovò il letterato.

Media era la loro statura e smilza; piccoli, bene tagliati, un po' obliqui e dolci gli occhi, piccolissima la bocca, rosse le labbra e lunga e nera come l'ala di un corvo la capigliatura, ornata di una testa di palombo dorato o di una testa di drago. Il loro vestito si componeva di una casacca di seta azzurra, di un paio di larghi calzoni e di una sottana magnificamente ricamata, e che tenevano raccolta ad uno dei lati, colla mano.

– Corpo di un cannone! – esclamò il polacco, che faceva ad una di esse gli occhi dolci, ma senza fortuna. – Davvero che sono belline quelle cinesi. Se non rullassero come i lupi di mare, sarebbero doppiamente belle.

– Quel rullìo dipende forse dalla piccolezza dei piedi? – chiese James che arricciava i baffi per farsi meglio ammirare.

– L'avete detto – rispose il Capitano.

– Sono molto piccoli? – chiese Casimiro.

– Quanto la mano di una donna europea e forse meno.

– E come ottengono ciò, Capitano?

– Colle fasciature. Appena nasce una bambina, la madre le imprigiona i piedi così strettamente da arrestarne quasi del tutto lo sviluppo.

– Ma ciò deve cagionare grandi dolori.

– In principio, sì. Non credere però che tutte le cinesi abbiano i piedi così piccini. Le contadine, le barcaiole e molte donne della borghesia li lasciano crescere liberamente.

– Ditemi, Capitano, non vi sembrano dipinte quelle donne?

– E come! Le cinesi, nel dipingersi, danno dei punti a tutte le donne d'Europa e d'America. Ti basti sapere che, al tempo della dinastia dei Ming, la sola reggia consumava ogni anno per le tolette delle donne la enorme somma di dieci milioni di lire! Capisci, Casimiro, dieci milioni di lire fra biacca e cinabro.

– Corbezzoli! Quelle principesse si dipingevano certamente cinquanta volte al giorno.

Così discorrendo erano giunti sul molo del Kou-Kiang. L'americano additò a Giorgio una taverna di brutto aspetto, dinanzi la quale c'era un rozzo altare con suvvi una brutta statua che voleva figurare la dea del piacere.

– Cacciamoci là dentro – disse. – Vi raccoglieremo delle buone notizie.

– Andiamo pure – rispose il Capitano. – Ma prudenza e state in guardia colle vostre solite esclamazioni Americane. Qui si parla cinese.

Accomodatisi gli occhiali e calatisi i cappelli sulla fronte, entrarono nella taverna, chiamata pomposamente «giardinetto di thè», per sei o sette arbusti che intristivano dentro enormi vasi di porcellana.

Fattisi largo fra la gente che ingombrava la negra ma abbastanza vasta sala, sedettero attorno ad un tavolo, ordinando del thè e un vaso di sam-sciù.

– James, – disse il Capitano, mostrandogli un piccolo cinese che centellinava una tazza di liquore all'estremità del tavolo – ecco là un borghese che non ha l'aria di essere ignorante come un barcaiolo. Ponetevi a lui vicino e intavolate un discorso. Noi penseremo a tirare in campo la Scimitarra di Budda.

L'americano non chiedeva di meglio e appiccò, senza preamboli, discorso col piccolo borghese, il quale, superbo di essere interrogato da un letterato, s'affrettò a rispondere.

Lo yankee, per dare un saggio della sua sapienza, si mise a parlare di commercio, di agricoltura, di marina, di politica, di astronomia, di matematica, di storia, confondendo un imperatore con un altro e sballandone così di grosse da far scoppiare dalle risa il polacco e andare in bestia il Capitano che gli pestava i piedi perché si arrestasse.

Il povero borghese, stordito da quel torrente di parole, aveva dimenticato la sua tazza e l'ascoltava colla bocca aperta e gli occhi sbarrati, domandandosi se aveva dinanzi il più illustre letterato dell'impero. Non ardiva interromperlo, e l'americano, incoraggiato da quel silenzio, continuava colla velocità di uno steamer lanciato a tutto vapore, spropositando enormemente, impaperandosi, servendosi un po' del cinese e un po' dell'inglese per spiegare tutta quella roba da chiodi. Un vigoroso urto del Capitano lo avvertì che era tempo di arrestarsi e di tirare in campo la Scimitarra di Budda. Quantunque in quel momento parlasse di politica, balzò repentinamente sulle religioni e, dopo una chiacchierata di un quarto d'ora, pronunciò il gran nome di Budda.

– Come vi dicevo, – continuò egli, filando colla medesima rapidità – Budda era un grande uomo nato in India quando la Cina non si era ancora costituita in impero. A' suoi tempi fu un grande guerriero e lasciò dentro una grotta la sua Scimitarra, che fu trovata verso il 1790 da un principe cinese, il quale la regalò all'imperatore Khieng-Lung. Avete mai udito parlare di questa Scimitarra?

– Sì, ne ho udito parlare – rispose il cinese.

– Bene, dovete sapere che questa famosa Scimitarra poco tempo dopo veniva rubata e nascosta a Yuen-Kiang. È vero questo? Voi dovete saperne qualche cosa.

– A Yuen-Kiang!... Mio illustre letterato, voi volete scherzare!

– Birbante! – esclamò l'americano. – Credi tu che un letterato sia capace di scherzare? Orsù, parla, spicciati. Io non me ne andrò da Yuen-Kiang, senza aver veduto la miracolosa Scimitarra.

– Ma non so nulla – insistette il borghese, che aveva bevuto un po' troppo. – Voi, illustre letterato, che sapete tante cose, dovete pur sapere e meglio di me ove trovasi.

– Al diavolo l'illustre letterato, – esclamò James, che cominciava a perder la pazienza – di' su, brutto muso giallo, io lo voglio.

– Ma che letterato siete voi?

– Un letterato che ti romperà le costole, se ti ostini a tacere.

Il cinese impallidì e cercò di battersela, ma l'americano lo aveva pigliato pel collo e aveva incominciato a stringere. Giorgio si slanciò verso di lui respingendolo.

– Ma siete pazzo? Non vedete che tutti vi guardano? – disse. – Vi pare? Un letterato che strangola un onesto borghese!

– Ma non vedete che si ostina a tacere?

– Che importa? Ne cercheremo un altro.

– Se si comincia così, non si saprà mai nulla.

– Pazienza, James. Non bisogna aver fretta.

In quel giorno non riuscirono a saperne di più, quantunque interrogassero altri due bevitori dopo averli bene ubriacati. Cosa strana! Tutti dichiararono di non sapere ove era nascosta la famosa Scimitarra di Budda.

I viaggiatori, un po' scoraggiati, lasciarono la taverna girellando per la città, visitando qualche tempio, sorseggiando qualche tazza di thè, comperando delle coperte, una tenda e qualche altro oggetto. Il Capitano cambiò anche un certo numero di diamanti in oro.

La sera la passarono sul molo ad ammirare i fuochi artificiali e specialmente i pao-chu o bambù crepitanti, che imitano il crepitio dei legni verdi, rumore così caro agli orecchi cinesi, che fu perfino decantato nel romanzo Kung-lo-mêng (sogni della stanza rossa). Alle dieci, dopo il gong, ritornavano all'albergo.

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