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X - Una emigrazione di bisonti
IX XI

CAPITOLO X


Una emigrazione di bisonti


Cinque minuti dopo, il treno entrava, con fracasso, sotto la piccola tettoia della stazione, per far proseguire i viaggiatori verso le selvagge regioni dell’Arizona.

Harris, lo scrivano e miss Annie avevano subito preso posto in uno scompartimento riservato, mentre i loro compagni di viaggio, per la maggior parte minatori che si recavano nei placers del Gran Cañon del Colorado, prendevano d’assalto gli altri.

Alle 7,40 il treno di soccorso lasciava Rogers filando a tutto vapore verso Kramer per raggiungere più tardi Barston, il solo luogo di fermata.

Poichè i dintorni erano ancora battuti dai soldati giunti col treno di soccorso, tutto si erano ormai tranquillizzati.

I banditi, sapendosi inseguiti, dovevano essersi allontanati, probabilmente verso il Sud, e non vi era pericolo che ritentassero un nuovo colpo: le loro cavalcature non potevano gareggiare con una macchina che percorreva senza sforzo ottanta chilometri all’ora.

— Spero che giungeremo al Gran Cañon senza più rivedere quelle canaglie, — aveva detto Harris ad Annie. — Il Re dei Granchi rimarrà ben indietro e, quando giungerà, chissà dove saremo noi.

— Signor ingegnere, — disse Blunt, — siete proprio convinto che sia stato quel furfante?

— Non ho più alcun dubbio. Chi poteva sapere che miss Annie si trovava con noi?

— Allora deve averci seguiti o preceduti!

— Ci ha accompagnati almeno fino a Mojave, — rispose il giovane.

— E che abbia organizzato là quella banda di briganti? — chiese Annie.

— Non è difficile trovare dei bricconi in queste città, signora. Basta pagare per averne sempre sottomano. Gli emigranti che calano del Nord e dal Sud, sono per la maggior parte delinquenti, risoluti a tutto pur di guadagnare denaro.

— Lo ritroveremo ancora sul nostro cammino?

— Per ora, no di certo, Annie, — rispose l’ingegnere.

— Però quel maledetto negro sa che noi ci rechiamo nel Gran Cañon, — disse lo scrivano. — Se mi giunge ancora a portata di rivoltella, cercherò di non mancarlo. Canaglia!... Brigante!... Ladro!...

— Sfogatevi pure, signor Blunt, — disse Annie, ridendo.

— Vi giuro, signora, che io non lascerò il Gran Cañon del Colorado senza avergli fatto pagare questo infame attentato. Egli non tornerà più nel suo villaggio a pescare granchi.

— Volete diventare un formidabile avventuriero?

— L’ho sempre sognato, miss Annie.

Il treno intanto continuava la sua corsa rapidissima, filando fra immense pianure erbose, dove pascolavano migliaia e migliaia di buoi, di cavalli e di grossi montoni, guardati da numerosi vaqueros d’aspetto brigantesco, armati di carabine o di moschetti, e montati su bellissimi cavalli di prateria, di statura piuttosto bassa e tuttavia non meno resistenti dei loro confratelli d’Andalusia, da cui discendono.

Anche dei ranchos immensi apparivano di quando in quando, disseminati a grandi distanze, circondati da palizzate abbastanza alte da impedire agli agili e ferocissimi giaguari di varcarle.

Alla sera, dopo essere passati dinanzi ad un gran numero di stazioni, per la maggior parte piccole, il treno, che si era arrestato pochi minuti dinanzi a Barston ed a Needles, giungeva al ponte gettato con grande ardimento sulle acque del Rio Colorado, il più grosso fiume dell’Ovest americano.

E’ uno dei più bei corsi d’acqua che bagnino le terre degli Stati Occidentali, passando successivamente fra le selve del Wyoming, le terre salate dell’Utah e le sconfinate praterie dell’Arizona, per solcare nel suo ultimo tratto un lembo della Vecchia California, e sfociare poi nel golfo omonimo.

Grossi affluenti che provengono da tutte le direzioni, come il Piccolo Colorado ed il Rio Gila, lo rendono ricco d’acque, che poi si perdono in buona parte fra i terreni sabbiosi della foce.

Nel momento in cui il treno transitava sul ponte, numerose persone, quasi tutti meticci, si aggiravano sulle rive, trascinando reti immense, e piantando nel fondo dei pali per formare dighe che si spingevano molto innanzi, verso il mezzo del fiume.

Sulle rocce lungo il corso d’acqua, si vedevano ammassi di pesci che si dibattevano ancora, facendo lampeggiare le loro scaglie dai riflessi metallici. Guizzavano in tutti i sensi e, di tratto in tratto, taluni si slanciavano in alto, spiccando salti di quattro e anche di cinque metri.

— Che cosa pescano? — chiese miss Annie, che era uscita sul terrazzino del carrozzone per meglio osservare quello spettacolo.

— Salmoni, — rispose Harris che l’aveva seguita assieme con Blunt. — Eccoli che giungono dinanzi alle dighe e cominciano il salto. Aprite gli occhi, miss. Li vedete avanzarsi a fior d’acqua?

— E che rumore fanno, — aggiunse Blunt, mentre il treno rallentava la corsa per lasciar agio ai viaggiatori di osservare quella pesca prodigiosa.

Miriadi e miriadi di pesci salivano a galla, per sfuggire alle reti gettate dai pescatori, e, agitando violentemente le code, producevano un rombo fortissimo che copriva il fragore prodotto dal treno sulle lastre metalliche del ponte.

Quantunque scorgessero le dighe, non arrestavano la loro marcia; anzi, conoscevano troppo bene la forza delle proprie code per inquietarsene e ben presto i salti cominciarono.

A centinaia e centinaia si alzavano battendo velocemente le pinne, come i pesci volanti dei mari equatoriali, e passavano sopra gli ostacoli.

Non tutti però. Molti, meno fortunati, cadevano sulle palizzate dove venivano subito raccolti dai pescatori in agguato, che si affrettavano a chiuderli entro enormi panieri.

— Devono prenderne un gran numero, — - disse Annie.

— Dei milioni, — rispose Harris.

— E da dove vengono tutti quei pesci? — chiese lo scrivano.

— Dal mare.

— Come!... Pesci d’acqua salata che navigano in acque dolci?

— Sì, Blunt. Il salmone vi si trova egualmente bene, ed emigra sempre dal fiume al mare e viceversa.

— E’ un pesce viaggiatore, è vero, signor Harris? — disse Annie.

— E che viaggiatore! Al pari dei bisonti delle nostre praterie ama migrare. Nascono nelle acque dolci, poichè le femmine non depositano mai le uova in mare, e vi passano la prima gioventù. Quando sono sufficientemente sviluppati, si trasformano in smolt, come dicono gl’inglesi, perdono il color grigio del dorso e anche le strie trasversali dei lati per rivestirsi di bellissime scaglie che hanno lo splendore del metallo, si uniscono in bande immense e cominciano i loro viaggi. Si mettono in moto in primavera, scendono verso il mare e nessun pericolo, nessun ostacolo li trattiene.

— Nemmeno le reti dei pescatori?

— No, Annie, d’altronde sono così robusti che sovente le lacerano in varii punti, e da quei fori tutti, o almeno per la maggior parte, passano, — rispose Harris.

— Ed entrano subito in mare, senza transizione alcuna? — chiese Annie.

— No, non commettono una simile imprudenza che potrebbe essere loro fatale. Si fermano due o tre giorni nelle acque salmastre per abituarsi al sale, poi scompaiono nelle profondità dei golfi o dei mari, e, durante il loro soggiorno nelle acque salse, non è più possibile vederne uno. Al pari dei merluzzi che, terminata la loro migrazione sui banchi di Terranova e nei fiords dell’Islanda e della Norvegia, non si mostrano più. Che cosa succede di loro? E’ ancora un mistero.

— E dura molto la loro assenza? — chiese lo scrivano, che pareva s’interessasse vivamente a quelle spiegazioni.

— Sette od otto settimane ordinariamente, — rispose Harris, — poi tornano a radunarsi alla foce dei fiumi, ma non sono più gli stessi di prima, anzi sono assolutamente irriconoscibili, e assai più grossi. Quando i piccoli salmoni scendono verso il mare non pesano in media più di tre ettogrammi; quando tornano nelle acque dolci raggiungono i quattordici e anche i quindici.

— In sole due o tre settimane?

— Sì, Blunt.

— Si vede che giova loro molto l’acqua di mare, — osservò Annie.

— Una cura meravigliosa, — disse Blunt, ridendo. — Peccato che anche gli uomini che si recano ai bagni di mare, non riescano ad ingrassare a quel modo.

— E poi, signor Harris? — chiese Annie.

— Tornano a fermarsi nelle acque salmastre, quindi risalgono il fiume: allora riprendono i colori primitivi e perdono anche parte del loro peso. Procedono sempre in massa, con una velocità prodigiosa: possono infatti percorrere comodamente dieci leghe all’ora e più; nessuno li trattiene, nemmeno le cateratte che essi varcano facilmente puntandosi sulle pietre del fondo e avvicinando la bocca alla coda, di cui chiudono l’estremità fra i denti.

— Scattano come un arco? — disse Blunt.

— Precisamente, — rispose l’ingegnere.

— E se la cateratta è troppo alta?

— S’incaricano i pescatori di costruire le cosidette scale pei salmoni per permettere loro di superarle; a quei furbi preme che non s’arrestino, per poterli prendere nei luoghi più acconci a tendere le reti. Amici miei, siamo alla frontiera dell’Arizona. Il Gran Cañon del Colorado non è lontano.

— Scendiamo alla prima stazione? — chiese Annie che era visibilmente commossa.

— No, è a Peach-Springs che lasceremo il treno. Ecco le praterie. Fra poco vedremo i primi indiani.

Il treno correva allora su una pianura così vasta che non se ne poteva scorgere i confini.

Le erbe erano folte e altissime, chiazzate di fiori variopinti: qua e là sorgevano gruppi di grandi cactus spinosi, di romici dai fiori candidissimi, che contengono un po’ d’acqua, sufficiente a dissetare un viaggiatore, e cactus a boccia che rassomigliano ad alveari, d’un bel verde cupo e armati di formidabili spine.

Non si scorgevano più nè borgate, nè accampamenti, nè ranchos. Fuggivano invece di tratto in tratto, all’accostarsi del treno, spaventate dal fragore e dal fumo che irrompeva dal largo camino in forma di campana rovesciata, piccole bande di antilopi dalle corna forcute, alte quanto un vitello, di forme eleganti e sottili, col pelame rosso pallido sul dorso e sul petto e biancastro sotto il ventre.

Anche un gran numero di volatili s’alzava fra le erbe, fuggendo precipitosamente; pettirossi, uccelli beffatori che imitano tutti gli altri, usignoli della Virginia e trupiali dalla testa aranciata.

Verso il tramonto, quando il treno ebbe oltrepassata senza fermarsi la minuscola stazione di Yucca, per la prima volta i viaggiatori incontrarono una piccola truppa d’indiani.

Erano una mezza dozzina d’individui cenciosi, che montavano splendidi cavalli di prateria di forme perfette, con lunghe criniere e bardati alla messicana; le selle erano però stracciate e sfondate.

Erano accompagnati da tre donne che li seguivano a piedi, cariche come mule, brutte, piccole, col volto piatto, le gambe arcuate e non meno stracciate dei loro compagni.

Che miseranda figura facevano quei pelli-rosse trasformati dalla civiltà!... Dove erano i baldi guerrieri che con le loro grida di guerra spargevano il terrore nelle fattorie e nelle borgate, e sul loro-passaggio non lasciavano che rovine fumanti e teste scotennate? Dove erano i mocassini colorati e ricamati, adorni di capigliature strappate ai nemici vinti; i diademi di piume variopinte col cerchio d’oro purissimo; i trofei di penne di tacchino selvatico scendenti lungo il dorso e le terribili scuri di guerra, i tomahawks?

Quei figli degeneri degli intrepidi scorridori delle praterie avevano ancora i capelli lunghi che giungevano sino alle spalle, e la pelle rosso-cupa, ma l’abbigliamento pittoresco dell’antico indiano era scomparso.

Ed infatti quegli straccioni, che avevano rinunciato alla vita selvaggia, un po’ per forza, un po’ per fame, un po’ pei liquori degli uomini bianchi, avevano sostituiti i diademi con informi cappelli a cilindro, ammaccati e spelati, che per unico ornamento avevano delle etichette gialle, di latta, strappate a scatole di sardine di Nantes raccolte in qualche immondezzaio; le loro coperte di lana erano bucate e rattoppate in cento luoghi e i calzoni erano sfondati, mancanti della parte posteriore e scuciti in fondo.

È vero che in luogo della scure di guerra avevano una carabina, più utile, e più efficace nella difesa, ma avevano conservati i piedi nudi.

Blunt, lo scrivano, si era slanciato sulla piattaforma, lasciandosi sfuggire una serie di esclamazioni.

— Questi sono i tremendi indiani!... Possibile?... Ma no, non possono essere figli della prateria questi pezzenti!... Ditemi che vi siete ingannato, signor Harris.

— No, amico mio, — rispose l’ingegnere, che rideva godendo dello stupore dello scrivano. — Quelli sono veri indiani.

— Con quelle vesti!...

— Che cosa volete, mio caro Blunt. Sono gli effetti della civiltà!

— Sono dunque...

— Indiani mansos, ossia sottomessi.

— Sono dei veri miserabili!... Non li avevo sognati così. I libri che ho letto mi hanno perfidamente ingannato.

— Adagio, mio caro Blunt, non tutti sono così. Quando giungeremo sul territorio degli Apaches e dei Navajoes, vedrete degl’indiani ben diversi, con ornamenti di penne, mocassini, scuri di guerra. Solo l’arco hanno lasciato da parte per la carabina, o meglio pel rifle, di cui si servono benissimo. Quelli hanno sdegnosamente respinti gli effetti della civiltà e si mantengono ancora indipendenti. Sono i più formidabili guerrieri di tutta l’America del Nord, superiori anche ai Sioux ed ai Comanci.

— Ancora numerosi? — chiese Annie.

— Sì, perchè le loro tribù non si combattono nè si distruggono a vicenda, ed hanno sempre rifiutata l’acqua del diavolo, ossia il whisky, che è stato fatale ai loro confratelli del Nord e dell’Est.

— E’ vero, signor Harris, che tutte le altre tribù scemano con rapidità incredibile?

— Anzi, scompaiono totalmente, — rispose Harris. — Molte tribù che un tempo erano formidabili e potevano mettere in campo perfino diecimila guerrieri, come i Mandani, non esistono ormai più. Guardate: nel 1866 gl’indiani ancora indipendenti, che non vivevano cioè sotto la protezione di certi Stati, erano circa 300.000. Oggi questa cifra è enormemente ridotta.

— Chi li ha distrutti? — chiese Blunt.

— Le lotte intestine innanzi tutto, poi la fame, dato che non posseggono più territori abbastanza vasti da poter vivere di caccia, le bevande alcooliche e le malattie introdotte dagli uomini della nostra razza.

D’altronde, la legge graduale della scomparsa dell’indiano è sempre la stessa, che si è osservata presso tutte le tribù barbare venute a contatto coll’uomo civile.

La barbarie e la civiltà non possono camminare l’una vicina all’altra. All’uomo rosso la natura aveva fatto dono d’un campo immenso, maggiore di quelli dati ad alcun’altra nazione, per fecondarlo e popolarlo. In queste regioni del Grande Ovest e del centro si trovano le più estese pianure, le più belle praterie, le più folte foreste, le acque più limpide, i laghi più vasti.

La natura, generosa e paziente, lasciò al pelle-rossa il tempo necessario per trarre profitto da tutti quei tesori, ma l’indiano non volle piegarsi alla dura necessità del lavoro, che è la legge dell’umanità; non volle scavare il suolo e renderlo ubertoso coi suoi sudori.

Le pianure e le foreste egli non le ha utilizzate che per la caccia, e le acque per una povera pesca. Finalmente, come se la natura si fosse stancata, giunse l’uomo bianco che portò su questo vasto continente una energia ed un ardore indomabili, e quel giorno segnò la fine della razza rossa.

— Si può compiangerli, ma non si può accusare che loro stessi della loro sconfitta e della loro scomparsa non lontana, — disse Annie.

— Allora gl’indiani fra cinquant’anni non esisteranno più, — disse Blunt.

— Forse no, — rispose Harris. — Un certo numero di essi si è dato alla coltivazione dei campi, e le riserve loro concesse dal Governo dell’Unione, sono per la maggior parte prosperose e assicurano ormai il vitto a quegli uomini rossi. Altri, cosa ancora più straordinaria, come gli ultimi discendenti delle tribù dei Channies e dei Wiandotte, si sono dati al commercio, tengono negozi, e fanno perfino i banchieri, prestando ai loro confratelli selvaggi al sessanta per cento.

— Generosi come gli strozzini, — disse Blunt.

— Una gran parte conduce invece una esistenza triste: sono relegati nei loro villaggi, si ubriacano appena possono accalappiare qualche animale e venderne la pelle, e sfogano il loro eterno cattivo umore sulle proprie mogli, battendole crudelmente a sangue. Inacerbiti dalla loro sorte, poichè non trovano più sul sentiero della guerra, nelle rappresaglie sanguinose e nelle orribili scene del palo di tortura, uno sfogo ai loro istinti di uomini primitivi, essi inferociscono sugli esseri deboli che li circondano. L’antico guerriero si è trasformato in un indegno aguzzino.

— Oh!...

Una serie di fischi acuti lanciati dalla macchina ed una brusca scossa del treno, accompagnata da grida e dal tintinnìo della campana, li avevano fatti accorrere verso l’opposta piattaforma.

— I bisonti che emigrano! — aveva esclamato l’ingegnere. — Mio caro Blunt, qui potete fare una caccia colossale!

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