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CAPITOLO XV
La corriera del «Gran Cañon»
Il sole era tramontato da un’ora, quando Harris, Annie, Blunt ed il colonnello, seguiti da sei volontari delle frontiere, armati di carabine e di rivoltelle, entravano nel cortile del corriere.
Nel mezzo, alcuni peoni stavano attaccando sei vigorosi cavalli ad una enorme vettura, una di quelle famose diligenze che facevano il servizio fra gli Stati dell’Est e quelli dell’Ovest prima della costruzione della grande linea ferroviaria.
Era uno stage, certo una reliquia della famosa compagnia Wells e Fargo, che fino al 1867 aveva reso grandi servigi, portando i viaggiatori dalle rive dell’Atlantico a quelle del Pacifico, nonostante le incessanti ostilità degli indiani, un carrozzone insomma nello stile Luigi XIV, dipinto in color rosso vivo, sospeso a bilancia su molle di cuoio tese nel senso della lunghezza.
Al pari di quelle che avevano fatto il servizio nei territori del centro, aveva nove posti nell’interno, tre davanti, tre nel mezzo e tre dietro, tutti incomodi, specialmente i secondi, perchè le persone erano sostenute da una semplice cinghia trasversale che le reggeva sul dorso. Vi era inoltre una panchetta posteriore, capace di contenere due altre persone e l’imperiale, ossia la coperta superiore, per la scorta armata.
Il corriere era già al suo posto, con due rivoltelle alla cintura ed una grossa carabina ad armacollo, ed aveva fatto accendere i due fanali laterali.
— Affrettatevi, signori, — disse, scorgendo l’ingegnere ed i suoi compagni. — In alto i soldati, con me gli altri e dentro la signora. Si fa fuoco meglio fuori che nell’interno.
— Sono buoni i cavalli, Koltar? — chiese il colonnello.
— I migliori, signore, ed ho esaminato io, uno per uno, i finimenti. Nessun incidente accadrà se gl’indiani ci lasceranno tranquilli, ciò che non oso sperare.
— La scorta è formata d’uomini solidi.
— Lo vedo, — rispose il colosso. — Hanno munizioni abbondanti i soldati?
— Duecento colpi ciascuno.
— Si può fare qualcosa, allora, e resistere a lungo.
— Vi raccomando i viaggiatori; sono miei amici.
— Farò il possibile per condurli illesi al Gran Cañon, signor Pelton.
Il colonnello si avvicinò ad Harris, che aveva chiuso in quel momento lo sportello della diligenza, dopo aver raccomandato ad Annie di tener pronte anche le sue armi, e gli disse:
— Buon viaggio, amico. Spero che giungerete al Gran Cañon; ho appreso quest’oggi che Buffalo Bill batte la prateria con un manipolo di cow-boys per proteggere i conduttori di bestiame. Voi sapete quanto vale quell’uomo.
— Come!... Bill qui? Due giorni or sono l’ho veduto presso Kingman.
— Che cosa sono le distanze per quel diavolo d’uomo, che è capace di galoppare quindici ore su ventiquattro, senza stancarsi? Probabilmente lo troverete sul vostro cammino e vi proteggerà se gli direte che siete mio amico.
— Grazie, colonnello, — rispose Harris. — Spero che ci rivedremo presto.
Il go ahead del corriere interruppe la loro conversazione.
Harris salì lestamente a fianco del gigante, dove già lo scrivano lo aveva preceduto.
— Siete tutti pronti? — chiese Koltar, raccogliendole briglie e afferrando la lunga frusta.
— Sì, — risposero tutti.
— I bagagli sono legati?
— Non si muoveranno, — dissero i soldati della scorta.
— Via!...
I peoni avevano lasciati i sei cavalli, che scalpitavano, impazienti di divorare lo spazio. La pesante e monumentale vettura uscì dal cortile sobbalzando orribilmente, attraversò a corsa sfrenata il borgo e la linea ferroviaria e si slanciò sulla tenebrosa pianura, dirigendosi verso il settentrione.
Il corriere, che era dotato d’un vigore straordinario, guidava a meraviglia, tenendo raccolti i sei cavalli con pugno di ferro.
Appena scomparsi i lumi della stazione, aveva deposta la lunga frusta per essere più pronto ad afferrare le armi.
Quantunque non vi fossero nè luna, nè stelle, aveva subito spenti i fanali perchè gl’indiani, che forse perlustravano le praterie vicine alla borgata, non potessero scorgere la diligenza e dare l’allarme.
D’altronde pareva che quell’uomo avesse gli occhi dei gatti, poichè manteneva una linea rigorosamente diritta.
Aveva lasciato il sentiero tracciato dalle diligenze, assai malagevole del resto, a causa dei solchi profondi, e poco sicuro in quei momenti, e spingeva i cavalli attraverso le alte erbe incoraggiandoli con un fischio.
Un silenzio profondo regnava sulla buia pianura. Le erbe attutivano il fragore delle ruote ed il galoppo sfrenato degli animali. Nessun lume brillava, segno evidente che i fuggiaschi dal Gran Cañon non avevano osato accamparsi nei dintorni, per non venire sorpresi dai Navajoes e scotennati.
Harris e Blunt, avvolti entrambi in un mantello messicano per ripararsi dal freddo, che nella notte si fa sentire anche in quelle regioni così calde durante le ore del giorno, con la carabina fra le ginocchia, fumavano in silenzio dei sigari eccellenti, tenendosi presso il gigantesco corriere. Di quando in quando si alzavano per spingere lontano gli sguardi, credendo di vedere delle ombre attraversare la pianura con fantastica rapidità.
La scorta, coricata fra i bagagli, che erano stati disposti intorno all’imperiale perchè servissero di riparo, sonnecchiava sulle coperte di lana, coi fucili a fianco.
Erano sei giovani ben piantati, che avevano, già fatto le loro prove sulle frontiere messicane, mezzi cow-boys e mezzi scorridori della prateria, racimolati fra la schiuma americana, ma non per questo meno audaci. Cento dollari che aveva loro promessi Harris, li avevano subito decisi a scortare la corriera, col consenso del loro comandante. Non era una paga da disprezzare per loro che non riuscivano no a guadagnarne dieci in un mese di continui pericoli e di fatiche inenarrabili.
Già la corriera, che s’avanzava con velocità vertiginosa, aveva percorso una dozzina di miglia, quando in lontananza si udì un urlo lamentevole che fece trasalire il corriere e gli strappò un’imprecazione.
— Una coyota? — chiese Harris.
— Sì, un lupo di prateria per chi non ha gli orecchi esercitati come i miei, — rispose il gigante.
— Che cosa volete che sia? Le conosco anch’io quelle bestie.
— Uhm!... — fece il cocchiere, spezzando con un colpo di dente un sigaro e cacciandoselo sotto la lingua.
— Avete qualche dubbio?
— Vi dico che questo è un segnale.
— Dei Navajoes?
— Sì, di quei vermi maledetti.
— Che ci abbiano scoperti?
— Comincio a sospettarlo.
Con una strappata furiosa fermò di colpo i sei mustani facendoli piegare fino a terra, poi disse:
— Non parlate, signore.
Si rizzò sulla cassa, scrutò attentamente l’orizzonte, poi si mise in ascolto. L’urlo triste e lugubre del lupo della prateria si fece nuovamente udire in altra direzione.
— Uhm!... Uhm!... — grugnì il gigante, scuotendo la testa. — Avete notato, signore, che il secondo grido si è fatto udire sulla nostra sinistra invece che sulla destra?
— Le coyote usano chiamarsi per far numero e mettersi in caccia, — rispose Harris.
— Lo so, tuttavia io dico che sono segnali. Orsù, miei agnellini, trottate o vi striglio i fianchi in modo da strapparvi la pelle.
Allentò le briglie, lanciò un fischio e la diligenza riprese la sua corsa indiavolata sobbalzando sulle ineguaglianze del terreno è nei solchi lasciati dai pesanti furgoni dei pastori.
— Ehi, corriere, — disse uno della scorta. — Abbiamo novità?
— Tenete pronte le armi e le cartucce, — rispose Koltar.
— Ci vedi anche di notte tu?
— Può darsi.
— Harris, — disse in quel momento Annie, che stava sul primo sedile, subito dietro la cassa occupata dai tre uomini. — Che cosa c’è di nuovo, amico mio?
— Nulla per ora, Annie, — rispose l’ingegnere. — Sembra però che gl’indiani non siano lontani. Non avete paura, è vero?
— Sono pronta ad aprire il fuoco, — rispose la giovane con voce tranquilla. — Non tremate per me, amico mio.
— Con nove carabine faremo prodigi, — disse Blunt. — Mitraglieremo per bene quei furfanti, lo vedrete, signora Annie.
La corriera guadagnava rapidamente via. I sei mustani, che pareva avessero il fuoco nelle vene e dovevano essere dei corridori instancabili, non accennavano a rallentare, quantunque avessero già percorso una quindicina di miglia tutte d’un fiato.
Adesso era Koltar che cercava di rallentare il loro slancio per paura che si trovassero spossati nel momento del pericolo.
— Adagio, agnellini, — ripeteva, dando una poderosa strappata alle briglie. — Non bisogna esaurirsi tutto d’un colpo.
Verso le undici, non scorgendo alcun cavaliere, nè avendo più udito l’urlo delle coyote, il gigante arrestò la diligenza per accordare agli animali un po’ di riposo.
In lontananza si scorgeva vagamente una massa oscura che copriva un vasto tratto della prateria.
— Che cos’è? — aveva chiesto Harris.
— Un bosco, — rispose Koltar.
— Che attraverseremo?
— No, signore, che gireremo, e anche molto al largo. Se vi sono degl’indiani, è là che si terranno imboscati. E’ appunto per questo che lascio riposare i miei animali, quantunque siano così vigorosi da percorrere trenta miglia senza mai fermarsi.
— Li avete scelti con cura.
— Non se ne trovano di simili in tutta la prateria. Capirete che è necessario aver sotto mano dei trottatori instancabili, per non lasciare la capigliatura in mano alle Pelli Rosse. Devo la mia vita, e non una sola volta, alle gambe vigorose dei miei cavalli.
— E se...
— Tacete, signore, — disse vivamente Koltar, alzandosi in piedi e corrugando la fronte.
Alla sua destra aveva udito un rumore che pareva prodotto dal lontano galoppo d’un cavallo, poi un urlo, quello d’una coyota, si era fatto udire.
— Ancora, — disse il gigante. — Siamo già segnalati e scommetterei la mia pipa contro venti dollari che ci aspettano sul margine del bosco, per darci addosso.
— E noi saremo pronti a riceverli, — disse Blunt.
— Go ahead!... — gridò Koltar.
I cavalli ripartirono a corsa moderata, trattenuti dal corriere, e piegarono verso levante, per tenersi al largo della foresta.
Passarono dieci minuti, poi si udì uno dei soldati gridare:
— Eh, corriere, bada che siamo scortati.
— Da chi? — domandò vivamente il colosso.
— Dai Navajoes, suppongo.
Koltar si alzò, voltandosi indietro, ed essendo più alto della piattaforma, vide infatti dietro alla corriera alcune ombre, che seguivano i cavalli ad una distanza di cento o cento cinquanta metri.
— Sono loro, — disse.
— Gl’indiani? — chiese Harris.
— Sì, signore, e galoppano sulle nostre tracce.
— Quanti sono?
— Mi pare che non siano più di quattro, per ora.
— Che sia l’avanguardia di una grossa banda?
— Il grosso l’avremo fra poco dinanzi.
— Apriamo il fuoco? — chiese Blunt.
— No, niente spari pel momento. Finchè non ci attaccano, lasciamoli galoppare a loro piacimento. Avremo tempo più tardi di sfogarci.
Raccolse bene le briglie, impugnò la lunga frusta e cominciò a farla fischiare sulle poderose groppe dei sei mustani, gridando:
— Avanti, miei trottatori! Facciamo correre quei vermi dalla pelle rossa!...
La diligenza correva, divorando lo spazio con rapidità fantastica.
I soldati, sdraiatisi dietro ai bagagli per non offrire troppo bersaglio ai tiri degl’indiani, avevano preparate le carabine.
Anche Annie aveva sporta la sua attraverso lo sportello di destra ed aveva posate due rivoltelle presso quello di sinistra.
— Se ribaltiamo ci accopperemo tutti, — disse Blunt, che si aggrappava disperatamente al sedile per resistere alle scosse. — Aprite bene gli occhi, corriere.
— Li tengo in pugno i miei cavalli, non temete, — rispose il gigante, lanciando un rapido sguardo al di sopra dell’imperiale.
I quattro indiani che seguivano la corriera, dapprima erano rimasti indietro, poi i loro cavalli che dovevano essere pure buonissimi, a poco a poco avevano riguadagnato lo spazio perduto.
Si udivano di quando in quando le loro grida rauche. Eccitavano anche essi le cavalcature con la voce, poichè quegli intrepidi scorridori non posseggono nè frusta, nè staffe, nè speroni.
— Che cosa aspettano per darci addosso? — chiese Blunt, che tormentava il grilletto della sua carabina.
— Di essere in buon numero, — rispose Harris.
— Attenti, signori, — disse in quel momento il corriere. — Ecco il bosco. Sono là che ci aspettano.
Aveva appena pronunciate quelle parole che si udirono quattro spari e le palle sibilarono sopra l’imperiale.
Erano i quattro indiani che avevano fatto fuoco.
Quasi nello stesso momento un gruppo di cavalieri uscì dal bosco, urlando spaventosamente e sparando all’impazzata.
— Eccoli!... — gridò Koltar, sferzando rabbiosamente i mustani. — Non fate risparmio di polvere!...
I soldati della scorta risposero con una scarica, che gettò a terra alcuni cavalli.
Harris, Blunt e anche Annie avevano fatto fuoco a loro volta, tuttavia quella nutrita scarica non era stata sufficiente a trattenere i rossi guerrieri della prateria.
Fortunatamente, si erano messi in corsa troppo tardi per investire sul fianco la corriera, la quale, trascinata in una corsa furiosa ed abilmente guidata, potè sfuggire all’accerchiamento.
— Non cessate il fuoco! — aveva urlato Koltar. — Non preoccupatevi pei miei mustani!...
Gl’indiani si erano slanciati dietro la diligenza, tenendosi su due file. Erano una cinquantina per lo meno, e non tutti dovevano possedere armi da fuoco.
Alcune frecce giungevano insieme con i proiettili e si piantavamo profondamente nelle grosse valige, dietro alle quali i soldati sdraiati sul tetto della diligenza, continuavano a far fuoco.
La maggior parte delle palle andava perduta, sia pel galoppo sfregato dei mustani indiani, che imprimeva ai cavalieri dei bruschi soprassalti, impedendo loro di mirare, sia per le scosse incessanti che subiva la diligenza, non essendo la pianura perfettamente liscia, quantunque non fosse una vera rolling-prairie, ossia una prateria ondulata.
Nondimeno qualche cavallo di quando in quando cadeva, rovesciando al suolo il suo padrone che veniva tosto calpestato dagli altri, e alcune palle passavano sibilando attraverso la diligenza con pericolo di colpire Annie, la quale non cessava di sparare attraverso lo sportello. Qualche soldato era stato ferito, eppure gli spari si succedevano agli spari, mentre il corriere aizzava incessantemente i sei cavalli che correvano furiosamente, spaventati dalle urla degli indiani e dalle scariche.
Blunt e Harris cooperavano validamente alla difesa e dirigevano di preferenza i loro colpi sulle Pelli Rosse che cercavano di accostarsi agli sportelli laterali per spararvi dentro, credendo forse che vi fossero molti viaggiatori.
In piedi sulla cassa, a fianco del gigantesco corriere, mantenevano un fuoco nutrito ora con le carabine ed ora con le rivoltelle.
— Attento, Blunt!... — gridava l’ingegnere. — Badate che nessuno s’accosti allo sportello di destra!...
— No, ingegnere, li sorveglio, — rispondeva il bravo giovane, che si esponeva ai tiri con una intrepidità ammirabile.
— Ecco un altro che è ruzzolato da cavallo!...
— Non risparmiate le cartucce, amico!...
— Le spreco anzi.
— Annie!...
— Fuoco, ingegnere, — rispondeva la giovane. — Non ho paura!...
— Non esponetevi!...
— No, sono dietro i sedili!...
Poi la voce tuonante di Koltar dominava gli spari e le urla.
— Massacrate quei vermi!... Avanti, miei mustani!... In volata, agnellini miei, o vi strappo la pelle!...
Quella corsa furiosa durava da dieci minuti fra un fracasso assordante, quando Koltar lanciò una bestemmia.
— Che cosa avete, corriere? — chiese Harris, che stava ricaricando le sue rivoltelle. — Cedono i cavalli?
— Vedo altre ombre galoppare per la pianura.
— Dove?
— Sulla nostra destra.
— Altri indiani?
— Chi volete che siano?
— Allora siamo perduti, — disse Harris con voce angosciata. — Oh mia povera Annie!...
— Sparate laggiù, signore, — disse Koltar.
Harris aveva alzata la carabina e scorgendo vagamente un gruppo di cavalieri, sbucati non si sapeva da dove, che pareva volessero tagliare la via alla diligenza, si preparava a far fuoco, quando una voce vibrante si alzò fra le tenebre:
— Coraggio, signori!... Veniamo in vostro aiuto.
Koltar aveva mandato un urlo di gioia.
— Buffalo Bill!... Gl’indiani stanno freschi!...
Nel medesimo tempo otto o dieci lampi balenarono a duecento passi dalla diligenza, poi si udì la voce di prima urlare:
— Carichiamo a fondo, ragazzi!...
G’indiani, che avevano già subito perdite non indifferenti, vedendo giungere quel gruppo di cavalieri e presi di fianco da una nutrita scarica di fucileria, esitarono un momento, poi volsero i loro mustani, disperdendosi per la pianura.
— Siete voi, Bill? — gridò il corriere, vedendo uno di quei cavalieri accostarsi alla diligenza.
— Sì, Koltar, — rispose lo scorridore della prateria. — Ho con me una diecina di cow-boys che non hanno paura dei Navajoes. Tira pure innanzi, noi ti scorteremo fino al Gran Cañon se quella è la tua destinazione.
— Grazie, mastro Bill.
— Hai viaggiatori?
— Tre, fra cui una signora che si trova nell’interno della diligenza.
— Benissimo: galopperò io allo sportello, mentre i cow-boys copriranno la ritirata. Avanti!... Gl’indiani ci seguono in distanza e non ci lasceranno molto presto.
Koltar, che aveva rallentata la corsa dei cavalli, si mise a frustare, mentre i cow-boys si tenevano dietro la corriera in gruppo serrato.
— Ehi, Koltar, — disse in quell’istante uno dei soldati. — Sai che abbiamo un morto e due feriti?
— Gravi?
— No.
— Curateli alla meglio per ora; domani esamineremo le loro ferite. Su, agnellini miei, bisogna raggiungere la foresta di Bocomattu e siamo ancora assai lontani.
All’alba lo stage, coi cavalli completamente sfiniti, s’arrestava sul margine d’una boscaglia, senza aver subìto nessun altro attacco da parte degl’indiani.
Prima ancora che Harris e Blunt fossero discesi, Buffalo Bill con un volteggio da fare invidia ad un clown, balzava a terra e apriva lo sportello di destra, dicendo ad Annie che si era affacciata e lo guardava con viva curiosità:
— Miss, scendete: siete sotto la protezione degli scorridori della prateria.