< La Sovrana del Campo d'Oro
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IV - La Sovrana del Campo d'Oro
III V

CAPITOLO IV


La Sovrana del Campo d’Oro


Se il quartiere cinese ed i villaggi dei pescatori di granchi formano una delle principali attrattive dell’opulenta regina dell’Oceano pacifico, Cartown è una delle più singolari borgate, anzi possiamo dire, senza tema di esagerare, che non ne esiste una eguale in tutte le parti del mondo.

La città dei carri!... La città viaggiante, che può spostarsi a capriccio dei suoi abitanti!... Basterebbero queste parole per spiegare di che si tratta e destare le più alte meraviglie.

Eppure non vi è nulla di straordinario in tutto ciò. Se Cartown volesse lasciare il lido sabbioso su cui è stata costruita, — per modo di dire, — potrebbe farlo e farsi trascinare attraverso l’immenso continente dell’America Settentrionale, lasciare cioè l’Oceano Pacifico per adagiarsi mollemente sulle arene dell’Atlantico.

La ragione può sembrare curiosa, ma è irrefutabile, perchè tutte le abitazioni di quella curiosissima borgata, che ha assunto ora il titolo di città, riposano su quattro ruote.

Il fondatore non è stato un americano. L’idea di costruire quella città mobile è sorta invece nella mente d’un emigrato italiano, che non mancava d’un certo genio.

Aveva acquistato un pezzo di terreno sulle rive della magnifica baia di S. Francisco, là dove non sorgevano che gruppi di canne e di giuncheti, senza alcuna abitazione. Disgraziatamente, o meglio fortunatamente, sul più bello si era trovato senza i fondi necessari per innalzarsi una casuccia, come aveva dapprima sognato.

La località era splendida. Le lucide ed azzurre onde della baia venivano a morire fra i giunchi con un dolce mormorìo, e la spiaggia era forse la migliore per creare degli stabilimenti da bagni.

Mancavano solo i capitali per fondare una borgata.

Già l’emigrante si era risoluto a disfarsi del suo terreno, quando una trovata veramente geniale gli porse l’occasione di realizzare il suo progetto. Una compagnia della tramvia di S. Francisco cercava appunto in quell’epoca di disfarsi di alcune centinaia di vetture, diventate ormai troppo vecchie per continuare il servizio.

L’italiano, pensando che quei carrozzoni, molto più vasti di quelli usati da noi, potevano servire di abitazione, ne comperò uno per una cinquantina di dollari e lo fece condurre sul suo appezzamento, fornendolo dei mobili necessari.

Fu invidia, fu desiderio di possedere una modesta abitazione sulle rive della baia, fu l’originalità dell’idea, od altro, dopo pochi mesi altre vetture si trovavano a fianco di quella dell’emigrante.

Un primo nucleo si formò, poi a poco a poco, la borgata fu fondata, con soddisfazione dell’italiano, che essendo proprietario di quel terreno aveva alzati i prezzi. Tramvie, carrozzoni di ferrovie fuori uso, vecchie corriere che un tempo avevano servito per la posta attraverso le praterie, trovarono là la loro giubilazione.

La Cina aveva la sua città galleggiante sul Fiume delle Perle; la capitale della California aveva la sua città ruotante o meglio la città dei carri.

L’aspetto che presenta quell’insieme di carrozzoni di tutte le forme e dimensioni non è barocco come si potrebbe credere: è anzi graziosissimo, perchè tutti quei veicoli, sono mantenuti con molta cura.

Le pareti sono verniciate e dipinte a colori vistosi, i metalli sempre lucenti, le gallerie riboccano di fiori, le finestre hanno tendaggi bellissimi e persiane. Vi sono anche dei gruppi che formano nel loro insieme dei palazzotti di aspetto bizzarro, cinti da giardinetti e con torricelle sulla cima.

Tali sono il Castello di Chillon, di proprietà di uno svizzero; la fortezza di Québec; il Castello di Navarra; la Villa di Miramare, abitati tutti da gente danarosa, che preferisce quei carrozzoni ai palazzi della città rumorosa.

Alcuni carrozzoni ne reggono altri collocati sopra il loro tetto, issati con argani poderosi e tenuti in equilibrio da colonne di legno o di mattoni, con terrazze sovrastanti e gallerie che girano intorno. Che figura facciano quei quattro o cinque enormi carrozzoni messi l’uno sull’altro, ve lo potete immaginare.

Eppure non crediate che Cartown sia popolata di poveri diavoli, che non hanno mezzi bastanti per abitare in città, dove i fitti sono molto elevati; anzi, tutt’altro, poichè quelle case ambulanti costano oggidì fra mobilio, dorature, verniciature ecc. non meno di cinquecento dollari e talvolta anche mille.

Un vero lusso, raffinato, regna là dentro.

Vi sono specchi di Venezia, tappeti di Persia, tende di valore, mobili scolpiti, divani in broccato, letti con coperte di seta. Tutto è piccolo e graziosissimo. Non manca nemmeno la luce elettrica, ed il telefono tiene in comunicazione continua gli abitanti di Cartown con quelli di S. Francisco.

Ogni carrozzone poi è diviso in tre scompartimenti: una piccola sala da pranzo, un salotto minuscolo, una stanza da letto. La cucina è all’aperto, sul terrazzo anteriore.

E vi sono anche dei negozi, dove si può trovare qualunque cosa come a S. Francisco. Che più? Vi è perfino un caffè aperto da un intraprendente giapponese che fa affari d’oro.

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L’ingegnere Harris e lo scrivano, comodamente sdraiati in una carrozza tirata da due vigorosi cavalli, appena usciti da S. Francisco, avevano dato ordine al cocchiere di portarli senza ritardo a Cartown.

Entrambi erano allegrissimi, soprattutto il secondo, che rideva a crepapelle, pensando al tiro birbone giuocato al Re dei Granchi.

— Sarà furioso, se a quest’ora si è svegliato, — diceva ad Harris. — Vorrei vedere in questo momento che occhiacci ha.

— Siete più sicuro presso di me, su questa carrozza, che al bar, — rispondeva l’ingegnere. — Quel negro deve essere un briccone capace di torcervi il collo o di cacciarvi in corpo sei palle, senza nemmeno gridarvi: badate.

— Ne sono persuaso anch’io, signor Harris, e penso che farò bene ad alzare al più presto i tacchi ed andarmene lontano, giacchè non vi sono stati necessari i miei ventimila dollari.

— Ma che tiro birbone avete giuocato al negro? Non me lo avete ancora spiegato, mio bravo giovane.

— L’ho semplicemente ubriacato con un sigaro cubano, sotto la cui foglia avevo fatto nascondere, da un mio amico farmacista, un pezzettino d’oppio in pasta.

— E si è lasciato cogliere da voi senza alcuna diffidenza? — chiese l’ingegnere, con stupore.

— Avevo avuta la precauzione di farmi accompagnare da due negri, che un tempo erano stati suoi amici, avendo lavorato insieme nel porto.

— E come li avevate scovati?

— Me li aveva indicati il mio amico farmacista, il quale sembra che conoscesse perfettamente la storia del Re dei Granchi. Ho promesso ai due negri dieci dollari ciascuno se riuscivano a condurre al bar il loro compatriota, facendo loro credere che desideravo avere un colloquio per un certo affare di granchi.

— E tutti hanno abboccato all’amo!...

— Come veri granchi, — disse Blunt, schiattando dalle risa.

— Che potrò fare per voi, mio bravo amico? — chiese Harris, con voce commossa.

— Voi conoscete l’Arizona, mi avete detto.

— Ho diretto i lavori in una di quelle ricchissime miniere d’argento per tre anni di seguito.

— Vorrei semplicemente sapere se è vero che in quello Stato si trova ancora abbondanza di selvaggina e se i bisonti emigrano in mandre immense.

— Non vi è regione degli Stati dell’Unione che sia più ricca e dove i cacciatori facciano maggior fortuna.

— E indiani ve ne sono?

— I Navajoes sono ancora in buon numero e non hanno smesso il cattivo uso di scotennare i loro avversari.

— Grazie, signor Harris. È quello il paradiso che sognavo. Se il Re dei Granchi vorrà torcermi il collo, venga a cercarmi laggiù.

— Volete andare nell’Arizona?

— Là od altrove poco importa, ma giacchè vi sono indiani, bufali ed orsi, andrò a visitare quella regione. Sono un appassionato cacciatore, signor Harris, e fin da bambino non sognavo che di diventare anch’io uno di quei prodi scorridori delle immense praterie. La fortuna finalmente mi ha sorriso e domani mattina me ne andrò verso l’est.

— Avete il sangue degli avventurieri nelle vene?

— Mio padre, signore, era un trappolatore canadese, ed ha lasciata la sua testa nelle fauci d’un orso grigio.

— Badate di non farvi sbranare anche voi!...

— Poco importa; nessuno mi piangerà, sono solo al mondo.

— Vi darò qualche raccomandazione per alcuni cacciatori che ho conosciuti laggiù.

— Grazie, signor Harris. Ecco un favore che compenserà largamente quello che vi ho reso. I primi carrozzoni di Cartown!... I vostri cavalli trottano come quelli degl’indiani.

— Sono veri mustani di prateria che ho condotti dal Far-West, — rispose l’ingegnere.

— Signor Harris, vi aspetto nella casa da tè del giapponese. Non voglio esservi d’impaccio. Più tardi, se mi permettete, saluterò miss Annie o meglio... la rifiutata moglie, — disse lo scrivano ridendo.

Fece fermare la carrozza e balzò agilmente a terra, scomparendo in mezzo ai carrozzoni che si prolungano a destra ed a manca della via, su parecchi ordini.

— Bravo giovane! — mormorò l’ingegnere. — Ecco un tipo forse unico nel mondo.

La carrozza aveva ripresa la corsa, passando successivamente dinanzi alla Villa Miramare, al Castello di Chillon, alla Fortezza di Québec, e s’arrestò finalmente dinanzi ad un antico carrozzone da tramvai, tutto verniciato a nuovo, cogli ottoni lucenti, colla galleria ingombra di vasi che contenevano dei rosai in fiore.

Su una lastra di metallo il cocchiere aveva letto: Annie Clayfert ed aveva subito fermati i cavalli.

Harris era balzato a terra, in preda ad una vivissima emozione che invano cercava di dominare. Quel giovane, che aveva forse affrontati gl’indiani ferocissimi del Colorado, che aveva sfidati i pericoli delle miniere argentifere, che aveva forse combattuto coi grossi animali delle praterie del Far-West, in quel momento era diventato così pallido come fosse lì lì per svenire.

Era appena salito sulla piattaforma del carrozzone, adorna di vasi di porcellana, quando la porta si aprì ed un vecchia negra comparve, dicendo:

— Siete il vincitore dell’asta?

— Sì... e miss Clayfert? — balbettò Harris.

— Entrate, signore, vi attende nel salotto.

L’ingegnere attraversò un piccolo gabinetto, colle pareti coperte di stoffa oscura, e dopo aver chiesto permesso, entrò in un minuscolo salottino, grazioso come un nido, circondato da divanetti di seta rossa, con fitto tappeto in terra e tende di guipure finissimo alle finestre.

Miss Annie era là, seduta su un divano, più bella che mai, quantunque un po’ pallida, vestita ancora da amazzone.

Vedendo Harris, s’alzò e gli disse con un sorriso adorabile:

— Siate il benvenuto... mio fidanzato e futuro sposo. Io appartengo a voi: siete quindi come in casa vostra.

— Non dite queste parole, miss, — rispose l’ingegnere, mentre arrossiva come una fanciulla, e faceva uno sforzo sovrumano per mantenersi calmo. — Vi ho conquistata per impedirvi di cadere fra le mani di quel negro, e se non avessi la speranza di riuscirvi gradito, almeno un giorno, vi giuro, miss Annie, che mai rimpiangerei il denaro perduto e che vi restituirei, quantunque con immenso dolore, la vostra libertà.

La fanciulla lo guardò per qualche istante in silenzio, fissandolo negli occhi, poi disse:

— Mi amate... lo... so... signor Harris. Era un mese che mi seguivate dovunque.

— Io sì, ma voi?...

Annie scosse la sua testolina bionda, sorridendo maliziosamente, poi mettendogli un dito sulle labbra, disse:

— Tacete su questo argomento, mio signor marito, e parliamo invece d’altre cose.

Poi, diventando ad un tratto seria, gli chiese a bruciapelo:

— Che cosa si disse in città della vendita repentina del mio palazzo, del mio yacht, delle mie carrozze, dei miei cavalli, e del mio ritiro in questa borgata?

— Ma... ne ho sentite tante, miss, — rispose l’ingegnere, con aria imbarazzata.

— Che ero caduta in rovina, vero?

— Non vi dico il contrario.

— Ed hanno avuto ragione. In quarantotto ore io mi sono trovata, non dirò senza mezzi, ma certo in gravi imbarazzi.

— Eppure mi hanno raccontato, quand’io ero al Colorado, che vostro padre era possessore di una miniera d’oro che redeva enormemente.

— Era vero, — rispose la giovane, con un sospiro. — Quella miniera fruttava non meno di duecentomila dollari all’anno e chissà quanto avrebbe dato ancora, se l’odio d’un uomo non ci avesse rovinati.

— Uditemi, signor Harris, — disse Annie, dopo un breve silenzio. — Da sei anni mio padre era divenuto proprietario di una miniera, da lui scoperta in fondo a quell’immenso abisso chiamato il Gran Cañon, che voi certo conoscete.

— Sì, miss, l’ho percorso in gran parte, — disse Harris.

— Minatori erano accorsi in gran numero da tutte le parti, offrendo i loro servigi a mio padre, il quale ne aveva arruolati più di duecento.

Fra di loro vi era un uomo che si chiamava Will Roock, un gigante, venuto non si sa da dove, il quale, per la sua forza straordinaria e anche per la sua abilità, godeva molta rinomanza fra i suoi compagni di lavoro, tanto che obbedivano forse più a lui che a mio padre. Poichè era veramente un uomo prezioso per quel duro mestiere, era stato innalzato al grado di capo minatore e nessuno aveva avuto di che lagnarsi di quel rapido avanzamento.

Disgraziatamente, un brutto giorno Roock, che doveva maturare dei sinistri progetti, si ribellò all’autorità di mio padre, pretendendo una forte percentuale sulla rendita della miniera.

Comprendendo d’aver a che fare con un uomo pericoloso, che esercitava una grande influenza sui suoi compagni, mio padre lo cacciò dalla miniera, minacciando di ucciderlo se fosse ritornato.

Roock se ne andò senza pronunziare sillaba, ma, tre mesi dopo, una vera ribellione scoppiava nel campo. I minatori, sobillati da quel miserabile, che aveva giurato in cuor suo di vendicarsi, massacrarono i guardiani e gl’ingegneri, s’impadronirono delle riserve d’oro, senza vergogna, fecero saltare con la dinamite le abitazioni ed i forni, inondarono la miniera e condussero via mio padre. L’assalto fu così improvviso, da rendere impossibile l’organizzazione della minima resistenza.

— Infami!... — gridò l’ingegnere, pallido d’ira. — E che cosa fecero di vostro padre?

— Lo tengono ancora prigioniero, — rispose miss Annie, con voce rotta, — ed esigono per la sua libertà l’enorme somma di quecentomila dollari, che dovrà essere inviata a Will Roock alla stazione d’Alamosa, entro tre mesi.

— Dopo aver rubato tutte le riserve d’oro!...

— Sì, signor Harris.

— Costoro sono dei briganti!... Ed il governo dell’Arizona non pensa a mandare, contro quelle canaglie, qualche reparto di truppe?

— Mi sono rivolta alle autorità, e mi hanno risposto di non potersi immischiare in questa faccenda, tanto più che gl’indiani Navaojes sembra abbiano permesso a quei banditi di rifugiarsi sul loro territorio.

— Avete potuto radunare la somma necessaria, unendovi i miei centomila dollari? — chiese Harris.

— Sono ben lontana ancora, poichè dalla vendita della mia palazzina, del mio yacht, dei miei cavalli, non ho ricavato che cento e ventimila dollari...

— Ladri!... — esclamò Harris.

— Hanno approfittato.

— E dalla lotteria?

— Altri sessantamila.

— Quindi, compresi i miei centomila, non avete a vostra disposizione che duecento e ottantamila dollari.

— Non un soldo di più.

— E ne occorrono cinquecentomila! — esclamò Harris, facendo un gesto disperato.

Stette un momento silenzioso, passandosi e ripassandosi una mano sulla fronte, poi ad un tratto disse:

— Annie, avreste paura di venire nell’Arizona?

— Io sono pronta a seguirvi, se voi mi vi condurrete, — rispose la giovane, senza esitare. — Sono nata sulle frontiere indiane e, come tutte le fanciulle cresciute nella grande prateria, so adoperare il rifle e la rivoltella e cavalcare i mustani anche senza aver bisogno di sella e di staffe.

— Allora, miss, noi partiremo per l’Arizona. Nel Gran Cañon ho alcuni amici che dirigono delle miniere d’argento e da essi noi potremo avere larghi aiuti d’uomini.

— E voi vorreste, signor Harris?... — chiese la giovane, con voce commossa.

— Andare a strappare vostro padre ai banditi che l’hanno fatto prigioniero, per poi appiccarli tutti, — rispose l’ingegnere. — Avete tre mesi di tempo. In tre mesi noi saremo nel Gran Cañon e andremo a scovare quel birbante di Roock. Ah!... Vuole cinquecentomila dollari!... Gli daremo del piombo, e del buon piombo.

Annie si era alzata, con gli occhi luccicanti, e dopo aver posate le sue mani sulle spalle del valoroso giovane, disse:

— Ecco l’uomo che avevo sognato: forte, energico, audace. Voi mi farete felice, Harris, ed io vi amerò come mai nessuna donna ha amato. Grazie, amico mio, grazie.

— Sono io che dovrei ringraziarvi, Annie! — esclamò il giovane, pazzo di gioia. — Fate questa sera i vostri preparativi e domani all’alba noi prenderemo la ferrovia per Sacramento. Ah!... Mi dimenticavo di chiedervi se vi spiacerebbe che Harry Blunt ci accompagnasse. È un bravo giovane e spero che non gli serberete rancore d’avervi rifiutata per ventimila dollari.

— Anzi, gli sono riconoscente, — rispose Annie, sorridendo. — Conducetelo pure, se credete che possa esserci utile. Ed a Roock che cosa dovrò rispondere?

— Che fra tre mesi voi stessa gli porterete i cinquecentomila dollari.

— A domani, Harris.

— Sarò qui a prendervi. Non portate con voi che lo stretto necessario; durante il viaggio acquisteremo ogni cosa.

Si strinsero la mano, guardandosi a lungo negli occhi, poi l’ingegnere uscì rapidamente, fuori di sè per la gioia.

Lo scrivano lo attendeva nella casa da tè, con un orario ferroviario fra le mani.

— Signor Blunt, — disse l’ingegnere, senza dargli tempo di interrogarlo. — Volete venire con me e con miss Annie nell’Arizona?

— Come? Anche voi partite? — esclamò il giovane balzando in piedi.

— Sì, domani, alle cinque e venti minuti. Volete seguirci?

— E me lo domandate?

— Allora venite a casa mia e vi racconterò tutto.

— Andremo a caccia?

— E anche a cacciare indiani e briganti.

— Non domando di meglio, signor Harris.

La carrozza si era fermata fuori: uscirono dalla casa da tè e vi salirono.

I cavalli si erano messi appena in moto, quando due negri, che stavano nascosti sotto un vecchio e sgangherato carrozzone, strisciarono fra le ruote, sporgendo il capo.

— L’hai riconosciuto, Zim?

— Sì, Sam.

— Corriamo da Simone.

E si slanciarono entrambi, a corsa sfrenata, verso un carrozzone, dietro il quale stavano, legati ad un albero, due magri cavalli.

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