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VIII - Una partita a pugni
VII IX

CAPITOLO VIII


Una partita a pugni


I bevitori si erano affrettati a ritirarsi, per lasciare ai due avversari uno spazio sufficiente per muoversi a loro agio, ed avevano subito intavolate delle scommesse.

I più parteggiavano per lo yankee, che doveva godere fama di essere un famoso pugilatore; pure non mancavano quelli che puntavano pel negro, la cui statura e l’enorme sviluppo del petto e delle membra, destavano una profonda ammirazione.

Tom Connaugh si fece portare un bicchiere colmo di gin, per rinvigorirsi, poi si mise di fronte all’africano, prendendo la posa classica del vero boxeur, con le braccia ripiegate sul petto per essere pronto a parare i colpi, e le gambe un po’ allargate.

Senza essere alto e grosso come l’avversario, doveva possedere un vigore poco comune come indicavano la larghezza delle spalle, il dorso poderoso e i muscoli delle braccia.

Quattro uomini si erano fatti innanzi, mettendosi due presso Tom e gli altri a fianco di Simone.

Erano i partners, ossia dei padrini improvvisati che si proponevano di regolare la partita e di aiutare i due lottatori, qualora ricevessero qualche pugno non regolare.

— Volete nulla? — chiesero quelli di Simone.

— Sì, — rispose il negro, — un cocktail per riscaldarmi un po’.

— Dategli una bottiglia di vetriolo, — disse l’americano beffardamente. — Gli farà meglio.

— Sarai tu che la berrai quando ti avrò demolito, — rispose Simone.

Vuotò d’un fiato l’ardente bevanda, fece cenno ai suoi negri di non muoversi, poi disse, rivolgendosi allo yankee:

— Quando vorrete.

Si avanzarono l’uno contro l’altro dandosi una stretta di mano, una di quelle strette all’americana che disarticolano le braccia, poi presero campo, curvi entrambi per esporre il meno possibile i loro corpi.

Tom, che forse conosceva più a fondo del negro le sottigliezze di quella terribile scuola, fu il primo ad assalire. Roteando le braccia per ingannare l’avversario, senza però allontanarle dal petto, tirò all’africano due pugni formidabili che non ebbero alcun successo.

Simone, senza scomporsi, aveva ricevuto i colpi sui poderosi muscoli dell’avambraccio, e non aveva arretrato d’un passo.

— Sei più solido di quanto credevo, — disse l’americano, digrignando i denti. — Oh, non temere, arriverò presto o tardi alle tue costole, e allora sentirai come pesano...

Un pugno formidabile datogli dal negro con rapidità fulminea, che lo colpì sulla bocca, gl’interruppe bruscamente la frase.

— Bel colpo!... — gridò Josè Mirim.

L’americano, che era diventato pallido come un morto, aveva fatto due passi indietro sputando sangue e un paio di denti spezzati da quel pugno magistrale.

— Cane d’un negro!... — ruggì. — Bisogna che t’uccida!... Date anche a me un cocktail!...

I suoi partners furono lesti a soddisfarlo, gli raccomandarono di essere prudente, poi diedero il segnale della ripresa.

— Sta attento, negro, — disse il yankee. — Mi preparo a darti uno di quei pugni che noi chiamiamo fist-shock e che demoliscono sempre.

— Lo aspetto, — rispose il Re dei Granchi, coprendosi rapidamente il petto.

Tom si era rannicchiato su se stesso, come una belva che si mette in agguato, e s’accostava lentamente all’ercole.

Un profondo silenzio regnava nella sala. Tutti avevano capito che lo yankee stava per tentare uno di quei colpi di risorsa che sovente decidono l’esito della lotta. Anche Josè Mirim aveva corrugata la fronte e appariva inquieto.

Ad un tratto l’americano scattò come una molla, tendendo la destra con velocità prodigiosa. Simone aveva cercato di parare la bòtta e non vi riuscì che in parte. Il suo largo petto risuonò come un tamburo sotto il pugno dello yankee, ma, con stupore di tutti, il gigante non solo non cadde, ma non fece nemmeno un passo indietro. Solo un grido di rabbia e fors’anche di dolore, gli sfuggì dalle labbra.

Lo yankee stava per rinnovare il colpo, quando il negro, stendendosi bruscamente, lo prevenne. Fu un fist-shock veramente spaventevole che fracassò alla lettera la mascella destra dell’americano, schiacciandogli contemporaneamente un occhio.

Il disgraziato pugilatore mandò un aoh!... doloroso e cadde fra le braccia dei suoi partners, quasi fosse stato ucciso sul colpo.

Un urrah fragoroso aveva salutato quel pugno magistrale.

— Bravo, negro!... Bravo, pelle vecchia!... Urrah!... Urrah!...

Il Re dei Granchi si era limitato a sorridere.

Señor, — disse Josè Mirim, accostandosi a lui, — credo che non vi sia più nulla da fare qui. È tempo di andarcene.

— Ci lasceranno uscire? — chiese Simone.

— Nessuno oserà impedircelo. D’altronde getto la mia sfida.

Si avanzò verso gli spettatori, dicendo:

— Vi è ora qualcuno che desideri misurarsi anche con me, prima che me ne vada?

Nessuno rispose.

— Allora, signori, buona notte.

Simone gettò sulla tavola una manciata di dollari, augurò a tutti la buona sera, e uscì, preceduto dal vaquero e seguito dai suoi quattro negri, senza che alcuno osasse trattenerli.

— Sbrighiamoci, — disse al messicano, quando furono fuori. — Temo di aver perduto già troppo tempo.

— La stazione di Rogers non è lontana, señor, — rispose il vaquero. — E poi i nostri mustani galoppano a meraviglia. A proposito, i miei complimenti per quei due pugni. Tom ne avrà per un bel pezzo.

— Chi è quell’uomo?

— Un minatore prepotente, che è geloso del timore che io spargo intorno a me.

— Vi ha chiamato salteador.

Josè alzò le spalle.

— Faccio i miei affari quando mi si presenta l’occasione, — disse poi. — Bisogna ben vivere, señor. Ecco il rancho.

Erano giunti dinanzi ad un immenso recinto, formato da pali piuttosto alti, che era guardato da una mezza dozzina di vaqueros armati di carabine.

— Vi sono dei cavalli lì dentro? — chiese Simone.

— Cinquecento, che appartengono ad un ranchman di Sinora, — rispose il messicano. — Volete aspettarmi qui? Vado a scegliere i miei uomini.

— Fate presto.

— Due soli minuti.

— E che i cavalli siano solidi.

— So quali sono i migliori.

Entrò nel rancho e, qualche minuto dopo, usciva accompagnato da dieci uomini d’aspetto poco rassicurante, con enormi sombreros e calzoni di velluto adorni ai lati di bottoni dorati. Avevano tutti il serapè avvolto intorno al corpo, e portavano la carabina ad armacollo.

Sedici cavalli di prateria, bellissimi animali, di statura piuttosto bassa, con lunghe criniere e lunghe code, bardati alla messicana con selle ampie e alte, e le staffe; assai larghe, di ferro, erano pronti.

— Sanno cavalcare i vostri uomini, señor? — chiese Josè a Simone.

— Tutti, — rispose il Re dei Granchi.

— Allora, in sella.

— Son questi gli uomini che ci presteranno man forte? — chiese Simone, accennando i vaqueros.

— Sì, — rispose sotto voce il messicano. — Gente senza scrupoli, pronta a tutto, purchè ci sia da guadagnare.

— Andiamo: lungo la via vi dirò di che cosa si tratta.

— Sono curioso di saperlo, señor.

Fece condurre innanzi sei cavalli, esaminò con cura le loro bardature, poi diede il segnale di salire in sella. Il drappello, un momento dopo lasciava il rancho, lanciandosi nell’immensa pianura coperta d’alte erbe. Le tenebre erano già scese.

Josè Mirim e Simone cavalcavano in testa: dietro venivano i quattro negri; i vaqueros chiudevano la marcia in gruppo serrato, coi sombreros calati sul viso ed i serapè attorno al corpo.

Erano tutti uomini vigorosi, dalla pelle terrea e le barbe nere e ispide, persone di fegato senza dubbio, abituati a menar le mani, e sempre pronti a mutarsi da guardiani di bestiame, in briganti delle grandi strade o delle praterie.

Gauchos della pampa argentina; cow-boys americani delle praterie del Grande Ovest e vaqueros del llano estacado e delle terre calde del Messico, si rassomigliano. Vivano nel sud o nel nord o nel centro del continente americano, essi sono i più audaci avventurieri dei due mondi, i più intrepidi cavalieri ed i più violenti.

Per loro la vita umana non ha assolutamente valore e si uccidono reciprocamente per una sciocchezza qualunque, sfidandosi al duello con il coltello o con la carabina.

Chi siano e da dove vengano non si sa, e nessuno si cura di saperlo. Per lo più sono cercatori d’oro, delusi nelle loro speranze, ma molti sono spostati sfuggiti alle grinfie della giustizia. Non è raro trovare fra di loro delle persone che un tempo occupavano delle alte posizioni sociali, dei negozianti falliti che un giorno possedevano palazzi, carrozze e cavalli; degli avvocati, degli ingegneri, dei notai e perfino dei pastori della chiesa anglicana!

Un bel giorno giungono, chissà da dove, forse dalle lontane città del Messico centrale, con un cavallo, una carabina e l’inseparabile serapè, che serve da coperta durante la notte e da mantello quando piove, si presentano a qualche ricco allevatore di cavalli, di buoi o di montoni, e si offrono. Nessuno chiede loro chi siano, nè se hanno qualche conto da saldare con la giustizia.

Agli intendenti dei ranchmans o degli hacienderos basta che siano robusti e che sappiano rimanere a cavallo anche sedici ore, se fosse necessario.

La vita dei vaqueros non è meno faticosa di quella dei cow-boys e dei gauchos argentini. Non è certo cosa facile condurre attraverso le immense praterie del llano estacado tre o quattromila capi di bestiame e talvolta anche più, impedire che quella massa enorme si disperda, raccogliere od inseguire i fuggitivi, spingere i ritardatari e trovare gli accampamenti.

Specialmente durante gli spaventevoli uragani, che di tratto in tratto scoppiano su quelle regioni, i vaqueros devono spiegare tutta la loro abilità e la loro energia, per mantenere unito il bestiame spaventato ed eccitato dai lampi e dai tuoni.

E quanti assalti devono respingere, quando le orde indiane li insidiano, per impadronirsi di una parte almeno di quelle mandrie sterminate!... E non sono i soli indios che dànno loro da fare.

Ci sono i briganti e gli scorridori delle praterie, i ladri di cavalli di professione, che essi devono tenere lontani. È quindi una vita di continue scaramucce a colpi di carabina, che fanno un buon numero di vittime anche fra quegli audaci pastori.

Non restano mai molto sotto un padrone. Insofferenti d’ogni disciplina, alla menoma osservazione se ne vanno altrove in cerca di un altro, oppure si radunano per formare una banda che non tarderà a spargere il terrore fra i loro antichi camerati.

Dal vaquero al salteador non vi è che un passo, che il pastore varca facilmente, senza pensarvi sopra, pronto a ritornare guardiano di bestiame quando se la vedrà brutta. Nessuno si occuperà d’indagare il suo passato. Basta cambiare Stato e tutto è finito.

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Il drappello guidato da Josè Mirim, galoppava rapidissimo, allontanandosi dalla borgata ormai scomparsa fra le ombre della notte.

Mentre i vaqueros serbavano un silenzio assoluto, fra i due capi si era impegnata una vivace conversazione. Simone metteva il messicano a parte dei suoi progetti sulla Sovrana del Campo d’Qro, che voleva ottenere a qualsiasi costo, avesse dovuto perdere un braccio.

— Ve la daremo, — aveva risposto il vaquero. — Una donna che vale cinquemila dollari, si può rapirla. Lasciate fare a me, señor.

— Vi lascio poi la cassa dell’ambulante postale che forse sarà ben fornita.

— Mi guarderò anzi bene dal toccarla, — rispose Josè. — Un ratto non costituisce, almeno qui, un gran delitto. Potremo sempre dire che quella ragazza è fuggita dalla casa paterna, senza aver avuto il consenso dei genitori, e nessuno si sognerà di darci dei fastidi. Un furto è cosa troppo pericolosa: qui con la legge di Lynch non si scherza. A noi basta la somma che ci avete promessa.

— E se i viaggiatori prendono le parti della fanciulla? — chiese Simone.

— Se ne staranno tranquilli, lo vedrete, señor. Sedici carabine produrranno un certo effetto e nessuno si sognerà di tenerci fronte ed impegnare un combattimento. Spronate, señor. Abbiamo ancora sette od otto miglia da percorrere.

— Quindi giungeremo prima di mezzanotte.

— Verso le undici. Avete le cartucce di dinamite?

— Una dozzina.

— Basterà metterne tre o quattro sul binario, per far saltare diverse rotaie e arrestare la macchina.

— Non succederà una catastrofe? Mi preme che la fanciulla non si guasti.

— La macchina deraglierà, affondando nella ghiaia e poi noi la faremo rallentare a tempo. Orsù, spronate e andiamo a sorprendere l’impiegato telegrafico, sua moglie ed i facchini. Badate di coprirvi il viso, perchè nessuno possa riconoscervi.

— Le nostre fasce di lana basteranno, — rispose Sàmonè.

Spronarono le cavalcature, incitandole contemporaneamente con la voce, e continuarono ad inoltrarsi nella interminabile pianura deserta.

Un’ora dopo, Josè mostrò a Simone una collina coperta da abeti e da pini altissimi.

— Là dietro passa la linea ferroviaria, — disse, — e la stazione non è che a poche centinaia di metri.

— Sarà ancora desto l’impiegato?

— Lo suppongo, — rispose il messicano. — Il treno che viene da Barston non deve essere passato che da un quarto d’ora.

— Non ne giungeranno altri?

— No, sino a domani mattina. Noi potremo agire senza essere disturbati.

Erano giunti all’entrata d’un piccolo cañon, ossia d’una gola incassata fra due alture.

Josè mandò un fischio stridente e fermò di colpo il suo mustano.

— Che cosa fate? — chiese Simone.

— I cavalli rimarranno qui, señor, sotto la guardia d’uno dei miei uomini. Prendiamo le nostre precauzioni nel caso che il colpo non riesca.

— Che cosa temete? — chiese il Re dei Granchi con inquietudine.

— Eh!... Non si sa mai quello che può accadere, — rispose il messicano. — lo mi assicuro intanto la ritirata.

Scesero tutti da cavallo, si coprirono i volti con le fasce, aprendo due buchi per gli occhi, staccarono dall’arcione le carabine e tutti, meno quello che era incaricato di vigilare sui cavalli, seguirono Josè.

Avevano appena percorso duecento passi, quando scorsero un caseggiato a due piani, con una tettoia sul davanti ed un giardino; le finestre erano ancora illuminate.

Un po’ più lontano ne sorgeva un secondo, piccolo e basso, che pareva più un magazzino che un abitazione.

Josè si era fermato, dicendo ad uno dei suoi uomini:

— Pardo, prendi con te cinque camerati e intima la resa ai guardiani. Non opporranno resistenza.

— E se si ribellassero? — chiese il vaquero.

— Atterrali col calcio delle carabine. Ed ora, señor, venite, — disse poscia, volgendosi verso Simone. — Assicuriamoci dell’impiegato e guastiamo la macchina telegrafica, prima che possa mandare qualche dispaccio d’allarme.

Mentre Pardo si dirigeva silenziosamente verso i magazzini, Josè s’accostò all’ufficio telegrafico la cui porta era chiusa, quantunque dalle finestre del pianterreno trapelasse un po’ di luce.

— Lasciate fare a me, — disse a Simone. — L’impiegato mi conosce almeno di nome e non indugerà ad aprire. Tenetevi però pronto a prestarmi man forte, in caso di bisogno.

— Sarà solo?

— Con sua moglie.

— Fate pure.

Il messicano s’appressò alla porta e bussò replicatamente col manico della navaja, gridando:

— Aprite: telegramma d’urgenza.

Con un colpo di mano si era alzata la fascia che gli copriva il viso, premendogli di non essere riconosciuto, poi aveva armata rapidamente la carabina.

— Chi è? — aveva chiesto una voce dall’interno.

— Josè Mirim, il vaquero del señor Carmaldoz.

— Che cosa desiderate?

— Spedire subito un telegramma a Mojave per far venire, col treno delle cinque, il dottor Karkot. Uno dei miei camerati è stato orribilmente dilaniato da un orso grigio. Affrettatevi, señor; non ho tempo da perdere.

— Siete proprio Josè Mirim?

— In persona, señor.

La porta fu aperta ed un giovane di appena venticinque anni, allampanato come lo scrivano di S. Francisco che accompagnava l’ingegnere, comparve, tenendo in mano una lampada.

Il vaquero con una spinta improvvisa lo gettò indietro, appoggiandogli quasi nello stesso tempo la canna della carabina sul petto.

— Silenzio e non opponete resistenza o siete morto!... — gli gridò il messicano, mentre con un calcio spalancava i due battenti per lasciare entrare i negri ed i suoi uomini. — Siamo in quindici ed i vostri facchini si sono ormai arresi.

Il povero impiegato, sentendosi premere il petto dal fucile, aveva fatto tre o quattro passi indietro, mandando un grido di terrore, poi con una mossa improvvisa aveva tentato di precipitarsi verso la macchina telegrafica, ma Jose Mirim, che lo teneva d’occhio, con un salto gli aveva chiuso il passo.

— Alto là, non commettete sciocchezze, — gli disse, facendo l’atto di sparare. — Vi è una palla nel mio fucile e francamente mi spiacerebbe mandarcela nel petto.

I cinque negri ed i vaqueros in quel momento avevano fatto irruzione nell’ufficio, puntando le carabine.

— Voi non siete Josè Mirim, il vaquero del signor Carmaldoz, — balbettò l’impiegato che era diventato livido.

— Quello od un altro non vi deve interessare, — rispose il messicano, alterando la voce.

— Chi siete voi?

— Poco importa che lo sappiate.

— Mi direte almeno che cosa desiderate da me.

— Semplicemente impedirvi di avvertire telegraficamente le autorità di Mojave che alcuni sconosciuti si sono impadroniti di questa stazione; null’altro.

— Dovete avere uno scopo!

— Uno solo: quello di fermare qui il treno che passerà domani mattina alle ore 7 e 14 minuti, — rispose Josè Mirim.

— Per saccheggiarlo? — gridò l’impiegato.

— Non andremo tanto oltre, se i viaggiatori non opporranno resistenza.

— Commettete una mala azione.

— Poco ci importa. Orsù, señor, lasciatevi legare e permetteteci di guastare la vostra macchina.

— Mai!... — gridò l’impiegato con suprema energia.

— Senor, — disse il vaquero con un sangue freddo terribile, volgendosi verso Simone, che fino allora era rimasto silenzioso. — Conducete fuori quest’uomo e fucilatelo.

L’impiegato, udendo quel comando, aveva abbassata la testa, dicendo:

Ogni resistenza sarebbe inutile contro briganti della vostra specie e mi arrendo. La giustizia saprà più tardi acciuffarvi.

Porse le mani a Josè Mirim, il quale si era levato un lazo che gli stringeva i fianchi, mentre una dei suoi uomini fracassava col calcio della carabina l’apparato telegrafico.

In quel momento entravano gli uomini che erano stati mandati verso i magazzini.

— Dunque? — chiese Josè:

— Sono stati presi e legati senza lotta, — rispose Pardo. — Uno dei nostri li sorveglia.

— Assicuriamoci anche della moglie dell’impiegato, — disse il messicano. — Potrebbe dare qualche segnale al treno.

Passò nella stanza attigua, poi salì una scala visitando il piano superiore, senza però nulla trovare.

Quando discese, Josè Mirim appariva preoccupatissimo.

— La donna dell’impiegato è scomparsa, — disse a Simone che lo interrogava collo sguardo.

— Fuggita forse? — chiese il negro con ansietà.

— A meno che non si sia recata a Mojave od a Kramer!... Ciò però mi mette indosso qualche dubbio.

S’appressò all’impiegato che era stato legato e messo a sedere su di una poltrona e lo interpellò con voce minacciosa:

— Dov’è vostra moglie? — gli chiese.

L’impiegato lo guardò come non avesse compreso, poi un lampo gl’illuminò gli sguardi.

— E’ partita fino da stamane, — disse.

— Per dove? — chiese Josè.

— Per Kramer.

— Quindi non tornerà prima di domani mattina?

— No.

Josè Mirim respirò a lungo; ad un tratto però trasalì. Gli era sembrato di aver udito in quel momento il galoppo d’un cavallo che si allontanava rapidamente.

— Che quest’uomo mi abbia ingannato? — si chiese. — Bah!... Non preoccupiamoci di ciò. Il colpo ormai è fatto ed i cinquemila dollari sono al sicuro. Ecco un affare ben concluso!...

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