< La Secchia rapita
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Canto terzo Canto quinto


la


SECCHIA RAPITA


CANTO QUARTO.

________


ARGOMENTO.


Mentre dal Potta Castelfranco è stretto,
     Rubiera assalta il popolo reggiano.
     Parte dal campo a quell’impresa eletto
     4Gherardo, e se ne va notturno e piano.
     Muove assalto alla terra onde costretto
     Dalla fame si parte il capitano.
     Cadono i valorosi; e gli altri a patto
     8Fan della vita lor vile riscatto.

I.


Poichè fu sorto in sulla destra riva,
     Si fermò il campo, e s’ordinar le schiere.
     Negli usberghi lucenti il sol feriva,
     12E ne traeva fuor lampi e lumiere:
     Un venticel che di ponente usciva,
     Facea ondeggiar le piume e le bandiere;
     E per le rive intorno e per le valli
     16Romoreggiava il ciel d’armi e cavalli.

II.


Il Potta ch’era un uom molto eloquente,
     E solito a salir spesso in ringhiera,
     Montato sopra un argine eminente
     20Che divideva i campi e la riviera;
     Cinto di capitani e nobil gente,
     Col capo disarmato e la montiera,1
     Così parlava al popolo feroce
     24Con magnanimi gesti e altera voce:


III.


O vero seme del valor latino,2
     Ben aveste l’altrier da Federico
     Un privilegio in foglio pecorino,
     28Che vi ridona il territorio antico
     Che terminava già sopra ’l Lavino:3
     Ma il donativo suo non vale un fico,
     Se con quest’armi che portiamo accanto
     32Non ne pigliamo noi possesso intanto.

IV.


Sol Castelfranco ne può far inciampo,
     Che rinforzato è di presidio grosso:
     Ma non avrà da noi riparo o scampo,
     36Se con tant’armi gli giugniamo addosso.
     Quivi noi fermeremo il nostro campo
     Contra ’l nemico che non s’è ancor mosso;
     E potremo goder, sicuri e lieti,
     40De’ beni altrui, finchè Fortuna il vieti.

V.


Tutte nostre saran senza sospetti
     Queste ricche campagne e questi armenti:
     La salciccia, i capponi e i tortelletti
     44Da casa ci verran cotti e bollenti;
     E dormiremo in quegli stessi letti
     Dov’ora dormon le nemiche genti.
     Il re giungerà in campo innanzi sera;
     48Chè già scesa dal monte è la sua schiera.

VI.


Ma che più vi trattengo, o forti? andiamo
     A trar di bízzarria questi capocchi:
     Leviamgli Castelfranco, e poi vediamo
     52Ciò che faran con quel fuscel negli occhi.
     Ricco di preda è quel castel; io bramo
     Ch’ognun ne goda, a ciaschedun ne tocchi:
     Io per me certo non ne vo’ un quattrino,
     56E dono la mia parte al più meschino.


VII.


Così dicendo, il fiero campo mosse
     Con tanta fretta alla segnata impresa,
     Che l’inimico appena a tempo armosse
     60Per correr delle mura alla difesa.
     Subito intorno fur cinte le fosse,
     E adattate le macchine da offesa.
     Al primo colpo d’un trabucco4 vasto
     64Fu arrandellato un asino col basto.

VIII.


La macchina mural da se rimove
     Con impeto sì fier quella bestiaccia,
     Che la solleva in aria, e in piazza dove
     68Più turba avea, dentro il castel la caccia:
     Trasecolaron quelle genti nove
     Tutte, e l’un l’altro si miraro in faccia
     Con le guance di neve e ’l cor di gielo,
     72Ch’un asino cader vider dal cielo.

IX.


Era con molti armati in quel presidio
     Un capitan di poca matematica,
     Di casa Bonason, detto Nasidio,
     76Perch’avea un naso contro la prammatica.
     Questi temendo un general eccidio,
     Subito co’ Potteschi attaccò pratica
     D’uscir di quel castel colla sua gente,
     80Se non avea soccorso il dì seguente.

X.


Fermato il patto, il re giunse la sera
     Con trombe e fuochi e segni d’allegrezza.
     Ma il dì seguente una novella fiera
     84Converse tutto il dolce in amarezza.
     Venne correndo un messo da Rubiera,
     Ch’aiuto richiedea con gran prestezza
     Contra il popol reggian ch’a quella terra
     88Mossa la notte avea improvisa guerra.


XI.


Il popolo reggian col modanese
     Professava odio antico e nimicizia,
     E avea contra di lui col bolognese
     92Più volte unita già la sua milizia.
     Ora dissimulando, il tempo attese;
     E per mostrar la solita nequizia,
     Passato che fu il re, spinse a’ suoi danni
     96Seimila fra soldati e saccomanni.

XII.


Il re tosto chiamar fece a consiglio
     Tutti gli eroi della città del Potta;
     E poich’ebbe narrato il gran periglio
     100Ove quella fortezza era ridotta,
     Rivolse a destra mano il nobil ciglio,
     Dove sedea l’onor di casa Scotta.
     Ed ei poichè fu sorto e si compose
     104La barba colla man, sputò, e rispose:

XIII.


A voi, signor, come più degno, tocca
     Sceglier fra questi un capitano in fretta,
     Che vada a liberar l’oppressa rocca,
     108E a far su quegli audaci aspra vendetta.
     Volea più dir; ma nol lasciò la bocca
     Aprir, che si levò dalla panchetta,
     E saltò in mezzo il conte di Culagna,
     112Dicendo: V’andrò io, chi m’accompagna?

XIV.


Maravigliando il re si volse, e disse:
     Chi è costui sì ardito e baldanzoso?
     Il Potta si guardò ch’ei nol sentisse,
     116E disse: Questi è un matto gloríoso.
     Il re che avea desío che si spedisse
     A quella impresa un capitan famoso,
     Rimise quella eletta al Potta stesso
     120Che conosceva ognun meglio dappresso.


XV.


Il Potta che sapea, che i Parmigiani
     Eran nemici alla Tedeschería,
     E ch’era un accoppiar co’ gatti i cani,
     124Se gli uni e gli altri insieme a un tempo unía;
     Disegnò di mandar contra i Reggiani
     Gli aiuti che da Parma in campo avría
     Giberto da Correggio allor guidati,
     128Tremila a piedi, e mille in sella armati.

XVI.


Ma il carico sovran diede a Gherardo,
     Con cinquemila fanti e quella schiera
     Ch’avea Bertoldo sotto il suo stendardo
     132Condotta da Marzaglia e da Rubiera.
     Ripassò il ponte il cavalier gagliardo;
     Ma non giunse a Marzaglia innanzi sera.
     Quivi ebbe nuova della terra presa;
     136Ma che la rocca ancor facea difesa.

XVII.


Stettero in dubbio i cavalier del Potta,
     Se passavano allor quella riviera,
     O s’attendean che fulminata e rotta
     140Fosse dal novo sol l’aria già nera.
     Ed ecco apparve lor sul fiume allotta
     Marte, che presa la sembianza fiera
     Di Scalandrone da Bismanta avea,
     144Bandito e capitan di gente rea:

XVIII.


E inalzando una face in sulla sponda
     Che il varco indi vicin tutto scopriva,
     Fe’ sì, che tragittò di là dall’onda
     148Subito il campo alla sinistra riva.
     Spirava il vento, e dibattea la fronda
     Sì, ch’a fatica il calpestío s’udiva.
     A i capitani allor Marte feroce
     152Volgea lo sguardo e la terribil voce;


XIX.


E dicea lor: Venite meco, o forti;
     Che gl’inimici or vi do vinti e presi,
     Mentrechè nella terra i male accorti
     156Son quasi tutti a depredare intesi,
     Aspettando che ’l messo annunzio porti,
     Che si sian quelli della rocca resi,
     Dove all’assedio in sulla fossa armato
     160Foresto Fontanella hanno lasciato.

XX.


Io la perfidia lor patir non posso,
     E vengo a vendicarla ora con voi:
     Se lor giugniamo all’improvviso addosso,
     164Che potran far, se fosser tutti eroi?
     Gira, Gherardo, tu a sinistra il fosso,
     E chiudi il passo co’ soldati tuoi;
     Ch’io Giberto e Bertoldo appiè del ponte
     168Condurrò cheti all’inimico a fronte.

XXI.


Così parlava; e Scalandrone il fiero
     Creduto fu da ognun ch’era presente.
     Gherardo a manca man tenne il sentiero,
     172Giberto a destra al lato di ponente,
     E sugli elmi inalzar fe’ per cimiero
     Un segno bianco a tutta la sua gente;
     Che già la squadra udia del Fontanella
     176Cantar non lungi la Rossina5 bella.

XXII.


Passavan cheti e taciturni avanti,
     Senza ronde scontrar nè sentinelle;
     Quando cessaro all’improvviso i canti,
     180E i gridi e gli urli andar fino alle stelle.
     I cavalli lasciaro addietro i fanti
     Allora, e Marte accese due facelle,
     E illuminò così l’aer d’intorno,
     184Che parve senza sol nascere il giorno.


XXIII.


Foresto che venir sopra si vede
     Gli stendardi di Parma e di Rubiera,
     Si lascia dietro anch’ei la gente a piede,
     188E passa armato innanzi alla sua schiera.
     Marte rimira, e Scalandrone il crede:
     Sprona il cavallo, e abbassa la visiera;
     E ’l coglie appunto al mezzo della pancia,
     192Ma non sente piegar nè urtar la lancia.

XXIV.


Marte all’incontro al trapassar percosse
     In guisa lui d’un colpo soprammano,
     Che gli abbruciò la barba, e ’l viso cosse,
     196E non parve mai più fedel cristiano.
     Ei se la bebbe; e subito scontrosse
     Con Bertoldo ch’avea disteso al piano
     Col braghiero in due pezzi Anselmo Arlotto,
     200Grande alchimista, e in medicina dotto.

XXV.


Ruppero l’aste a quell’incontro fiero,
     E colle spade incominciar la guerra.
     L’animoso Foresto avea un destriero
     204Che non trovava paragone in terra,
     Generoso di cor, pronto e leggiero;
     E se un’antica cronica non erra,
     Fu della razza di quel buon Frontino6
     208Fatto immortal da monsignor Turpino.

XXVI.


Bertoldo avea più forza e più fierezza,
     Ed era di statura assai maggiore:
     Foresto avea più grazia e più destrezza;
     212Picciolo il corpo, e grand’era ’l valore.
     Ma l’uno e l’altro fa di sua prodezza
     Mostra al nemico, e di suo eccelso core:
     E la terra è già tinta e inorridita
     216Di sangue e di bragiole e maglia trita.


XXVII.


Giberto intanto avea rotta la lancia
     Nel ventre a Gambacorta Scarlattino,
     E col troncon fatta crepar la pancia
     220D’un fiero colpo a Stefanel Rossino;
     Quando tolse una scure a Testarancia
     Figliuol di Filippon da Sandonnino,
     E con essa a due man fe’ tal ruina,
     224Che tolse il vanto a quei della tonnina.7

XXVIII.


Uccise Braghetton da Bibianello,
     Ch’un tempo a Roma fece il cortigiano;
     E ’l nome v’intagliò con lo scarpello
     228Sotto Montecavallo a manca mano.
     Avea la pancia come un caratello,
     E avría bevuta la città d’Albano;
     Nè mai chiedeva a Dio nel suo pregare,
     232Se non che convertisse in vino il mare.

XXIX.


Gli divise la pancia il colpo fiero,
     E una borrachia ch’all’arcione avea.
     Cadeano il sangue e ’l vin sopra ’l sentiero;
     236E ’l misero del vin più si dolea.
     L’alma ch’usciva fuor col sangue nero,
     Al vapor di quel vin si ritraea,
     E lieta abbandonava il corpo grasso,
     240Credendo andar fra le delizie a spasso.

XXX.


Uccise dopo questi Alceo d’Ormondo,
     Protonotario e camerier d’onore
     Nella corte papal, capo del mondo;
     244E di più, cavalier, conte e dottore:
     E ’l miser Baccarin da Sansecondo,
     Che delle pappardelle era inventore,
     Morto lasciò, con gli altri male accorti,
     248Sotto Rubiera ad ingrassar quegli orti.


XXXI.


Prospero d’Albinea, Feltrin Casola,
     Marco Denaglia, Brun da Mozzatella,
     Berto da Rondinara, Andrea Scaiola,
     252Stefano Zobli, Gian da Torricella,
     Guglielmo dalla Latta, e Pier Mazzola,
     Dal feroce guerrier tratti di sella
     Con Ugo Brama, e Gian Matteo Scaruffa,
     256Tutti rimaser morti in quella zuffa.

XXXII.


Ai colpi della forza di Giberto
     Gira gli occhi Foresto, e i suoi soldati
     Vede dalla battaglia al campo aperto
     260Fuggir, chi qua chi là, tutti sbandati:
     E temendo restar quivi diserto,
     Che cinto si vedea da tutti i lati;
     Volge a Bertoldo, ed una punta abbassa,
     264E gli uccide il cavallo, e ’n terra il lassa:

XXXIII.


E dove i suoi fuggian dalla battaglia
     Spronando quel destrier che sembra un vento:
     Dunque, gridava lor, brutta canaglia,
     268Questo è il vostro valore e l’ardimento?
     Se non avete tanto cor che vaglia
     A sprezzar della morte ogni spavento,
     Sicchè vogliate abbandonar la guerra;
     272Ritiratevi almen dentro la terra.

XXXIV.


Così disse; e correndo inver la porta
     Donde il soccorso omai gli parea tardo,
     Piena la via trovò di gente morta;
     276Ch’ivi già penetrato era Gherardo.
     Allor frenando l’impeto che ’l porta,
     S’arresta alquanto il giovane gagliardo,
     Pensando se dovea quindi fuggire
     280Tra l’ombre della notte, o pur morire.


XXXV.


Spiccasi alfine, e là dove difende
     Il nemico l’uscita, entrar procaccia.
     La testa a Furio dalla Coccia fende,
     284E nel ventre a Vivian la spada caccia.
     Il primo avea il cervel fuor di calende;8
     E l’altro era un fanton lungo sei braccia:
     L’un nemicizia avea col sol d’agosto;
     288E l’altro rincaría le calde arrosto.

XXXVI.


Ferì dopo costor, con vario evento,
     Due Gemignani, l’Erri e ’l Baciliero.
     Nell’umbilico l’un subito spento
     292Cadde tocco d’un colpo assai leggiero:
     L’altro, ch’un’ernia avea piena di vento,
     Nè potea camminar senza ’l braghiero,
     Ferito d’una punta in quella parte,
     296Esalò il vento, e si sanò contr’arte.

XXXVII.


Giunto alfin dove l’ultima bandiera
     Forcierolo Alberghetti avea fermata,
     Comechè cinta sia di gente fiera,
     300La sforza, e quindi a’ suoi trova l’entrata;
     Nè s’accorge che lascia la sua schiera
     Tra i nemici rinchiusa e abbandonata.
     In tanto il Conte avea di Sandonnino
     304Sentito il fiero suon del mattutino.

XXXVIII.


Questi era de’ Reggiani il generale,
     Grande di Febo e di Bellona amico;
     E stava componendo un madrigale,
     308Quand’arrivò l’esercito nemico.
     Reggio non ebbe mai suggetto eguale
     O nel tempo moderno o nell’antico,
     Nè di lui più stimato in pace e ’n guerra;
     312Ed era consiglier di Salinguerra:


XXXIX.9


Di Salinguerra il poderoso dico,
     Che tenne già Ferrara e Francolino,
     Finchè fu poi dal papa suo nemico
     316Sospinto fuor del nobile domíno;
     E tornò a ripigliar lo scettro antico
     Il seme del superbo Aldobrandino.
     Si trova insomma scritto in varie carte,
     320Che ’l Conte era grand’uomo in ogni parte.

XL.


Tosto ch’ode il romor, chiede da bere
     A Livio suo scudiero, e l’armi chiede;
     E beve in fretta, e poi volge il bicchiere
     324Sopra la sottocoppa in su col piede:
     S’adatta i braccialetti e le gambiere;
     S’affaccia alla finestra, e guarda, e vede
     A quel romor, senza notizia averne,
     328Saltar di casa ognun colle lanterne.

XLI.


Già avea l’usbergo, e subito s’allaccia
     L’elmo con piume candide di struzzo;
     Cigne la spada e ’l forte scudo imbraccia,
     332E monta sopra un nobile andaluzzo.
     Gli portava dinanzi una rondaccia10
     E una balestra il sordo Malaguzzo.
     Era stizzato, e gli sapeva male
     336Di non aver finito il madrigale.

XLII.


Giunto alla porta, e udito il gran fracasso,
     Montò subitamente in sulle mura,
     E mirò intorno, e vide giù nel basso
     340D’armi coperto il ponte e la pianura;
     Vide i nemici aver serrato il passo,
     E de’ soldati suoi l’aspra ventura:
     Onde pieno d’angoscia e di dispetto,
     344Sospirò forte, e si percosse il petto.


XLIII.


E quivi accanto a lui fatti passare
     Duemila balestrier ch’in campo avea,
     Cominciò l’inimico a saettare;
     348Che cacciarlo di luogo ei si credea.
     Come suol rifuggir l’onda, e tornare
     Fremendo nel furor de la marea;
     Così fremea ondeggiando, e i forti scudi
     352Opponea l’inimico ai colpi crudi.

XLIV.


Ma non partiva, e non mutava loco:
     E ’ntanto l’Alba uscía dell’oríente,
     Le cui guance di rose al sol di foco
     356Mirando il ciel, ne divenía lucente.
     Gherardo rinfrescò la gente un poco,
     Mutandola a’ quartieri; e al dì nascente,
     Dal fosso abbasso, e dalla rocca d’alto
     360Diede principio a un furibondo assalto.

XLV.


Della rocca Bertoldo ebbe l’assunto,
     Giberto a manca man, Gherardo a destra.
     Vedesi il Conte a mal partito giunto;
     364Ch’eran finiti il pane e la minestra:
     Pur mise anch’egli i suoi soldati in punto.
     E Bertoldo dicea da una finestra:
     Ah Reggianelli, gente da dozzina,
     368L’unghie vi resteran nella rapina.

XLVI.


Dove la rocca giù nel pian scendea,
     Della piazza era il Conte alla difesa;
     E sbarrato di travi il passo avea,
     372Facendo quivi i suoi nobil contesa.
     Gherardo a destra man forte stringea:
     Giberto facea macchine da offesa,
     Mangani e scale; e empía con sorda guerra
     376La fossa intanto di fascine e terra.


XLVII.


Durò il crudele assalto infino a nona,
     Sinchè stancarsi e intiepidiron l’ire.
     Il saggio Conte i suoi non abbandona;
     380Ma non avea che dargli a digerire.
     Nella rocca serrata avean l’annona
     I terrazzani al primo suo apparire;
     E tanti denti in sull’entrar di botto
     384Distrusser ciò chè v’era e crudo e cotto.

XLVIII.


Cerca di qua, cerca di là, nè trova
     Cosa da farvi un minimo disegno.
     Sbadiglian tutti e fan crocette a prova,11
     388E l’appetito lor cresce lo sdegno.
     Fatta avean quivi una chiesetta nova
     Certi frati di quei dal piè di legno.
     Il Conte al guardian chiese rimedio
     392Per liberarsi dal crudele assedio.

XLIX.


Cominciò il frate a dir che Dio adirato
     Volea il popol reggiano or gastigare.
     Il Conte ch’era mezzo disperato,
     396Padre, dicea, non state a predicare,
     Ma cercate rimedio al nostro stato,
     Ch’è notte, e non abbiam di che cenare:
     Fateci uscir di queste mura in pace,
     400E predicate poi quanto vi piace.

L.


Il frate uscì a trattar subito fuora,
     E ritornò coll’ultima risposta:
     Che se i Reggiani andar voleano allora,
     404Lasciasser l’armi, e andassero a lor posta.
     Alcuni non volean più far dimora;
     Ma gli altri si ridean della proposta,
     E dicean che coll’armi era da uscire,
     408O da pugnar coll’armi, o da morire.


LI.


Onde forzato fu di ritornare
     Il frate al campo; e ’l Conte a lui converso:
     Padre, dicea, vi voglio accompagnare;
     412Datemi una gonella da converso.
     Il frate gliene fece una portare
     Ricamata di brodo azzurro e perso,
     Ch’era del cuoco; e ’l Conte se la pose,
     416E tutto nel cappuccio si nascose:

LII.


E rivoltato a’ suoi, disse ch’ei giva
     A procurar anch’ei sorte migliore;
     Ma se ’l nemico altier non s’ammolliva,
     420Tentato avría di rimaner di fuore;
     E che con nuova gente ei s’offeriva
     Di tornare in soccorso infra poch’ore,
     Purch’a lor desse il cor di mantenerse
     424Un giorno ancor nelle fortune avverse.

LIII.


In suo luogo lasciò Guido Canossa;
     E non prese arme, fuor ch’una squarcina12
     Che nascondea quella vestaccia grossa,
     428Con un giacco di maglia garzerina.13
     Ritrovaron Gherardo in sulla fossa,
     Che facea fabbricar per la mattina
     Contra la porta una sbarrata grande
     432Che chiudeva per fronte e dalle bande.

LIV.


Quando Gherardo vide il guardiano,
     Gli venne incontro: e ’l frate gli dicea
     Che troppo duro al popolo reggiano
     436Il partito proposto esser parea;
     Ch’egli voleva uscir coll’armi in mano,
     E che nel resto a lui si rimettea.
     Gherardo entrò in furor quando udì questo,
     440E disse al frate: Padre, io vi protesto,


LV.


Che vo’ far nuovi patti, e vo’ che lassi
     L’armi e l’insegne, e quanto egli ha da guerra;
     E ch’in farsetto e sotto un’asta passi
     444All’uscir della porta della terra.
     Così vi giuro: e non perdete i passi
     A tornar, se ’l partito non si serra;
     Perchè vi aggiugnerò pene più gravi,
     448Come son degni i loro eccessi pravi.

LVI.


Il Conte che tenea l’orecchie intente;
     Dicendo: Affè non mi ci coglierai,
     S’incominciò a scostar segretamente,
     452Finchè si ritrovò lontano assai.
     Pregava il guardian molt’umilmente;
     Ma non potè spuntar Gherardo mai:
     Onde tornò dolente al suo cammino,
     456Senz’altra inchiesta far di fra Stoppino.

LVII.


Poichè tornò, confuso e sbigottito
     Dalla fiera risposta, il guardiano,
     E narrò il tutto, e che se n’era gito
     460Il Conte e già poteva esser lontano;
     Si consultò s’era miglior partito
     Il ritorno aspettar del capitano,
     O pur coll’armi al ciel notturno e scuro
     464Tentar d’uscir dell’infelice muro.

LVIII.


Tutti lodar che s’aspettasse il Conte:
     Ma quando poi s’andò ben calculando
     Ch’ei non poteva aver le genti pronte
     P468rima che il nuovo sol fosse ito in bando,
     Si torser tutti e rincrespar la fronte,
     Dicendo che volean morir pugnando:
     Onde Guido, d’uscir fatto disegno,
     472Fe’ stare in punto ognun coll’armi a segno.


LIX.


Ma dalla rocca diè Bertoldo avviso
     A Gherardo, ch’usasse estrema cura;
     Che mostrava il nemico all’improvviso
     476Voler coll’armi uscir di quelle mura.
     Preparossi Gherardo, e sull’avviso
     Fe’ stare i suoi soldati, e l’aria scura
     Rallumò con facelle e pece ardente,
     480E le sbarre piantò subitamente.

LX.


Ed ecco aprir la porta, e a un tempo stesso
     Degli affamati il grido e le percosse:
     Ma nelle sbarre urtar, ch’erano appresso;
     484E ’l rauco suono e l’impeto arrestosse.
     Gherardo avea per fianco e ’n fronte messo
     Vari strumenti di tremende posse;
     E a’ colpi di saette e pietre e dardi
     488Stese quivi i più arditi e i più gagliardi.

LXI.


Ed egli armato a piè, con una mazza
     Corse alle sbarre, e a tanti diè la morte,
     Che se non ritraea la turba pazza
     492Indietro il piede e non chiudea le porte,
     Perduta quella notte era la razza
     De’ soldati da Reggio in dura sorte.
     Fu de’ primi a cader Guido Canossa
     496In preda ai lucci di quell’empia fossa.

LXII.


Ma l’ardito Foresto urta il destriero,
     Dove vede la sbarra esser più bassa;
     E tratto, disperato, il brando fiero
     500Contra Gherardo, il fere a un tempo, e passa:
     E dovunque al passar drizza il sentiero,
     Dell’alto suo valor vestigi lassa;
     Fin ch’in sicura parte alfine arriva,
     504E i suoi d’aiuto e di speranza priva.


LXIII.


L’esercito reggian, fatto sicuro
     Che la forza adoprar gli valea poco,
     E veggendo il nemico in volto oscuro
     508Scuoter la porta, e domandar del foco;
     In fretta rimandò fuora del muro
     Il guardian ch’ebbe a fatica loco
     D’impetrar da Gherardo alcun partito,
     512Ch’era già inviperato e infellonito.

LXIV.


Alfin l’ultimo ottenne, e fu giurato,
     Con giunta, che chiunque all’ostería
     Con Modanese alcun fosse alloggiato,
     516Di quello stuol che di Rubiera uscía;
     A trargli per onor fosse obbligato
     Scarpe o stivali, o s’altro in piedi avía.
     Indi fu aperto un picciolo sportello
     520Donde uscivano i vinti in giubberello.

LXV.


Marte che la sembianza ancor tenea
     Di Scalandron, per onorar la festa:
     Stando alla picca ove al passar dovea
     C524hinar il vinto la superba testa,
     Dava a ciascun nel trapassar che fea
     Sotto quell’asta, un scappellotto a sesta.
     Così fino all’aurora ad uno ad uno
     528Andò passando il popolo digiuno.

LXVI.14


Poichè tutti passar, Marte disparve,
     Lasciand’ognun di maraviglia muto.
     Stupiva il vincitor, che le sue larve
     532Conoscer non avea prima saputo:
     Stupiva il vinto, poi che ’l sole apparve
     Cinto di luce, e che si fu avveduto
     Con onta sua, che le picchiate ladre
     536A tutti fatte aven le teste quadre.


LXVII.


Sotto Rubiera si trattenne alquanto
     Gherardo, e riposar le genti feo,
     Onorando quel dì sacrato al santo
     540Apostolo divin Bartolommeo:
     E delle spoglie de’ nemici intanto
     Sulla riva di Secchia alzò un trofeo;
     Quando volgendo il sol dal mezzogiorno,
     544Eccoti un messaggier sonando un corno:

LXVIII.


E narra ch’attaccata è la battaglia
     Tra il re de’ Sardi e le città nemiche
     Ch’in campo conducean tanta canaglia,
     548Che non ha tante mosche Apuglia o spiche;
     E lo prega d’aiuto, e che gli caglia
     Del gran periglio delle schiere amiche.
     Trenta peli, di rabbia, allor strapposse
     552Gherardo, e bestemmiando il campo mosse.

  1. [p. 270 modifica]La montiera è un cappelletto alla Spagnuola da portare in casa, che usavano anche gli antichi; onde Svetonio in Augusto: Domi quoque non nisi petasatus sub dio spatiabatur. Salviani.
  2. [p. 270 modifica]Chiama seme de’ Latini i Modenesi, perchè Modena era stata una Colonia de’ Romani.
  3. [p. 270 modifica]Gli scrittori antichi mettono il fiume Lavino nel territorio di Modena; ma Carlo Magno nella divisione che fece de’ confini d’Italia, divise col Panaro i confini di Modena e di Bologna, perchè in quel tempo Modena era distrutta e spopolata. Federigo Barbarossa e Federigo II., avendo i Bolognesi per diffidenti e per nemici, tenevano un presidio in Modena, e non lasciavano goder loro quel territorio in pace, per le ragioni antiche.
  4. [p. 270 modifica]Trabucco, o Trabocco, come scrive la Crusca, fu macchina militare dagli antichi usata per lanciar pietre nelle città assediate; e fu una cosa medesima, o poco diversa, dal mangano e dalla briccola. Fu posto in uso quest’ordigno la prima volta da Ottone IV. nel 1212, come si legge appresso Carlo d’Acquino Lex. Mil. V. Trabuchetum. Si veda il Muratori nelle Antichità d’Italia t. 2. dissert. 26, col. 473. ec.
  5. [p. 270 modifica]La Rossina è una canzone triviale che si canta in Lombardia.
  6. [p. 270 modifica]Di Frontino, cavallo famoso di Ruggiero, parla in più luoghi l’Ariosto nel Furioso.    Turpino per altro non parlò mai nella sua cronaca di tal cavallo; ma poichè l’Ariosto, e prima di lui Boiardo, ci voller far credere di raccontar le loro favole secondo la testimonianza di lui: volle ancora il Tassoni farci credere, che le lodi di Frontino sieno a noi giunte per mezzo di quel romanzo, che all’arcivescovo Turpino fu attribuito.
  7. [p. 270 modifica]Dall’esser fatta la tonnina dalla schiena del tonno messa in pezzi, derivarono diverse maniere di dire usate assaissimo dal volgo, e fra le altre l’adoperata qui dal Poeta. Anche i Latini avevano il loro fractum facere, che significa fare in minutissimi pezzi.
  8. [p. 270 modifica]Il cervel fuori di calende. Il Minucci si persuase che fosse corruttela dal detto latino extra callem esse: fuori di seminato, diciamo noi, il che vale pazzo, e perciò soggiunse il Poeta, che quel Furio avea nimicizia col sole d’Agosto, durante il quale gli scemi di cervello più che in altro tempo patiscono. Barotti.
  9. [p. 271 modifica]Avendo i Ferraresi cacciato Aldobrandino da Este per l’alterigia sua, s’elessero per signore Salinguerra Torelli, o Garamonti, com’altri vogliono. Ma poco dopo Salinguerra fu anch’egli cacciato; e fu restituito il dominio ad Azzo da Este figliuolo d’Aldobrandino. Vogliono nondimeno alcuni, che qui il Poeta alluda alla espulsione di qualunque altro signore più moderno.
  10. [p. 271 modifica]Rondaccia è una specie di ronca, cioè un’arma in asta, adunca e tagliente.
  11. [p. 271 modifica]Fare degli sbadigli, e far le crocette sono frasi volgarmente usate per dire, non v’è da mangiare; essendo appunto lo sbadiglio effetto della fame; e costumandosi da molti cristiani nell’atto di sbadigliare segnarsi in croce col dito grosso la bocca aperta. Il Poeta vi aggiunge a prova, così perchè pativano tutti del medesimo male que’ poveri assediati, come perchè lo sbadigliare d’un solo invita e sforza gli astanti, che mirano a fare lo stesso. Barotti.
  12. [p. 271 modifica]Squarcina, specie di spada assai corta e larghetta, detta ancora mezza spada e coltella.
  13. [p. 271 modifica]Garzerina da Garza, che è una sorta di trina, che anche si dice bigherino; così il Vocabolario della Crusca. Bigherino poi e bighero è una sorta di fornitura fatta di fila a merluzzi: laonde bisogna dire, che il giacco di Guido Canossa fosse di maglia lavorata a foggia di merletti.
  14. [p. 271 modifica]I Reggiani appongono ai Modenesi, che mirano la luna nel pozzo, perchè veramente i Modenesi hanno in costume, quando veggono un pozzo, di correr subito a mirarsi dentro. E i Modenesi oppongono ai Reggiani, che abbiano le teste quadre, perchè realmente molti di loro le hanno così. Onde il Poeta finse, che quivi fossero loro quadrate da Marte.

Note

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