< La Sovrana del Campo d'Oro
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XXV - La danza del sole
XXIV XXVI

CAPITOLO XXV


La danza del sole


Una cupa disperazione aveva invasa l’anima dei disgraziati prigionieri, quando si ritrovarono nel tenebroso tempio del Grande Spirito.

Quantunque i vecchi della tribù non avessero pronunciata ancora la condanna, avevano ormai compreso che per loro era finita ed il palo della tortura, quel terribile palo che faceva fremere d'orrore i più audaci scorridori delle praterie li aspettava.

Sola Annie poteva avere la speranza di sfuggire all'atroce supplizio, per diventare una schiava o la moglie di qualcuno di quei brutali guerrieri, che trattano le loro sciagurate donne peggio dei cani delle tribù.

Su chi contare ormai? Buffalo Bill si trovava forse ancora rinchiuso nel cliff o per lo meno assai lontano; sul negro, il Re dei Granchi, non vi era da pensare perchè anche quello era un pericoloso nemico che non avrebbe risparmiato nè Harris, nè Blunt; Victoria aveva rinnegata la sua amicizia colla Capigliatura Lunga e sua figlia era sul sentiero della guerra.

– È finita – aveva detto lo scrivano, quando furono condotti dinanzi all'enorme statua e lasciati soli.

– Signor Harris prepariamoci al gran viaggio da cui non si ritorna più, e speriamo che miss Annie sopravviva. È già una consolazione.

– Meglio che m'uccidano insieme a voi, piuttosto di rimanere sola in balìa di queste belve – disse la giovane, guardando Harris cogli occhi umidi. – Perdonatemi, miei poveri amici, di avervi tratti qui, a morire per mano di questi crudeli selvaggi.

– Non abbiamo nulla da perdonarvi, mia cara Annie – disse Harris, con un mesto sorriso.

– E poi non siamo ancora morti, miss – disse Blunt. – La capigliatura mi copre ancora la testa e non adorna già lo scudo di qualcuno di quei mascalzoni.

– Non createvi delle illusioni, Blunt.

– Eppure, signor Harris, io non dispero di poter andarmene.

– Contate ancora sul colonnello?

– No, su quell'acqua che io odo sempre scorrere. Non sarò tranquillo fino a che non avrò fatta una esplorazione.

M'ingannerò, eppure io ho ferma fiducia di trovare da quella parte una via per scappare. Udiamo, signor Harris: dove finirà quell'acqua?

– Nel Colorado, suppongo.

– Dal fragore che produce credete che vi sia qualche apertura comunicante con questo tempio?

— Sì: altrimenti non si udrebbe così forte.

— Che vi sia qualche pozzo— chiese Annie.

— O qualche crepaccio, — disse Harris.

— Chissà però se il condotto è sufficientemente spazioso per permettere di tenere il capo fuori dell’acqua per poter respirare, — disse Annie.

— Ordinariamente i torrenti che scendono nel Gran Cañon hanno una potenza perforante straordinaria, — disse Harris. — Corrodono, con le loro sabbie, le rocce più dure, e si aprono dovunque la via. Può darsi quindi che anche quello che noi udiamo, pur scorrendo sotto il suolo, si sia aperto un varco tale da permetterci di respirare liberamente. Non vi nascondo tuttavia che quel passaggio può procurarci terribili sorprese.

— Signor Harris, preferisco morire affogato, piuttosto che subire un atroce martirio. M’immagino che quei cani d’indiani non ci accopperanno di colpo con una mazzata sul cranio.

— Ce la faranno anzi sospirare la morte, mio povero amico.

— Allora aspettiamo che i selvaggi s’addormentino, per tentare l’esplorazione.

— O meglio che siano ubriachi: ho udito l’Orso Valente dire che al tramonto gl’indiani celebreranno la prima festa del sole.

— Danzando?

— Sì, Blunt. Non li avete veduti piantare dei pali, in mezzo alla piazza?

— Mi parve. E durerà molto?

— Tre o quattro giorni e finirà col nostro supplizio.

— Se saremo ancora qui. Ah! Miss Annie, sapete nuotare?

— Come tutte le fanciulle delle frontiere, signor Blunt. Ho attraversato parecchie volte il Colorado.

— Anch’io sono un buon nuotatore, miss.

— Tacete, — disse in quel momento Harris.

Verso la piazza si udiva un rullare sordo, accompagnato dai fischi acuti degli ikkischoti di guerra.

Quasi nel medesimo istante, la stuoia che serviva di porta fu alzata e Victoria comparve, accompagnato dai suoi portatori di torce.

— Ecco il giaguaro che viene a guatare la preda, — disse Blunt.

Il sakem s’avanzò verso i prigionieri, dicendo:

— Gli uomini pallidi mi seguano perchè io mostri loro la bravura dei nostri danzatori ed il coraggio dei nostri guerrieri.

— C’invitate a ballare, signor capo rosso? — chiese Blunt. — Procuratemi almeno una brava e bella ballerina.

— I guerrieri rossi non danzano coi visi pallidi, — rispose Victoria, guardando in cagnesco lo scrivano.

— Da noi invece si lasciano ballare anche le negre. A proposito, che cos’hanno deciso a nostro riguardo i saggi della tribù? Di metterci allo spiedo forse, o di lasciarci andare pei nostri affari?

— Lo saprai fra qualche giorno. La gran danza non terminerà oggi.

— Sarei più lieto di saperlo ora, — disse Blunt, col suo accento canzonatorio.

— Domani, — rispose bruscamente l’indiano. — Seguitemi! Così assisterete alla prova dei giovani guerrieri e vi formerete una idea del coraggio degli uomini rossi.

Furono condotti o, meglio, spinti brutalmente fuori, e collocati in un angolo della spaziosa piazza, dove si trovavano radunati i vecchi della tribù. Una folla enorme gremiva i dintorni, formata per la maggior parte di guerrieri venuti forse da altri campi, che indossavano i loro pittoreschi costumi di guerra.

Intorno al gran calli della medicina erano stati piantati parecchi pali, che reggevano i totem della tribù, e gli scudi dei più famosi guerrieri e i sacchetti di pelle, contenenti stravaganti amuleti e misteriose medicine.

Un guerriero che indossava un superbo costume, girava per la piazza annunciando ad alta voce i nomi dei giovani che avrebbero subito la prova, per essere ammessi fra il numero degli uomini atti alla guerra, provocando grida ed applausi da parte del pubblico.

— Che cosa fanno dunque? — chiese Blunt ad Harris.

— Le prove della danza del sole e quella dei futuri guerrieri.

— Dei futuri guerrieri! Spiegatevi meglio.

— Per essere nominato guerriero, il giovane indiano deve mostrarsi noncurante del dolore e subire un vero martirio, senza manifestare alcun segno di debolezza. Vedete quella tenda?

— Che ha dinanzi a sè il cranio d’un bisonte inghirlandata d’erbe?

— Sì: i giovani sono chiusi là dentro.

— Che cosa faranno subire a quei poveri diavoli?

— Lo vedrete, e vi assicuro che per guadagnarsi il titolo di guerrieri, si faranno tagliare a pezzi senza mandare un lamento.

— Sono d’acciaio questi uomini?

— Hanno una forza d’animo straordinaria. Ecco la prima fase della festa che comincia.

Mentre i fischietti di guerra lanciavano le loro acutissime e stridenti note ed alcuni uomini percuotevano vigorosamente vasi di terracotta, il cui orificio era coperto da una pelle di lupo, venti guerrieri, scelti fra i più famosi della tribù, erano usciti dal gran calli della medicina, preceduti dallo stregone il quale indossava una pelle d’orso grigio, che lo nascondeva quasi interamente.

I danzatori avevano il petto nudo: alla cintura portavano degli scialli scarlatti, adorni di nastri, e sul capo ciuffi d’erba e corna di bisonte.

Sul petto avevano dipinto, in azzurro ed in nero, il simbolo del sole ed ai polsi portavano gli emblemi delle loro famiglie.

I venti guerrieri, preceduti sempre dallo stregone, fecero il giro della vasta piazza, al suono dei fischietti di guerra e dei tamburi di terra cotta, poi rivolsero il viso al sole che stava per tramontare e cominciarono la danza in onore dell’astro, che per loro rappresenta il Grande Spirito.

Una danza veramente non era. I guerrieri non facevano altro che saltare disordinatamente e piroettare su se stessi, urlando come belve feroci, e agitando le loro terribili scuri di guerra. Talvolta s’interrompevano per fingere dei combattimenti corpo a corpo, poi riprendevano i loro salti ed i loro giri.

Pareva che gli spettatori non prestassero attenzione alcuna: gl’indiani amano mostrarsi indifferenti a tutto dinanzi ai visi pallidi. Seduti o sdraiati per terra, bevevano enormi fiaschi d’acqua del diavolo acquistati dai trafficanti della prateria o presi in un saccheggio, e mangiavano pezzi di cane bollito, che le loro donne portavano entro sudici recipienti di latta, che un tempo avevano contenuto del petrolio.

— Un gusto di più; — aveva detto Blunt, ridendo.

Intanto, in un angolo della piazza, lo stregone bucava gli orecchi ai fanciulli, cerimonia che conferiva loro i diritti civili nella tribù, e che i padri pagavano, regalando ciascuno un giovane cavallo all’operatore.

La danza continuò per un paio d’ore, sempre furibonda, fino a che ogni barlume di luce fu scomparso, poi i ballerini, completamente sfiniti, furono trascinati presso il gran calli della medicina, dove fecero loro masticare della salvia selvatica, per facilitare la salivazione.

Quasi subito i falò, già preparati, furono accesi sulla piazza, e da una tenda uscirono i futuri guerrieri, tutti giovani di sedici o diciott’anni, dipinti orribilmente e quasi nudi.

S’avanzarono in fila indiana, fino all’arca del primo uomo, gridando ognuno il loro nome.

Vi era Plenty Hole (il buco grandissimo); White Calf (il vitello bianco); The dog (il cane); Hollow Horn (il corno vuoto); Two-eagle (l’aquila doppia); Poor Dog (il povero cane) ed altri ancora che portavano nomi non meno stravaganti.

Si voltarono poscia verso i quattro punti cardinali e recitarono la preghiera d’occasione:

«Grande Spirito, noi siamo venuti per festeggiare il giorno che tu ci hai dato. Noi ci teniamo in piedi per dare a te la nostra carne.

«Abbi cura delle nostre donne, dei nostri padri e dei nostri amici e aiutaci a sopportare la prova».

Poi si collocarono dinanzi alle antenne, guardando impavidi lo stregone, che ad un cenno di Victoria aveva impugnato un sottile coltello.

Il Buco Grandissimo, che era il più anziano, fu violentemente gettato a terra, poi lo stregone gli praticò due incisioni sopra le mammelle ed introdusse in quei fori due pezzi di legno a cui erano attaccate delle coregge.

Il futuro guerriero, che aveva sopportato quel martirio senza che gli sfuggisse un lamento, fu sospeso alla prima antenna.

— Quanta forza d’animo! — esclamò Blunt, che guardava il misero giovane penzolante dalla corda e tutto imbrattato di sangue.

— E notate che prima di subire simili prove, i giovani guerrieri devono sopportare un digiuno di quindici o venti ore, — disse Harris.

Lo stregone intanto s’era precipitato su un altro giovale, su Poor Dog; gli forò una spalla introducendo nel buco un corda, quindi anche quel disgraziato fu issato in aria. Poi, uno alla volta, gli altri furono trattati con non minor crudeltà, senza che alcuno desse segno di soffrire.

Per dar prova del loro coraggio e anche per non prolungare le loro sofferenze, i giovani guerrieri si dimenavano furiosamente per strappare le carni: nessuna mano, infatti, doveva toglierli di là.

Dopo cinque o sei minuti alcuni caddero finalmente al suolo, perchè i muscoli del petto si erano lacerati sotto il loro peso; Poor Dog (il povero cane) fu il più disgraziato di tutti, poichè fu l’ultimo a cadere. Forse lo stregone aveva tagliato troppo profondamente, e, nonostante gli sgambettamenti e lo contorsioni del martire, la carne non aveva ceduto che dopo un quarto d’ora.

Eppure durante quell’atroce supplizio, neppur un lamento era uscito dalla bocca del giovane, che fu ricompensato da una lode di Victoria.

— Tu sarai un giorno un famoso guerriero, — gli disse il gran sakem, quando lo vide a terra.

Il supplizio non era ancora finito. I futuri guerrieri dovevano dimostrare che, quantunque avessero i muscoli lacerati, avevano ancora i garetti solidi per prendere parte anche essi alla danza del sole.

Ed infatti, appena trangugiata una sorsata d’acqua del diavolo, recata loro dalle madri, essi si misero in bocca un fischietto, e cominciarono una danza furiosa al suono dei vasi di terra, girando intorno all’arca del primo uomo.

Quei miseri offrivano uno spettacolo ributtante. Grondanti sangue e sudore, coi fischietti convulsivamente stretti fra le labbra inaridite, gli occhi schizzanti dalle orbite, le lunghe capigliature svolazzanti, continuavano a saltare come indemoniati, dando prova di una resistenza incredibile.

Alcuni guerrieri, per sciogliere un voto, si erano uniti a loro, e, per non mostrarsi da meno di quei giovani, si erano tagliati dalle braccia e dalle gambe pezzi di carne, che gettarono nel barile sfondato quale offerta al Grande Spirito.

Persino le donne, pensando forse che i loro mariti o fratelli non avessero fatta sufficiente penitenza, si strappavano con le unghie lembi di pelle e di carne, ululando come dannate.

— Sono ripugnanti, — disse Annie.

— Io dico che sono pazzi, — disse Blunt. — Vogliono dunque morire quegli imbecilli?

— Si guadagnano duramente il loro titolo di guerrieri, — rispose Harris.

— Non si reggono più.

— Devono ballare finchè rimane loro un atomo di forza. Diversamente, perderebbero per sempre il loro posto fra i guerrieri, e verrebbero messi nel rango delle donne, disprezzati anche da queste.

— Vorrei andarmene, — disse Annie. — Ne ho abbastanza di questa festa.

— Ed io vorrei essere a venti leghe da qui, — disse Blunt.

— Chiederò a Victoria il permesso di ritirarci, — rispose Harris. — E poi, fra poco tutti questi indiani cominceranno l’orgia notturna, e non tarderanno ad essere ubriachi.

Il gran sakem stava seduto a breve distanza, su di una testa di bisonte, circondato dai suoi sotto-capi, fra i quali si trovava l’Orso Valente. L’ingegnere gli si avvicinò risolutamente, dicendogli:

— La figlia della Capigliatura Lunga è stanca e desidera ritirarsi nel tempio.

Victoria lo guardò con una certa sorpresa, aggrottando la fronte.

— Mi hai udito? — chiese Harris, non ricevendo risposta.

— Sì, e mi stupisco come tu, viso pallido e mio prigioniero, osi comandare a me, gran sakem degli uomini rossi.

— Quella che ti domanda di ritirarsi è la figlia della Capigliatura Lunga, che fu tuo amico un giorno, — rispose l’ingegnere con voce grave.

— Ti ho detto che non ho mai avuto amici fra i volti pallidi, che furono invece sempre miei odiati avversarii.

— Nel nostro paese i grandi guerrieri non mentono mai, nè rinnegano le amicizie d’un tempo.

L’indiano fece un gesto d’impazienza, visibilmente contrariato da quelle parole, che suonavano come un aspro rimprovero.

— E poi, — continuò Harris, — sarà più sicura nel tempio che qui. I tuoi guerrieri stanno bevendo l’acqua del diavolo, e possono lasciarsi trasportare a qualche atto temerario.

Il sakem fece un cenno alla sua scorta, dicendo:

— Riconducete i prigionieri nel tempio, e che dieci guerrieri veglino dinanzi alla porta.

— Grazie, sakem, — rispose Harris.

Victoria si volse da un’altra parte, senza degnarsi di rispondere.

La scorta circondò i tre prigionieri, fece attraversare loro la piazza, quasi a passo di corsa, poi li introdusse nell’immensa piramide, che era tuttora illuminata dà un fioco lumicino.

— Non perdiamo tempo, — disse Blunt, quando furono soli. — Se non riusciamo a fuggire prima dell’alba, dubito assai che possiamo rivedere il tramonto di domani.

— Pensate sempre a quel torrente? — chiese Harris.

— Sì.

— Dovremo slegarci, prima.

— I miei denti sono acuti come quelli di un lupo. Miss Annie, voltatevi e accostate i vostri polsi alla mia bocca. L’affare non sarà lungo, ve l’assicuro.

La giovane fu pronta a obbedire.

Lo scrivano che ci vedeva abbastanza, quantunque la fiammella fosse debolissima, si mise a rodere febbrilmente le corregge che stringevano i polsi della fanciulla. Doveva avere una dentatura degna di un giaguaro, perchè bastarono pochi minuti per far cadere i legami.

— Potrete slegare ora i nostri? — chiese Blunt.

— Lo spero, — rispose Annie.

— Il signor Harris prima, — disse il bravo giovane.

— No, voi Blunt, — rispose l’ingegnere.

— Non perdiamo tempo in vane gare di generosità, signori. A voi prima.

Annie si mise all’opera. Non era cosa facile slegare quelle coreggie, perchè gl’indiani fanno dei nodi molto complicati e diversi dai nostri, tuttavia, dopo un quarto d’ora di sforzi, che le spezzarono le unghie, riuscì finalmente a rendere liberi i suoi due compagni.

— Affrettiamoci, — disse Blunt, — ma prima assicuriamoci se corriamo pericolo di venire sorpresi.

Si diresse silenziosamente verso l’uscita, mentre Harris, salito sull’alto piedestallo della enorme statua, toglieva la lampada di pietra sospesa a tre metri dal suolo.

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