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CAPITOLO XII
I primi Indiani
I cuochi del carrozzone-ristorante, sempre in buon numero sui treni americani che percorrono le regioni centrali e meridionali, così povere di stazioni, specialmente trenta o quarantanni fa, furono messi a dura prova quel giorno per soddisfare i passeggeri, che volevano banchettare con la carne di bufalo.
Perfino i macchinisti ebbero la loro parte di lavoro, facendo arrostire dinanzi al forno enormi pezzi di carne, che i minatori s’affrettavano a divorare senza troppo badare al gusto non molto buono che dava loro il carbon fossile.
D’altronde i viaggiatori avevano molto tempo da trascorrere a tavola, poichè a mezzodì non si scorgevano ancora le ultime file di quella prodigiosa migrazione di ruminanti. Eppure molte migliaia d’animali dovevano essere passate in quelle trenta ore! Il treno speciale si era pure fermato ad una distanza di due miglia dal primo ma nessuno dei viaggiatori che lo montavano era sceso per assistere a quello spettacolo. Dovevano essere in pochi, perchè un solo carrozzone era attaccato al tender.
Chi erano? Il conduttore del primo treno si era bensì recato ad interrogare i macchinisti, ma aveva saputo ben poco.
Le persone che occupavano l’unico carrozzone erano salite ad Harper, la stazione più vicina a Kramer e si recavano a Peach Springs, per affari urgentissimi, pagando mille dollari per la formazione del treno. Avevano chiesto, come era loro diritto, di passare innanzi allo scambio della piccola stazione di Kingman, senza aggiungere altro.
D’altronde, nessuno dei viaggiatori del primo treno si era occupato di sapere chi erano quei frettolosi, perchè erano troppo affaccendati a far onore agli squisiti pezzi di bisonte ed ai grossi sanguinacci preparati dai cow-boys, secondo l’uso dei cacciatori della prateria.
L’ingegnere, Blunt e miss Annie, che si erano fatti servire la colazione nel loro carrozzone, stavano sorbendo una buona tazza di tè, quando improvvisamente udirono in lontananza acute grida seguite da alcuni colpi di fucile.
— Sono gli indiani che inseguono le ultime colonne, — aveva detto Harris, alzandosi precipitosamente. — Venite, miss, e voi soprattutto, Blunt, che desiderate vedere i veri guerrieri delle praterie.
Le piattaforme degli altri carrozzoni si erano già gremite di viaggiatori, curiosi d’assistere alla carica degli indiani.
I bisonti non avevano ancora sgombrata la linea; tuttavia le loro colonne cominciavano ad assottigliarsi e verso il nord non si scorgevano più torme immense come il giorno innanzi ed al mattino. Pareva anzi che gli ultimi branchi fossero in preda ad una viva eccitazione. Affrettavano il passo e le femmine spingevano i piccini a colpi di corna, perchè passassero innanzi ai maschi che coprivano la ritirata.
Sul verdeggiante orizzonte, numerosi punti neri filavano con rapidità prodigiosa, ora raggruppandosi, ora disperdendosi, descrivendo curve ed angoli improvvisi.
Pareva che seguissero con grande precisione le evoluzioni di un altro punto rossastro che li precedeva.
— Che siano indiani? — chiese Annie ad Harris, che li osservava attentamente, riparandosi gli occhi con le mani.
— Sì, sono certo di non ingannarmi, — rispose l’ingegnere. — Vi è una cosa che non riesco tuttavia a spiegarmi.
— Quale? — chiese Blunt.
— Non mi pare che quei cavalieri se la prendano coi bisonti. Si direbbe che inseguano qualcuno.
— Quel punto rosso?...
— Sì, — rispose Harris.
— Che diano la caccia a qualcuno?...
— Certo, e deve interessare agl’indiani più che ai bisonti.
— Che quel punto rosso sia un cacciatore della prateria che intendono scotennare?...
— Ne ho il sospetto.
— E sono proprio indiani, — disse Annie. — Distinguo già i loro diademi piumati ed i loro capelli svolazzanti.
— E fanno fuoco, — aggiunse Blunt.
— Ah! — esclamò ad un tratto Harris. — È un bianco quello che inseguono. Deve essere un personaggio molto importante perchè gl’indiani rinuncino ai bisonti per la capigliatura di quell’uomo.
— Signore, prepariamoci a difenderlo, — disse Blunt.
— Ci troverà pronti, quantunque mi sembri che guadagni via sui suoi inseguitori. Portate le carabine. Se sono indiani indipendenti, Apaches o Navajoes, sono capaci di dare l’assalto al treno.
La macchia rossa ingrandiva a vista d’occhio e manovrava in modo da mettere sempre fra sè e le altre le ultime colonne dei bisonti.
Dopo un quarto d’ora di corsa sfrenata e di continue manovre fra le torme dei bisonti, il cavaliere inseguito comparve improvvisamente sul margine d’una macchia di piante di romice, che si alzavano a solo quattro o cinquecento passi dal primo treno.
Come Harris aveva sospettato, era un uomo bianco che indossava il caratteristico costume dei cacciatori della prateria, col sombrero messicano in capo e una lunga capigliatura.
Montava un bellissimo mustano rossastro, con qualche chiazza bianca, e galoppava dritto verso il treno, sferzando vigorosamente la sua cavalcatura, quantunque questa filasse come una tromba marina.
A cinquanta passi dalla macchia arrestò bruscamente il suo cavallo, con un volteggio fulmineo, poi, facendosi portavoce con le mani, gridò con voce tonante:
— Badate, signori, ho gli Apaches alle spalle. Preparate le armi.
I tre cow-boys, che erano sul treno avevano mandato un grido di sorpresa e ad un tempo di gioia:
— Buffalo Bill!...
Il cavaliere si levò il cappello salutando galantemente miss Annie, che si trovava sulla piattaforma, poi caracollò intorno alla macchina, passando fra questa e le ultime schiere dei bisonti.
Era un bellissimo uomo sulla trentina, dai lineamenti perfetti come quelli d’un greco, con lunghi capelli castani che gli cadevano in riccioli sulle spalle, come usavano gli abitanti delle frontiere, e di statura alta ed atletica.
Prima di scomparire dall’altra parte del treno guardò gl’indiani che sbucavano allora fra le piante di romice, piantò gli speroni nel ventre del suo cavallo, e s’allontanò rapidamente, seguendo parallelamente la fila dei bisonti.
Gli Apaches, scorgendo il treno fermo, avevano arrestate le loro cavalcature, indecisi se continuare la caccia allo scorridore della prateria o sfogarsi contro i bisonti.
Erano una ventina e non rassomigliavano affatto agli straccioni che Blunt aveva osservato il giorno innanzi, al di là del Rio Colorado. Erano tutti di statura piuttosto alta, con la pelle scura, e gli zigomi assai sporgenti: facevano una superba figura coi loro diademi di penne di tacchino selvatico, i capelli svolazzanti, i calzoni a campana che coprivano parte delle uose ricamate in rosso ed i camiciotti di pelle di daino, aperti sul petto.
Le loro gambiere erano ornate di capigliature strappate ai nemici e sui fianchi portavano sottili strisce di pelle, come i mulattieri andalusi.
I viaggiatori ed il personale del treno, vedendoli comparire e temendo un attacco, si erano precipitati sulle piattaforme, sparando in aria alcuni colpi di rivoltella, per far loro comprendere che erano armati e pronti a difendersi.
— Chi sono? — chiese Blunt, che tormentava il grilletto del suo rifle.
— Apaches, — rispose Annie. — Oh!... Li conosco benissimo, avendoli veduti parecchie volte nel Gran Cañon.
— Sì, Apaches, — confermò l’ingegnere. — I più pericolosi ed i più crudeli fra tutti gl’indiani dell*America Settentrionale.
— Che ci assalgano? — chiese Blunt.
— Non sono abbastanza numerosi per tentarlo, — disse Harris.
Gl’indiani si erano radunati, formando circolo, e pareva che discutessero animatamente.
Ad un tratto impugnarono i loro tomahawks di guerra e le lance e partirono al galoppo, dirigendosi verso le ultime colonne dei bisonti che s’affrettavano ad attraversare i binari.
Quei ruminanti sfuggono l’indiano, che è il loro secolare nemico. Si lasciano forse accostare dall’uomo bianco, mai dall’uomo rosso. Accortisi della presenza degli Apaches, si erano messi in corsa, rompendo i ranghi.
Maschi, femmine e vitelli si confondevano, urtandosi, schiacciandosi, in preda ad un vivo spavento.
Gl’indiani caricavano mandando urla feroci e facendo scintillare le punte di ferro delle lance e le larghe lame delle scuri.
— Aprite gli occhi, Blunt, — disse Harris. — Assisterete ad una caccia emozionante.
Gli Apaches si erano slanciati con una pazza temerità fra le file dei colossali animali, facendo spiccare ai loro cavalli salti straordinarii, e colpivano ferocemente con le lance e le scuri urlando incessantemente.
Per alcuni istanti i poveri animali si lasciarono massacrare, non tentando che di sottrarsi all’attacco brutale, poi parecchi maschi colossali, feriti e inferociti dal dolore e dai colpi di picca che ricevevano nelle parti più delicate del corpo, si rivolsero furiosamente contro gli assalitori, caricandoli a loro volta.
Fu un momento terribile. Parecchi cavalli, che si trovavano stretti fra le file, caddero sventrati dalle corna dei ruminanti, ma gl’intrepidi scorridori della prateria non si lasciarono cogliere.
Con agilità prodigiosa balzavano sul dorso dei bisonti, i quali, sentendosi addosso quel peso insolito, non tardavano ad aprirsi un varco fra i compagni fuggendo all’impazzata attraverso la prateria, dove cadevano sotto i poderosi colpi di scure, che avventavano loro i cavalieri.
La mischia non durò che dieci o quindici minuti.
Quel breve spazio di tempo era bastato agl’indiani per procurarsi un quantitativo di carne sufficiente per parecchie settimane alla loro tribù.
Quando la retroguardia dei bisonti scomparve al di là dei binari, galoppando sfrenatamente verso il Sud, una cinquantina di corpi giganteschi e parecchi vitelli giacevano fra le erbe, coperti di sangue.
— Che massacro! — esclamò Blunt, che aveva seguite le varie vicende della caccia cogli sguardi ardenti, — È vero però che metà degl’indiani sono smontati.
— Ne hanno ad esuberanza di cavalli, — rispose Harris. — Ogni indiano non ne ha mai meno di sette od otto legati ai piuoli della sua tenda.
— E come faranno ora a trasportare al loro villaggio tutte quelle bestie?
— Le scuoiano qui, poi giungerà la tribù ad aiutarli.
In quel momento si udì uno sparo e si vide passare in coda al treno, trasportato da un galoppo sfrenato, il bel cacciatore che poco prima era stato inseguito.
Risaliva verso il Nord, passando a soli cinquecento metri dagli Apaches, quasi ridendosi di loro.
Fece con la mano un gesto d’addio ai viaggiatori del treno, che lo salutavano con urràh fragorosi, e scomparve fra il boschetto di piante di romice.
— Bravo Buffalo Bill! — aveva esclamato Annie. — Ecco un uomo che non ha paura nemmeno del diavolo.
Gl’indiani, scorgendo il cavaliere, avevano fatto l’atto di slanciarsi verso i cavalli che ancora rimanevano loro, poi, comprendendo che non sarebbero riusciti a raggiungerlo con animali ormai sfiniti, desistettero, limitandosi a lanciargli dietro una serqua d’imprecazioni e di minacce.
— Chi è dunque quell’uomo? — chiese Blunt, mentre il treno si rimetteva finalmente in marcia, perchè la linea era ormai completamente sgombra, seguito subito dal convoglio speciale.
— Il colonnello Cody o meglio Buffalo Bill1, il più intrepido e popolare scorridore delle praterie del Far West, — rispose l’ingegnere. — Io l’ho conosciuto nei deserti dell’Utah.
— Ed io nel Gran Cañon, — aggiunse Annie. — Quell’uomo lo si trova dovunque vi siano dei pericoli da sfidare.
— Un uomo assolutamente meraviglioso, — disse Harris. — Le avventure toccate a lui sono così straordinarie che basterebbero per scrivere un interessantissimo libro.
— Raccontate un po’, signor Harris, — disse Blunt.
— Pare impossibile che non abbiate mai udito parlare di quel demonio, che è conosciuto tanto nell’Est che nel Grande Ovest, così al Nord come al Sud degli Stati dell’Unione, e che è particolarmente temuto da tutti gl’indiani, i quali invano da anni lo insidiano par strappargli la sua bella capigliatura.
— Un bell’uomo davvero, — disse Blunt, con entusiasmo. — Sarei felice di fare le mie armi con lui.
— Non potreste trovare un maestro migliore, ve l’assicuro, — disse Annie.
— Raccontate dunque qualcosa su quell’uomo straordinario — disse Blunt.
Harris stava per aprire la bocca, quando si udì la macchina del primo treno e subito dopo anche quella del secondo, che seguiva a tre o quattrocento passi di distanza, mandare fischi d’allarme.
Subito dopo urla spaventevoli e colpi di fucile rimbombarono sulla prateria.
— Che cosa c’è? — chiese l’ingegnere, precipitandosi sulla piattaforma. — Briganti! Giungono al galoppo! Lo sospettavo!
Due o trecento indiani erano usciti da una boscaglia d’alberi del cotone, e correvano, a galoppo sfrenato, verso i due treni, sparando colpi di carabina e urlando spaventosamente.
L’ingegnere aveva spinta precipitosamente entro il carrozzone Annie, mentre una palla spezzava un vetro della porta vicina.
— Blunt! Le carabine! — aveva gridato.
Il treno aveva accelerato la corsa. Il macchinista doveva aver aperto tutto il regolatore per sfuggire a quella grandine di palle.
I viaggiatori dei due treni avevano subito risposto con le rivoltelle ed i fucili, scavalcando più d’un guerriero e facendo stramazzare alcuni cavalli; tuttavia gl’indiani non si erano arrestati.
Non potevano però gareggiare con le due locomotive che avevano portato la loro velocità a cento chilometri all’ora.
Ed infatti per pochi minuti sfilarono a corsa furiosa lungo i due treni, sempre sparando ed urlando, poi rimasero indietro, nonostante gli sforzi disperati dei loro cavalli.
— Se i bisonti tardavano ancora qualche ora a sgombrare la linea, eravamo perduti, — disse Harris, che aveva scaricata un’ultima volta la carabina, gettando di sella uno degl’inseguitori, che montava un superbo cavallo bianco. — È mancato loro il tempo di strappare le rotaie. È proprio qui che l’anno scorso quei bricconi hanno fermato e saccheggiato un treno merci, massacrando e scotennando macchinisti, fuochisti e frenatori e anche il capo treno. Ho veduto anzi uno di quei disgraziati, sfuggito miracolosamente alla morte, che era sopravvissuto allo scotennamento. Si trovava allora all’ospedale di Prescott, ancora in cura.
— E gli avevano levata la pelle della testa? — chiese Blunt, facendo un gesto d’orrore.
— Perfettamente, — rispose Harris. — Per di più aveva preso un colpo di lancia in una spalla: dovette a quella ferita la sua salvezza. Il dolore era stato così terribile che quel disgraziato svenne. Gl’indiani, credendolo morto, lo scotennarono, poi non si curarono più di lui.
— Si può dunque vivere anche dopo aver subita quell’atroce tortura? Non l’avrei mai creduto.
— È una mutilazione più dolorosa che pericolosa, — rispose l’ingegnere, — e le persone che la subiscono, guariscono abbastanza bene. Soffrono solamente, di quando in quando, un violento mal di capo.
— I capelli non crescono più?
— Il cranio rimane per sempre denudato.
— Ed il treno l’hanno saccheggiato? — chiese Annie.
— Fu vuotato di tutto ciò che conteneva, e siccome i carrozzoni portavano una grossa partita di pezze di seta destinate a non so quale negoziante di S. Francisco, quei bricconi le attaccarono alle code dei loro cavalli e partirono ventre a terra, trascinandosi dietro, a guisa di trofei, quelle lunghe liste di tessuti dai mille colori.
— Sono terribili quei demoni.
— Guardatecene, mio caro Blunt, se volete conservare la vostra capigliatura. Sarebbero ben lieti di averne una bionda come la vostra, — disse l’ingegnere, ridendo.
- ↑ Il capo della truppa indiana che venne in Italia.