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CAPITOLO XIV
Il colonnello Pelton
Terminata la colazione, Harris e lo scrivano lasciarono l’albergo, risoluti a formare una piccola banda che li scortasse fino al Gran Cañon, nel caso che non potessero ottenere una corriera.
— - Dove abita quel colonnello? — chiese lo scrivano.
— In una palazzina che sorge presso la stazione, — rispose Harris. — Ha rinunciato alle armi già da parecchi anni e non si occupa che della sua sventurata moglie.
— Perchè sventurata? — chiese Blunt.
— È cieca. Gli Apaches le hanno bruciati gli occhi. Mi pare impossibile che non abbiate mai udito parlare del signor Pelton, uno dei più tremendi avversari che abbiano avuto gl’indiani.
— Non conosco la sua storia.
— È vero che risale al 1844, — disse Harris. — In quel tempo il signor Pelton non era altro che un semplice volontario dell’esercito dell’Unione, e soltanto più tardi, dopo la guerra col Messico, fu creato colonnello per le grandi prove di coraggio date sui campi di battaglia.
Si era innamorato di una graziosa messicana, la signora d’Albequin che aveva una hacienda presso il forte Macrae, a breve distanza dalla frontiera, e, dopo due anni, l’aveva sposata.
La coppia felice, dopo pochi mesi, aveva deciso di recarsi alle sorgenti calde, lontane appena sei miglia dal forte, per scegliere alcuni terreni che intendevano acquistare. Erano accompagnati dalla madre della sposa e da un drappello di venti soldati.
La gita si era compiuta senza cattivi incontri; anzi, rassicurati pienamente, avevano approfittato della vicinanza delle sorgenti calde per prendere un bagno. Ad un tratto, una freccia fischiò ai loro orecchi, seguita subito da molte altre, poi una torma di Apaches sbucò fra le rupi, precipitandosi furiosamente addosso ai bagnanti.
Parecchi soldati erano caduti trafitti, altri, spaventati, si erano dati a fuga precipitosa, non avendo avuto il tempo di afferrare le armi.
La signora d’Albequin e sua madre erano pure rimaste ferite; il colonnello invece era sfuggito miracolosamente a quella grandine di dardi. Coraggioso come era, aveva lestamente attraversato il bacino e si era impadronito del suo fucile.
Per parecchi minuti il prode soldato tenne testa a quei demoni, sparando senza tregua, uccidendone parecchi, fra cui il capo dell’orda; poi ferito replicatamente dai tomahawks che gli venivano scagliati addosso, era stato costretto a gettarsi in acqua per sfuggire alla morte.
Gli Apaches, temendo che giungessero altri soldati, si erano quasi subito ritirati; il colonnello, qualche ora dopo, potè quindi lasciare le rocce dell’opposta sponda dove si era rifugiato, e tornare sul campo della lotta. Sua moglie, che aveva veduta cadere trafitta dalle frecce era scomparsa; la madre di lei ed i soldati erano stati finiti a colpi di scure e poscia scotennati.
— Miserabili! — esclamò Blunt. — Sono peggiori delle tigri questi Apaches?
— I più crudeli di tutta l’America Settentrionale, — rispose l’ingegnere. — Ve lo dissi già.
— Continuate, signor Harris.
— Quantunque gravemente ferito, dopo due ore di fatiche inenarrabili, Pelton riusciva a guadagnare il forte di Macrae.
Là, in grazia delle cure dotte ed incessanti dei medici militari, le sue ferite poterono rimarginarsi in un tempo relativamente breve, ma egli trascorreva ormai una vita infelice, senza amore e senza speranza, con l’orribile visione della giovane e bellissima moglie giacente ai suoi piedi, trafitta dalle frecce indiane.
Da quel giorno nell’animo del colonnello si fece sempre più imperioso il sentimento della vendetta, tanto che giunse a non avere altro pensiero ed a credere che la sua fosse una missione sacra impostagli del cielo, per liberare la terra da quelle belve sanguinarie.
Da quel momento si votò allo sterminio delle Pelli Rosse.
Era ricco: si procurò le armi più perfezionate e micidiali, formò una banda di uomini audaci come lui ed iniziò una guerra tremenda, mettendosi a capo d’ogni spedizione rivolta contro gli uccisori di sua moglie.
— Mi avete detto però che è ancora viva, — disse Blunt.
— Adagio, amico. Ora viene la parte più interessante della storia, — rispose Harris. — Quando Pelton veniva a sapere che una tribù era in guerra cogli Apaches, feroci sempre, perfino contro gli uomini della loro razza, accorreva coi suoi uomini a prenderne il comando. La vita non aveva ormai più nessuna attrattiva per quel valoroso e la esponeva pazzamente, eppure tornava sempre incolume da quelle scorrerie.
Un giorno, dopo dieci anni, trascorsi sempre battagliando, avendo potuto radunare una cinquantina di quei terribili avventurieri, che si trovano soltanto sulle frontiere americane, egli decise di attaccare i suoi nemici nei loro stessi accampamenti.
Gli Apaches non avevano mai creduto, fino allora, che vi fosse un uomo così temerario da inoltrarsi nei loro deserti e fra le loro montagne inaccessibili, senza essere accompagnato da una scorta formidabile; e così, quando il colonnello piombò improvvisamente nei loro accampamenti, sparando le carabine Henry, i selvaggi fuggirono quasi senza opporre resistenza, e abbandonarono le loro mogli ed i loro figli alla rabbia dei vincitori.
Il massacro era cominciato, quando il colonnello vide uscire da una wigwam una donna bianca, che gridava: — Uomini della mia razza, risparmiate le donne e gl’innocenti!
Aveva appena pronunciate quelle parole che cadde subito svenuta ai piedi di Pelton. Quando rinvenne, egli si accorse che quella misera era cieca.
— Sua moglie! — esclamò Blunt.
— Aspettate un po’, eterno curioso. Il colonnello le chiese subito come mai si trovasse fra quelle belve umane, e se avesse dei parenti.
— Sono dieci anni che mi trovo qui, — rispose la donna. — Prendetemi, per carità, con voi e conducetemi da mio marito, se vive tuttora.
— Chi era? — chiese il colonnello.
— Il comandante del forte di Macrae.
Ciò che successe poi, potete immaginarvelo. La povera donna che gli Apaches avevano accecata per impedirle di fuggire, fu fatta salire a cavallo, e la banda lasciò quel paese maledetto, rinunciando a continuare la strage.
Oggi il colonnello è diventato un pacifico allevatore di bestiame, e non si occupa che della felicità della sua disgraziata consorte.
— Peccato non essere nato vent’anni prima, per fare parte della sua banda, — disse Blunt. — Per me, non avrei risparmiata nessuna di quelle belve umane.
— Ecco la stazione, disse in quel momento l’ingegnere, — ed ecco la palazzina del colonnello. Volete attendermi qui, Blunt? Vi è un bar laggiù dove potrete bere un bicchiere di birra. Il mio colloquio con il colonnello non durerà molto e non dispero, col suo appoggio, di avere questa sera una corriera a nostra disposizione.
— Vi attendo al bar, signor Harris, — rispose lo scrivano.
Aveva appena lasciato il compagno, e s’avviava zufolando verso la taverna, quando si trovò improvvisamente dinanzi a due uomini che indossavano il pittoresco costume dei vaqueros messicani e sembravano ubriachi.
Uno dei due, sia che avesse realmente perduto in quel momento l’equilibrio o che cercasse di commettere qualche prepotenza per attaccar lite, urtò così ruvidamente il giovane da mandarlo a sbattere contro la parete della stazione.
— Woa wangh!... — urlò il vaquero riprendendo subito l’appiombo. — Hai bevuto molto stamane.
— A me, lupo villano!... — esclamò Blunt, mettendo una mano in tasca. — Sei tu brillo, brigante!...
— Gambe di ragno!... A me dare del brigante! — ribatte il vaquero con tono minaccioso. — Chiudi il becco, ragazzaccio slavato.
— Buttalo con le gambe in aria, Montero, — disse il suo compagno.
Blunt aveva già udito altre volte parlare della prepotenza brutale di quei pastori, ma non era uomo che mancasse di fegato, nè da lasciarsi placidamente insolentire.
Con le sue lunghe gambe sferrò ai due uomini un paio di calci poderosi, poi, estraendo rapidamente la rivoltella, la mise sotto il naso del più vicino, dicendogli:
— Se vuoi, c’è del buon piombo qui dentro, che peserà anche nel tuo cervello da bisonte.
I due vaqueros avevano fatto l’atto di levarsi i machetti che portavano alla cintola, poi, vedendo che Blunt sembrava fermamente deciso a far fuoco, si allontanarono bestemmiando.
Stavano per voltare l’angolo della stazione, quando lo scrivano con suo profondo stupore udì uno dei due dire a voce abbastanza alta:
— Lo ritroveremo nel Gran Cañon, e anche l’ingegnere avrà da fare con noi.
— Chi sono quelle due canaglie, e come sanno che io accompagno il signor Harris? — si chiese il bravo giovane assai preoccupato per quelle parole. — Che l’ingegnere abbia qui dei nemici? C’è sotto un mistero che vorrei delucidare prima di lasciare la borgata.
Assai pensieroso, entrò nel bar e si sedette in un angolo, facendosi servire della birra. Non aveva nemmeno notato che due negri, che stavano vuotando una bottiglia ad un tavolo poco discosto, al suo apparire si erano precipitosamente alzati, gettando sul tavolo un dollaro, ed erano usciti senza attendere il ritorno del garzone.
Accese un sigaro e s’immerse in profondi pensieri, frugando e rifrugando nella sua memoria, tentando di ricordarsi dove potesse aver incontrati quei due vaqueros misteriosi.
Si trovava là da un’ora, quando vide finalmente entrare l’ingegnere in compagnia d’un vecchio d’alta statura, dal portamento militare, con una lunga barba bianca, che mascherava malamente una cicatrice che gli deturpava il viso.
— Il colonnello Pelton, — disse Harris, presentandoglielo. — Abbiamo buone speranze di poter partire questa notte.
— Signor Harris, — disse lo scrivano, dopo aver stretta la mano al vecchio. — Permettetemi innanzi tutto una domanda.
— Parlate, amico.
— Avete delle conoscenze fra i vaqueros?
— Non mi sembra. Perchè mi dite questo?
— Vi sono qui delle persone che sanno che noi ci rechiamo nel Gran Cañon.
— È impossibile!... — esclamò l’ingegnere. — Non abbiamo parlato con nessuno, finora.
Lo scrivano gli narrò in poche parole quanto gli era accaduto un’ora prima, non omettendo le parole che aveva udito.
— Dei vaqueros! — esclamò Harris, passandosi la mano sulla fronte. — Eppure io non ho mai avuto alcun rapporto con quegli uomini.
— Signor Harris, che ci sia sotto la mano del Re dei Granchi?
L’ingegnere aveva fatto un balzo.
— Ancora quel furfante!...
— Forse che non ha cercato di assalire il treno?
— E come volete che abbia fatto a raggiungerci? Abbiamo sempre viaggiato con la ferrovia, mentre i banditi che ci attaccarono non avevano che dei cavalli.
Lo scrivano rimase silenzioso per qualche minuto, poi un grido gli sfuggì.
— Ventre di foca!... — esclamò. — Erano loro! Ne sono certo!...
— Spiegatevi, Blunt.
— Quel treno speciale... ve lo ricordate, signor Harris.
— Quello che ci raggiunse durante la migrazione dei bisonti e che passò dinanzi a noi a Kingman, mi pare. Che fosse montato da quei miserabili?... Bisogna proprio che lo uccida quel negro maledetto! Colonnello, è giunto qui e si è fermato un treno speciale?
— Ne ho udito parlare, — rispose il signor Pelton. — È giunto ieri mattina, se non m’inganno, e non è più ripartito.
— Chi lo montava?
— Lo ignoro, ma mi sarà facile saperlo. Il capo stazione è mio amico e non avrà alcuna difficoltà a dirmelo. Aspettatemi qui, signori; fra pochi minuti sarò di ritorno e andremo a trovare Koltar.
— Chi è Koltar?
— Il corriere più valoroso, il solo che abbia tanta audacia da condurvi al Gran Cañon. Con un buon regalo non si rifiuterà, spero.
Vuotò una tazza di birra e uscì, appoggiandosi al suo bastone.
— Signor Harris, — disse Blunt, quando furono soli. — Non abbiamo commessa un’imprudenza, lasciando sola miss Annie nell’albergo?
— Quei briganti non oseranno far nulla in pieno giorno ed in una città dove i soldati non mancano. La legge di Lynch fa paura a tutti e non si scherza qui.
— Eppure non sono tranquillo e vorrei andarmene per vegliare sulla fanciulla.
— Grazie, amico. Aspettiamo il colonnello, prima.
Un quarto d’ora dopo il signor Pelton rientrava. Dalle rughe profonde che solcavano la sua fronte, l’ingegnere capì subito che non doveva avere delle buone notizie da comunicare.
— Il treno speciale si è fermato precisamente qui, ed era stato ordinato telegraficamente al deposito di Needles al prezzo di mille e cinquecento dollari.
— E da chi? — chiesero ad una voce Blunt ed Harris.
— Da una quindicina di viaggiatori che erano giunti a Harper, per la maggior parte vaqueros.
— Vi erano anche dei negri fra di loro? — chiese l’ingegnere.
— Il capo stazione mi disse che ne vide scendere tre o quattro.
— Sono loro! — esclamò lo scrivano.
— Si sono fermati qui? — chiese Harris.
— Non sembra. Avevano dei cavalli sul treno e, appena giunti, si allontanarono. Si crede che siano partiti pel nord.
— Eppure i due che hanno cercato d’attaccare lite con me dovevano far parte di quella banda, — disse Blunt.
— Può darsi che ne abbiano lasciati qui alcuni per sorvegliare il nostro arrivo, — rispose Harris.
— Io vi lascio, signori, vado a vegliare su miss Annie.
— E se quei due si presentano, non esitate a prenderli a colpi di rivoltella, mio caro Blunt.
— Farò scoppiare le loro teste come zucche, signor Harris.
— E noi andiamo subito dal corriere, — disse il colonnello. — Abita poco lontano e lo troveremo in casa.
Mentre lo scrivano si dirigeva verso l’albergo, l’ingegnere ed il vecchio imboccarono una via laterale, aprendosi a fatica il passo fra una torma di cavalli, che pareva fossero giunti poco prima dalle praterie e che un numeroso stuolo di cow-boys si sforzava di mantenere in fila, urlando, bestemmiando e scudisciando senza misericordia.
Dopo aver percorso una cinquantina di passi, il colonnello introdusse il suo giovane amico in un cortile dove parecchi peoni stavano strigliando alcuni splendidi mustani di prateria, di forme perfette.
Sotto una tettoia, un uomo di forme gigantesche, dalla pelle bruna, la barba nerissima e gli occhi lampeggianti, che portava sul capo un berretto tondo di pelle di castoro, il cui lungo pelame gli cadeva sul dorso, e indossava i mistasses, specie di calzoni di pelle di daino cacciati entro alti stivali, stava divorando un enorme pezzo di carne appena rosolata, condita con una salsa che mandava un profumo strano.
Vedendo apparire il colonnello, depose la carne su di una sedia che gli serviva da tavola e s’alzò, salutando.
— Qual vento vi porta qui, signor Pelton? — chiese.
— Un vento forse pericoloso, mio caro Koltar, — rispose il colonnello.
Il gigante lo guardò in silenzio, aspettando che si spiegasse.
— Vi sono delle persone che hanno bisogno di voi e vi pagheranno bene. Voi non avete paura degl’indiani, è vero, Koltar?
— Rajo de Dios, non ne ho mai avuta, — rispose il gigante. — Siamo vecchi amici o meglio vecchi nemici, e sanno se i miei pugni pesano.
— Accettereste di condurre quelle persone fino al Gran Cañon?
Il corriere udendo quelle parole corrugò la fronte, e fece una smorfia.
— È un’impresa ben difficile quella che mi proponete, signor Pelton. Lo sapete che i Navajoes battono la prateria e che non mi lascerebbero tranquillo.
— Vi offro duecento dollari; inoltre m’impegno di pagarvi i cavalli, nel caso che gl’indiani li uccidessero, — disse Harris.
— Si tratta di esporre la mia capigliatura, signore, e le Pelli Rosse sarebbero ben liete di strapparmela. In quanti siete?
— In due, con una miss, ma avremo una scorta di sei soldati. Il signor Pelton s’incarica di farceli avere.
— Suvvia, mio caro Koltar, — disse il colonnello. — Di notte gl’indiani dormono e farete un bel tratto fino a domani mattina.
— E poi?
— Nasconderete la corriera in una boscaglia, e attenderete il tramonto del sole per ripartire. Questo è il momento di mostrare che voi non avete paura, quantunque tutti sappiano le prodezze da voi compiute quando guidavate la corriera del Texas.
— Il rischio è grave, signor Pelton, — ribattè il gigante.
— Riflettete.
— Sia, — disse ad un tratto il colosso. — Nove uomini bene armati possono far molto. Attaccherò i miei sei migliori cavalli e li farò filare come una tromba.
— Quando partiremo? — chiese Harris.
— Alle otto di questa sera, signore. Tutto sarà pronto.
Harris sborsò metà della somma e uscì lietissimo, accompagnato dal colonnello.
Si erano appena allontanati d’un centinaio di passi, quando due uomini che stavano nascosti entro un portone d’una casa vicina, entrarono nel cortile del corriere. Erano i due vaqueros che avevano cercato di attaccar lite con lo scrivano.
Dovevano conoscere il corriere, perchè senza nulla chiedere ai peoni che strigliavano i cavalli, si diressero verso la tettoia sotto cui il gigante stava terminando la sua colazione, annaffiandola copiosamente con grossi bicchieri di birra.
— Voi avete ricevuto poco fa, — disse uno dei due, senza preamboli, — l’ingegnere Harris. Sapreste dirci dove ha intenzione di recarsi?
Il gigante aveva alzata la testa, guardando poco benignamente i due individui.
— Non conosco quel signore, — rispose poi seccamente.
— Era quella accompagnato da un vecchio.
— Ah!... E così?
— Desideriamo sapere se si reca nel Gran Cañon — riprese il vaquero, con voce ruvida, che suonava minacciosa.
— Ha noleggiata una delle mie corriere, ma non so dove andrà, — rispose il colosso. — Mi paga ed io lo servo.
— Quanto?
— Eh! Signori miei, siete un po’ troppo curiosi, mi sembra.
— Siamo pronti ad offrire il doppio se voi non partirete, o...
— O?...
— Se rovescerere la corriera nella prateria e la renderete inservibile, — disse il vaquero.
Koltar si era alzato cogli occhi sfavillanti, mostrando i suoi pugni enormi che parevano magli da fucina.
— Per chi mi prendi tu, canaglia? — gridò, scostando la sedia che gli serviva da tavola e preparandosi a fulminare gli imprudenti con due terribili scapaccioni. — Vattene, furfante, o t’uccido! Koltar è un uomo leale. Via di qui, prima che ti faccia a pezzi.
I due vaqueros, spaventati dall’aspetto terribile del colosso, avevano voltato bruscamente le spalle, fuggendo lestamente.
Uno dei due però, prima di uscire dal cortile, aveva gridato, con gesto minaccioso:
— Ti aspetteremo nella prateria!...