< La Sovrana del Campo d'Oro
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XXI - Assediati nel «cliff».
XX XXII

CAPITOLO XXI


Assediati nel «cliff»


I cicloni che si scatenano su quella immensa pianura, che dalla imponente catena delle Montagne Rocciose si estende ininterrotta fino sulle rive del Mississipì, appena corrugata da colline e da qualche picco isolato, e poi continua anche dall’altra parte del grande fiume, giungendo fino sulle sponde dell’Atlantico, sono così formidabili che la loro violenza supera le nostre facoltà d’immaginazione.

Solo quelli che devastano, di quando in quando, le Indie orientali, possono talvolta rivaleggiare con quelli americani.

Quando i venti del Nord, che spazzano quelle pianure sconfinate, s’incontrano con i venti provenienti dall’Atlantico, senza incontrare catene di montagne che li ostacolino o li arrestino nella loro corsa, scoppiano allora uragani tremendi dovuti appunto a tali collisioni di correnti atmosferiche provenienti da opposte direzioni.

Il cielo in pochi istanti diventa nero, gettando sulle praterie una ombra sinistra, il tuono rimbomba orribilmente, i lampi s’incrociano nel cielo come lame infuocate. La pioggia dapprima scroscia violenta, poi grandina, quindi scoppia uno spaventoso frastuono e un formidabile vortice d’aria sradica gli alberi come festuche di paglia, porta via tetti e comignoli, abbatte le case dei bianchi e le tende degli indiani, arresta e rovescia i treni più pesanti e sconvolge la terra come un aratro mostruoso.

Tutti gli elementi scatenati si scagliano sugli uomini e sulle cose, poi, rapidamente come era venuta, la bufera scompare lasciando nell’aria un freddo acutissimo.

E non si creda che questi cicloni scoppino di rado. In sei anni dal 1875 al 1881, se ne contarono sulle pianure americane ben quattrocento e cinquantuno, che uccisero settecento settantasette persone, ne ferirono gravemente cinquecento quaranta, senza contare gl’indiani delle praterie; demolirono quasi mille case, e distrussero da capo a fondo una cinquantina di villaggi.

Negli otto anni successivi, i cicloni uccisero invece la cifra terribile di tremila persone.

Durante il ciclone che si rovesciò su Delphos nel Kansas, nell’agosto del 1879, alcune persone furono completamente spogliate delle loro vesti e ridotte in poltiglia nerastra.

Uno scorridore della prateria, che si era rifugiato in un fienile, fu sollevato in aria come una piuma, poi lasciato cadere presso un cavallo cui tentò invano di aggrapparsi, quindi ancora travolto: fu trovato poi svenuto con un ciuffo di crini fra le mani. Un gatto fu trasportato a ottocento metri di distanza e fu rinvenuto appiattito, come se uscisse da un laminatoio, mentre una casa costruita in pietra veniva scaraventata a cento metri dal luogo dove sorgeva.

A Grinnel invece, che fu colpita nel 1897, il ciclone scavò buche profonde molti metri; a Pomeroy, nell’Illinois, le case si urtarono come foglie sorprese da una raffica e rovinarono le une sulle altre, seppellendo gran parte degli abitanti. Invece, il ciclone che imperversò sul lago Michigan nel 1889, trasportò le barche a vela come se fossero cervi volanti e abbattè alcuni grossi navigli trascinandoli entro terra!

Ciò può bastare per farsi un’idea della tremenda violenza degli uragani che si abbattono sull’America settentrionale e anche sul golfo del Messico. Questi ultimi sono anzi più pericolosi, perchè ordinariamente sono seguiti da scosse di terremoto che sconvolgono sovente le isole Antille, producendo danni incalcolabili.

Quello che si era scatenato sul Gran Cañon e sulle praterie circostanti, non doveva essere uno dei più deboli, a giudicare dai ruggiti possenti del vento e dal fragore assordante dei tuoni, e chissà quali sconvolgimenti terribili aveva prodotto fra quel caos di rupi e di abissi spaventevoli, nel momento in cui Buck Taylor aveva gridato.

Harris, Blunt, Annie e tutti gli altri, svegliati bruscamente, prima da quel rombo che aveva scosse le pareti del cliff, poi dall’allarme dato dal colonnello, erano balzati precipitosamente in piedi, credendo che il soffitto della sala stesse per crollare.

Il fuoco era quasi spento, solo qualche tizzone finiva di consumarsi, lanciando di quando in quando uno sprazzo di luce sul pavimento e sulle pareti.

Anche i cavalli, in preda ad un vivissimo terrore, si erano levati scalpitando rumorosamente e nitrendo.

— Signor. Bill! — gridò Harris, che si teneva stretta al petto Annie, come per difenderla contro un pericolo che ancora non conosceva.

— Che cosa c’è?

— Calma, signori, — disse il colonnello che non perdeva mai, anche nelle più terribili situazioni, il suo sangue freddo. — Sembra che una scossa di terremoto abbia staccato dall’alto un pezzo di rupe e che l’uscita ci sia impedita, almeno per ora.

— Siamo prigionieri? — chiesero ad una voce Harris, Annie e Blunt.

— Sembra, vi dico.

— No, colonnello — disse in quel momento Buck Taylor, che aveva esaminata l’uscita. — La cosa è positiva e temo che da quella parte noi non rivedremo mai più la luce del giorno. È un pezzo enorme di rupe che è piombato dinanzi al cliff, e la sola dinamite potrebbe farlo saltare.

— Che esista qualche altro passaggio? — chiese Annie.

— Può darsi, miss, — rispose il colonnello. — Io ho visitate parecchie di queste dimore sotterranee che avevano più uscite. Perlustreremo questa con calma, e non dispero di trovare qualche passaggio che ci permetta di tornare all’aperto.

— Che quella rupe sia stata precipitata dalla violenza del vento? — chiese Blunt.

— Uhm! — fece Buck Taylor.

— Che cosa volete dire? — chiese Harris.

— Un momento prima che quel masso rotolasse, abbiamo udito sopra di noi delle grida umane, è vero, colonnello?

— Mi parve, — rispose Buffalo Bill.

— Che ci siano degli indiani più in alto?

— Non mi sorprenderebbe, signor Harris, che più in alto vi fosse un altro cliff-dwelling.

— E allora?

— Può darsi che sia stato un brutto tiro giuocatoci dai Lupai, che credono forse d’aver a che fare con dei Navajoes o degli Apaches, i loro secolari nemici.

— Che ci abbiano veduti entrare?

— O hanno scorta la luce del fuoco che si proiettava fuori della sala, — rispose Buffalo Bill. — Signori, pel momento non vi è nulla da fare. Riprendete il vostro sonno, e appena il sole s’alzerà esploreremo questo cliff fino in fondo.

Rassicurati dalle parole e dalla calma del colonnello e certi di non correr nessun pericolo, tutti si stesero sulle coperte, posando la testa sulle selle che servivano da guanciali.

D’altronde, anche i cavalli si erano tranquillizzati, e si erano sdraiati l’uno presso l’altro, ciò che indusse tutti a ritenere che non fosse stato il terremoto a smuovere quell’enorme masso, perchè le bestie presentono le oscillazioni del sottosuolo.

Il ciclone pareva si calmasse. Attraverso le piccole finestre entravano sempre furiose folate di vento e guizzi di luce, però i ruggiti ed i fragori della tempesta diminuivano a poco a poco d’intensità. Verso le sei, Buffalo Bill e Buck diedero la sveglia.

L’uragano era completamente cessato e una luce vivissima entrava nella sala, riflettendosi sulle pareti opposte.

— Visitiamo il masso innanzi a tutto, — disse il colonnello, dopo aver fatto distribuire a tutti un po’ di whisky. — Vediamo se vi è qualche speranza di poterlo smuovere.

Una sola occhiata li convinse subito che da quel lato non vi era nulla da tentare. La roccia che doveva pesare parecchie tonnellate, combaciava perfettamente con l’apertura e si era profondamente incastrata nel terreno.

Solo una forte mina o una grossa cartuccia di dinamite avrebbero potuto smuoverla ed i cow-boys non si sarebbero certo privati delle loro cartucce, per trovarsi poi indifesi alla mercè dei Navajoes e degli Apaches.

— Cercando, troveremo qualche altro passaggio, — disse Buffalo Bill. — È impossibile che questo cliff, che mi sembra molto vasto, non ne abbia un altro.

— Come avranno fatto gli indiani a smuovere un simile masso e farlo scivolare fin qui? — chiese Annie che non dimostrava alcuna apprensione.

— Ho osservato in parecchi cañon, dove si trovano i cliffs, certe profonde scanalature che dovevano essere state eseguite allo scopo di far piombare sui nemici dei macigni, — rispose il colonnello. — Ne ho veduti anzi molti di quei pezzi di rupe, mantenuti in equilibrio all’estremità dei solchi.

— Furbi quegl’indiani, — disse Blunt.

— Signori, cominciamo l’esplorazione.

— Senza torce? — chiese Harris.

— Non ve n’è bisogno, ingegnere. Tutte le stanze avranno delle finestre aperte sul Gran Cañon.

Si misero in marcia, passando in una seconda sala più ampia della prima, con sei piccole aperture, dalle quali i raggi del sole entravano liberamente. Negli angoli vi erano mucchi di cenere e di carbone mescolati ad ossa, talune enormi ed altre piccole, appartenenti ad animali ormai scomparsi: alla formidabile tigre dai denti in forma di sciabola, ai giganteschi orsi delle caverne, agli elefanti mostruosi e fors’anche al piccolo antenato del cavallo, misteriosamente scomparso, che non era più grosso d’un maialetto, i quali abitavano un tempo le profondità del Gran Cañon.

Ne trovarono poi una terza quindi una quarta, poi molte altre, tutte assai vaste ed ingombre di ammassi di macerie, che avevano finestre che guardavano sull’abisso, più o meno irregolari e aperte nella roccia.

Dopo una buona mezz’ora giungevano su di una specie di terrazza, chiusa da tutte le parti da rupi altissime tagliate a picco, difesa dalla parte del Gran Cañon da un muricciuolo alto un paio di metri, costruito con blocchi di roccia solidamente cementati.

Al di là non esistevano altri passaggi, nè altre stanze. Il cliff-dwelling terminava.

— Siamo prigionieri, è vero, colonnello? — chiese Harris con ansietà.

— Adagio, ingegnere, — rispose Buffalo Bill. — Noi finora abbiamo fatto un’esplorazione sommaria e nulla più. Vi può essere qualche pozzo o qualche passaggio più o meno occultato. Ritorniamo nell’ultima sala ed esaminiamola bene. Là anzi faremo colazione con gli avanzi del prosciutto dell’orso grigio. Non abbiamo nessuna fretta, signor mio. Io ho l’abitudine di non disperare mai.

Lasciarono il terrazzo e rientrarono nel cliff. Mentre Koltar, che aveva portate le provviste, preparava alla meglio la colazione, Buck Taylor, curioso come lo sono tutti i cow-boys, avendo scoperto dietro un ammasso di macerie un’apertura, vi si era audacemente cacciato dentro per esplorarla.

La sua assenza era stata appena notata quando lo si vide comparire con gli occhi leggermente sbarrati.

— Colonnello, — disse con voce leggermente alterata, — che vi siano dei fantasmi qui?

— Perchè dici questo, Buck? — chiese Buffalo Bill.

— Ho scoperto una specie di grotta circolare, illuminata da una sola finestra, nel cui centro ho scorto una figura biancastra che mi pareva si muovesse. Può essere una statua o forse un essere umano che ha cercato di spaventarmi.

— Ah Buck! Tu diventi superstizioso, ragazzo mio, — disse Buffalo Bill ridendo. — Non saresti più un cow-boy?

— Ma, colonnello...

— Bene, andiamo a vedere. Chissà che in quella sala non si trovi il passaggio che cerchiamo.

Per precauzione armò il suo fucile e scavalcò l’ammasso di macerie, seguìto da tutti gli altri.

Si trovarono in una sala, di forma perfettamente circolare, con la vòlta in forma di cupola, illuminata da una sola finestra.

Le pareti erano coperte di disegni e di iscrizioni: in mezzo, su di un piedistallo barocco, si elevava una statua d’argilla, con una testa molto grossa le braccia abbandonate sul ventre rigonfio, e le gambe incrociate.

— Una divinità adorata dagli antichi indiani? — chiese Buffalo Bill volgendosi verso l’ingegnere che guardava la statua con viva curiosità.

— O una riproduzione del Budda asiatico? — disse invece Harris. — Che sia proprio vero che gl’indiani hanno avuto dei rapporti coi cinesi in tempi antichissimi? Ecco qui una prova che certi storici non si sono ingannati..

— Questa statua somiglia al dio venerato dagli asiatici! — esclamò Annie.

— Sì, — rispose Harris. — Questa statua somiglia perfettamente a quelle che io ho già vedute in Cina pochi anni or sono.

— Ingegnere, — disse Buffalo Bill, — anch’io ho udito raccontare che gli antichi indiani hanno avuto rapporti cogli antichi cinesi, ed ho raccolto anzi strane leggende fra varie tribù di Pelli Rosse.

— Davvero, colonnello?

— Sì, gl’indiani del Texas si sono tramandati di padre in figlio, attraverso secoli e secoli, il ricordo d’un uomo straordinario, la cui pelle aveva una tinta diversa dalla loro, che indossava una lunga veste ed un manto, che insegnò ai loro avi ad astenersi dal male ed a vivere secondo giustizia, sobriamente ed in pace con tutti, e dovette poi fuggire per sfuggire alle persecuzioni lasciando l’impronta d’uno dei suoi piedi su di una roccia.

Mi hanno anzi mostrata una statua antichissima, che chiamavano Wi-shi-pecocha, che rassomigliava assai a questa1.

— Nome che probabilmente non è che una corruzione di Hui-Shen-bikschi, che in lingua mongola significa monaco, — disse Harris.

— Voi dunque credete fermamente che i cinesi, molti secoli or sono, siano approdati sulle coste americane? — chiese Annie.

— Sì, e molti scienziati sono della mia opinione; e poi le prove non mancano. Se gl’indiani ricordano degli uomini dalla tinta diversa dalla loro, i cinesi rammentano pure e anzi conservano la narrazione d’un viaggio straordinario compiuto nel 499 dell’era nostra, da un monaco buddista nativo dell’Afganistan, che si chiamava Hui-Shen, il quale riportò anzi in Cina delle fibre vegetali tratte probabilmente dall’agave, pianta affatto sconosciuta nell’estremo oriente. Le antiche tradizioni anzi affermano che, più tardi, altri cinque monaci buddisti sbarcarono in America, percorrendo il Messico e spingendosi perfino nel Yucatan, predicando la loro fede ed insegnando le arti e le scienze. Ed infatti, quando gli spagnuoli conquistarono il Messico, trovarono sorprendenti coincidenze con i particolari delle credenze e della civilizzazione asiatiche.

— Ciò è sorprendente, — disse Buffalo Bill.

— Ma vi sono ben altre prove, — disse Harris. — In Asia per esempio, Budda si chiama Gautama, anche nel paese dei Sakya, come ha nome la sua stirpe. Da che cosa può derivare il nome di Guatemala?... Da Guatama-la, significando il la, in sanscrito, «paese». Oppure da Hautamo?... Oppure da Guatemotzin che significa, in lingua indiana antica, gran sacerdote? Forse che gli asiatici del Tibet non chiamano i loro monaci lama? Ed i messicani non dànno ai loro sacerdoti il nome di tlama?

E per di più non si sono trovate, ultimamente, nella Sonora vestigia chiarissime, che ricordano le costruzioni asiatiche, immagini, tavolette scolpite, ornamenti, templi e piramidi? A Gampeaky, per esempio, fu rinvenuta recentemente una grande statua rappresentante con fedeltà un prete buddista nel suo costume, ed a Palenque un’altra statua rappresentante Budda, seduto con le gambe incrociate, su di un sedile formato da due leoni, figura comune nell’India ed in Cina; e nello stesso Palenque fu pure trovata una testa d’elefante scolpita su di un muro e tutti sanno che quel pachiderma in Asia è il simbolo usuale di Budda.

— Dunque i cinesi conoscevano l’America prima di Colombo? — disse Blunt.

— Sì, senza togliere nessun merito a quel grande ed audace navigatore, — rispose Harris. — Ma dimenticavo un’altra straordinaria scoperta, fatta recentemente nell’America centrale, e cioè che la lingua maya degli Yucatani, è per un buon terzo puramente greca.

— Greca! — esclamarono Annie e Buffalo Bill. — Vi stupite? Forse che il greco non deriva dal sanscrito? Sarebbe una prova di più della venuta, su queste terre americane, di gente asiatica.

Una detonazione, che si ripercosse nella sala vicina e che pareva venisse da lontano, interruppe bruscamente la loro conversazione.

Tutti si erano vivamente voltati, guardandosi l’un l’altro con stupore facile ad immaginarsi, credendo di essersi ingannati.

— Uno sparo? — aveva chiesto finalmente Harris.

— Non può essere stato prodotto che da una carabina, — rispose Buffalo Bill.

— Sparata dove?

— Verso l’ultima sala, dove si trovano i nostri cavalli. Signori, seguitemi subito.

Uscirono frettolosamente e attraversarono a passo di corsa tutte le altre stanze, giungendo all’ultima senza aver incontrato nessuno.

Nel medesimo istante un’altra detonazione scoppiava proprio dietro la roccia che chiudeva l’uscita, anzi un filo di fumo entrò da qualche fessura.

— Che siano indiani? — chiese Annie.

— I Lupai non hanno mai posseduto armi da fuoco, perchè non hanno mai avuto alcun contatto cogli uomini bianchi, — rispose il colonnello.

Poi, accostatosi alla roccia, gridò con voce tonante:

— Chi siete voi?

— Ah! ci udite finalmente, — rispose una voce. — Cominciavamo a perdere la pazienza. Si dorme bene dunque nei cliffs?

— Vi ho domandato chi siete, — replicò il colonnello, seccato dell’accento beffardo dello sconosciuto.

— È il mio nome che volete sapere? Mi chiamo Josè Mirim.

— Ciò non mi dice nulla e v’invito a spiegarvi meglio: vi consiglio di non permettervi di scherzare col colonnello Cody, soprannominato Buffalo Bill.

— Me l’ero immaginato che foste voi, — disse lo sconosciuto. — Parola d’onore che mi rincresce d’avervi rinchiuso cogli altri.

— Ed a me non fa nè freddo nè caldo, — rispose il colonnello stizzito. — Siete stato voi dunque a chiuderci qui dentro?

— Noi, colonnello. Oh! La cosa è stata facilissima, ve lo assicuro. Il canale per far scivolare quella roccia era già stato scavato dagli antichi abitanti delle caverne e noi non abbiamo fatto altro che...

— Finitela, buffone! — urlò Buffalo Bill, con collera. — Vi chiedo che cosa volete da noi: spiegatemi per quale motivo ci avete imprigionati.

— Per costringervi a consegnarci una signora, che ci preme avere in nostra mano.

— Chi è? — chiese Harris, balzando innanzi.

— Miss Annie Clayfert.

— Io! — gridò la giovane.

— Chi la vuole? — chiese Harris.

— Io, — rispose un’altra voce. — Simone, il Re dei Granchi.

Harris e Blunt avevano mandato un grido di rabbia:

— Il maledetto negro!

  1. Questa statua, che raffigura il Budda asiatico, si trova presso il villaggio di Magdalena.

Note

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