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CAPITOLO I.
Il carcame d’una balena.
Nella huaneras di porto Stokes il lavoro ferveva febbrile, senza un momento di tregua, fra un urlìo incessante dei sorveglianti e le imprecazioni rauche dei minatori, i quali si sentivano soffocare dalle pestifere esalazioni del guano e dal polverone che si levava, in nubi foltissime, sopra gli strati puzzolenti, depositati da secoli e secoli dagli uccelli marini.
Il luglio era già cominciato da qualche giorno e si era annunciato freddissimo e anche tempestoso, scatenando frequenti uragani e sollevando le poderose onde dell’oceano Pacifico.
Tutte le numerosissime isole che fiancheggiano l’estremo lembo dell’America meridionale e la vicina terra del Fuoco s’erano già coperte di neve e anche le coste dello Stretto di Magellano cominciavano a diventare impraticabili per le violentissime risacche prodotte dai venti impetuosi che regnano in quelle desolate regioni.
Nell’America meridionale il luglio corrisponde al gennaio, sicchè quando nel nostro emisfero settentrionale noi bruciamo dal caldo, laggiù invece si gela dal freddo.
Era quindi giunto il momento di abbandonare la huaneras di porto Stokes, di dare un addio all’isola della Desolazione che stava per diventare un deserto di neve e di ritirarsi a Punta Arenas o nei porti cileni del Pacifico.
Non restava da far altro che completare il carico dell’ultima nave la quale rullava disperatamente fra le onde del porto, e che era frettolosa di andarsene, prima che qualche formidabile uragano la scaraventasse contro la costa o la trascinasse verso le scogliere pericolosissime e selvaggie delle Undicimila Vergini.
Il lavoro delle huaneras, così nelle isole Chindia, che sono le più ricche e che danno annualmente non meno di quattrocentomila tonnellate di guano, con immensi vantaggi del governo peruviano, come in quelle ultimamente scoperte sulle isole dello Stretto di Magellano o della Terra del Fuoco di proprietà del governo cileno, è ben più faticoso che quello delle miniere di carbone fossile. Solamente gli uomini robustissimi ed i coolies chinesi possono resistere al polverone giallastro e salino che li investe da tutte le parti accecandoli e agli orribili odori che si sprigionano da quegli ammassi di vecchie deiezioni. Un uomo debole od un novizio non potrebbe durare due ore senza correre il pericolo di morire asfissiato.
Quei depositi, formati da escrementi di uccelli marini, dai piqueros, dai sarcillos, dai guaiotas, dagli alcatraus, che sono specie di bruttissimi marangoni, che in quelle isole si contano a milioni e milioni, raggiungono spesso delle altezze considerevoli che toccano talvolta anche i trenta metri.
Sono disposti a strati orizzontali, molto spessi, ora ondulati ed ora bizzarramente contorti, specialmente verso la cima; oscuri in basso, dove si trova l’huano pardo o guano antico, grigiastri nel mezzo e rossastri in alto, trovandosi qui l’huano blanco ossia il guano depositato di recente.
Essi sono composti non solamente di sterco d’uccelli, bensì anche da uova e da rimasugli di pesci, essendo gli uccelli da guano dei formidabili pescatori, come sono pure dei formidabili mangiatori. E sono talmente ricchi di fosfati di calce e di ammoniaca, da triplicare le produzioni delle piantagioni delle Antille, del Perù, della Bolivia e di tutte le regioni del mondo.
Sebbene scoperte di recente, le huaneras di porto Stokes avevano già subito un taglio enorme nei loro strati; già una ventina di navi, destinate per l’Australia e pei porti dell’Africa del Sud avevano esportato migliaia e migliaia di tonnellate di quel prezioso intruglio, eppure le miniere erano ancora tanto ricche da poterne caricare tre volte tante.
Come però abbiamo detto, la cattiva stagione era sopraggiunta, colle sue tempeste e coi suoi uragani di neve; quindi i minatori che già da parecchi giorni soffrivano assai sotto le loro misere capanne improvvisate lungo la spiaggia, lavoravano alacremente per completare il carico dell’ultima nave.
Erano un centinaio d’uomini, raccolti in tutti i porti del Chilì e del Perù; per la maggior parte choles, razza robusta derivata dall’incrocio del sangue spagnuolo coll’indiano, di statura piuttosto bassa, colla carnagione bruna e giallastra, coi capelli neri e lisci, la barba rada e gli occhi piccoli e vivissimi che hanno dei lampi selvaggi.
Sono però tipi briganteschi e poco attraenti, coi lineamenti disfatti dalle dure fatiche di quelle fetide miniere, colla pelle rôsa dai sali ammoniacali e le palpebre cinte di pustole, tutti cenciosi e coperti di polvere che i loro ampii cappelli di paglia di Guayaquil ed i loro sombreri di panno dalle tese gigantesche, non riescono a riparare.
Si arrampicavano sugli strati, zappando poderosamente, sternutando e tossendo incessantemente, staccando lunghi pezzi che altri uomini s’affrettavano a deporre nei sacchi e poi imbarcare su certe galere chiamate balsas, per trasbordarli poscia sulla piccola nave che ondulava in mezzo al porto.
Di momento in momento delle detonazioni rimbombavano ed immensi squarci s’aprivano fra gli strati, mandando in aria nuvoloni di polvere che acciecavano tutti per parecchi minuti, sprigionando fetori tali da far fuggire perfino i sorveglianti.
Erano mine che scoppiavano per disgregare l’huano pardo, che opponeva una incredibile resistenza anche ai picconi, per quanto robustamente maneggiati.
Di tratto in tratto degli uomini cadevano semi asfissiati e venivano portati al basso, dove con una tazza di chicha — specie di birra fatta con maiz fermentato — si rimettevano ben presto in gambe per riprendere il duro lavoro e subire qualche ora dopo un’egual sorte.
I sorveglianti, una mezza dozzina, tutti di razza bianca, e armati di quei corti fucili a bocca larga, chiamati trabucos, per prevenire qualsiasi tentativo di ribellione da parte dei minatori, li aizzavano con minaccie e con imprecazioni senza fine.
Avevano fretta di finire quella vitaccia da cani che durava da sette mesi e di tornarsene alle loro case situate nello stretto, a Punta Arenas; quella vitaccia non meno dura di quella dei lavoranti, quantunque non costretti a maneggiare i pesanti picconi, nè ad esporsi agli scoppi delle mine che frequentemente riuscivano fatali.
— Sbrigatevi, — diceva un giovane aiutante, bruno come un meticcio, cogli occhi neri e vellutati e che masticava con visibile soddisfazione alcune foglie di coca mescolate ad un pizzico di carbonato di potassa. — Il tempo torna a diventare minaccioso e la Pillan vuole levare l’âncora prima di sera.
— Vi sarà doppia distribuzione di caña, è vero, Pardoe?
— E chicha in abbondanza, — rispose un vecchio sorvegliante dal viso rugoso e la barba quasi bianca, che si teneva stretto indosso il poncho dai colori brillanti, per ripararsi dai soffi freddissimi che venivano dalle alte montagne della Terra del Fuoco.
— Finiremo, Pardoe?
— Dobbiamo terminare, — rispose il vecchio.
— Hai anche tu fretta di tornartene a casa?
— È un bel po’ che non vedo Mariquita.
— La figlia di don Lopez? Quella bella fanciulla che chiamano la Stella dell’Araucania?
— Voglio assistere al suo matrimonio, mio caro José. L’ho fatta danzare sulle mie ginocchia e mi chiama papà Pardoe; come vorresti che io mancassi alla festa?
— È tornato Alonzo?
— Deve essere approdato a Punta Arenas e con un bel carico di certo. Un bravo baleniere, quel giovane! Non v’è l’eguale in tutte le coste del Pacifico e anche dell’Atlantico.
— E Piotre? — chiese il giovane sorvegliante. — Che colpo per lui!
— Si rassegnerà a perdere Mariquita. Doveva arrivare prima di Alonzo!
— Hum! Non so se rimarrà tranquillo. Quell’uomo può essere pericoloso.
— Lo è stato un tempo. Io so che già per due volte ha cercato di abbordare la barca di suo cugino Alonzo, approfittando della nebbia, e so pure che una volta ha tentato di tagliarla in due con un buon colpo di sperone.
— Dicerie, forse.
— No, — disse il vecchio sorvegliante. — La notte in cui Piotre tentò di spaccare in due la barca, ero io al timone ed ho evitato la speronata per puro miracolo.
— Vi eri tu! — esclamò il giovane.
— Sì, José. Ero mastro d’equipaggio a bordo della Rosita.
— Era una notte nebbiosa?
— Non ci si vedeva a venti passi.
— E come hai potuto evitare l’urto della Quiqua?
— Con un colpo di timone dato appena a tempo, — rispose Pardoe. — Se avessi tardato due soli secondi, la Rosita veniva spaccata a metà, e penso che in quel momento eravamo lì attraverso il Capo Horn e che il mare ci spingeva violentemente verso quella formidabile scogliera.
— Allora Piotre non si rassegnerà, — disse José, il quale era diventato assai pensieroso. — Mi rincrescerebbe per Mariquita, che gode tanta simpatia a Punta Arenas.
— Veglieremo su di lui, amico, — disse il vecchio. — Non sono più giovane, è vero; ma le braccia sono ancora solide e tengo sempre la navaja nella mia cintura.
— Dove si trova ora Piotre?
— È un anno, ossia da quando Mariquita gli ha rifiutato la mano, che si è ritirato al Porto della Fame.
— È tornato dalla pesca? — chiese José.
— Sì, deve essere ritornato da qualche mese, — rispose il vecchio. — Mi hanno detto d’aver scorto la Quiqua ben carica, imboccare il canale di Mesier.
— Vorrei già essere a Punta Arenas.
— Questa sera c’imbarcheremo, José. Prima del tramonto la Pillan avrà completato il carico e noi saremo finalmente liberi.
Ho già dato ordine di preparare la nostra scialuppa. —
Alcuni tocchi di campana interruppero la loro conversazione. Era il segnale del riposo, breve ma assolutamente necessario, per non sfinire completamente quei disgraziati che si asfissiavano in mezzo al polverone ed alle esalazioni ammoniacali sprigionantisi dagli squarci aperti negli strati di guano. I minatori, pallidi, disfatti, cogli occhi gonfi e le palpebre rosse, avevano gettati i picconi, lasciandosi scivolare giù da quei cumuli, e si radunavano a gruppi sulla spiaggia, attorno a dei fuochi che facevano bollire pentole e caldaie di rame di mostruose dimensioni e dove, sotto la cenere calda, si cuocevano enormi formales, specie di focaccie di farina di mais, condite con grasso, che nel Chilì e nel Perù surrogano bene o male il pane.
Le scodelle circolavano e si vuotavano con prodigiosa rapidità, senza che le enormi caldaie accennassero ad esaurirsi. Quei minatori, dotati d’uno stomaco eccezionalmente robusto, assaporavano appena, tanta era la loro fame la chupe de chiche, mistura composta d’insetti acquatici assai buoni; o la puchero, miscuglio composto di carne, di salsiccia, di tuberi di banani, di radici con abbastanza pepe rosso, una vera olla podrida; o la quinua atamalada, piatto formato con un seme assai usato dagli indigeni.
Ma sopratutto vuotavano i fiaschi di chicha e di guinapo, birra migliore della prima, ottenuta colla fermentazione del guinapo, dopo che questo è stato fatto masticare per bene.... da vecchie sdentate!...
I primi saziati facevano subito posto agli altri, sdraiandosi sulla sabbia della spiaggia a godersi un po’ di sole ed a masticare un boccone di coca sapientemente preparata.
Questa coca, che nel Perù e nel Chilì tiene luogo del tabacco e di cui si fa un uso smodato al pari del tabacco da parte degli europei, è un miscuglio composto di foglie verdi, prodotte da un arbusto detto matu chancha dagl’indigeni, che cresce nelle valli ben riparate delle Ande, d’un pizzico di carbonato di potassa, ricavato dallo stelo della quinua, e di calce, il tutto impastato con un po’ d’acqua.
Per prepararsela masticano prima alcune foglie formando una pallottola, poi la impastano colla calce e col carbonato, quindi se la cacciano in un angolo della bocca impiegando il maggior tempo possibile per mangiarla, onde prolungare quella specie d’estasi che produce e che può anche calmare la fame per un tempo abbastanza lungo.
Il pasto stava per finire, quando dall’alto d’una rupe che scendeva a piombo sulla baia, si udì improvvisamente una voce a gridare:
— Laggiù!... Una balena!... All’isola Grofton!... —
Tutti si erano alzati, lasciando le scodelle e anche i fiaschi. Un uomo, ritto sulla cima della rupe, si sbracciava accennando al largo e gridando sempre: — Una balena!... Una balena!... —
Quantunque quei giganteschi cetacei siano anche oggidì non rari nei dintorni della Terra del Fuoco e si mostrino spesso anche sulle spiaggie meridionali del Chilì, pure quel grido aveva prodotto un certo effetto fra i minatori.
Pardoe sopratutto, vecchio baleniere, si era subito slanciato verso la rupe, seguito da José, mentre altri accorrevano verso la spiaggia per avvertire i marinai della nave.
— Ehi, vecchio Morales! — gridò Pardoe, salendo faticosamente la rupe. — Non sarà questo un cattivo scherzo, suppongo!... Non ho più le mie gambe di vent’anni!
— No, accorrete, è una vera balena! — gridò il minatore. — Sta girando quella punta e le onde la spingono da questa parte.
— La spingono!... Nuota, vuoi dire.
— No, Pardoe; mi sembra morta.
— Vi sarà qualche nave dietro.
— No, è sola.
— Carraco!... Vediamo! —
Il vecchio baleniere, con un ultimo sforzo ed aiutato anche da José, era riuscito a raggiungere la cima dello scoglio il quale, essendo altissimo, dominava un vasto tratto d’oceano e anche la punta settentrionale che chiudeva il porto di Stokes.
— Dov’è questa balena? — chiese.
— Laggiù, non la vedete? — rispose il minatore, tendendo un braccio verso l’occidente. — Guardate, passa in questo momento al largo della punta e pare voglia andarsene verso Grofton.
— Che sia invece la carcassa d’una nave?
— Ho gli occhi ancora buoni, quantunque bruciati dalla polvere. È una vera balena, e morta; vedo che ha due ramponi confitti nei fianchi.
L’ho veduta nel momento in cui un’onda la rialzava e sono sicuro di non essermi ingannato. —
Il vecchio baleniere si spinse fino sull’orlo estremo della rupe e lanciò un rapido sguardo sull’oceano, che al largo era percorso da grosse ondate spumeggianti, le quali correvano ad infrangersi, con mille muggiti, contro le coste dell’isola della Desolazione.
— Non hai preso abbaglio, tu? — chiese.
— No, Pardoe, — rispose l’interrogato. — Sono dieci minuti che io la osservavo.
— Dove si trova, ora?
— Dietro quella scogliera.
— E tu hai veduto due lance?
— Sì, ve lo giuro.
— Non occorre che tu giuri, — disse il vecchio. — Tu hai sempre avuto buoni occhi, Morales, e sei stato marinaio al pari di me. Se si tratta veramente d’una balena morta, noi ce ne impossesseremo e tutti i minatori avranno la loro parte.
— La vedete ora? Ecco che riappare dietro quella punta rocciosa. —
Il vecchio si mise una mano dinanzi agli occhi, per ripararsi dai raggi solari che proiettavano dei bagliori acciecanti e guardò a lungo.
— Sì, — disse, dopo alcuni istanti. — Tu non ti sei ingannato. È una fortuna che sta per giungere a noi, che ci roviniamo la vita fra queste huaneras.
— Guardate la sua testa enorme.
— La vedo benissimo.
— E le due lance?
— Sì, sono due. Chi può averla ramponata e poi abbandonata? Una nave baleniera non l’avrebbe lasciata andare a meno che....
— Che cosa volete dire?
— Non sia naufragata prima di raggiungerla, — rispose il vecchio.
— Che sia stata uccisa da Alonzo? — chiese José. — Tu mi hai detto che non sei certo che sia tornato colla sua nave a Punta Arenas.
— Zitto, — disse il vecchio, che aveva provato una rapida commozione. — Se fosse stata uccisa da lui e non si scorgesse la sua nave.... avrei paura di una disgrazia.
— Forse è già a Punta Arenas e fa i preparativi del matrimonio, — disse José. — Oh! Guarda! Non vedi?...
— Sì, che la corrente ed il vento spingono la balena verso di noi, e che si tratta d’un cetaceo enorme, mio caro.
— Guarda meglio, — disse. — Fra le gibbosità del dorso vedo due forme che si direbbe rassomiglino....
— Per la mia anima! — esclamò il vecchio baleniere, impallidendo. — A due uomini, vuoi dire?
— Sì, Pardoe.
— È vero, — disse il minatore Morales.
— E che pare non diano segno di vita, — aggiunse il baleniere.
— Sì, Pardoe, a meno che non dormano.
— È impossibile, José, — rispose il vecchio, la cui emozione aumentava. — Due uomini non oserebbero dormire, specialmente così vicini alle coste. Devono essere morti o moribondi.
— Pardoe, facciamo levare l’âncora alla Pillan e andiamo ad abbordare quella balena, — disse José. — Forse noi giungeremo in tempo per salvarli.
— La Pillan ha ancora da inferire le vele ai pennoni e perderemmo troppo tempo. Abbiamo la nostra scialuppa e fra questi minatori i bravi marinai non mancano.
Vieni, José, andiamo ad accostare quel cetaceo. —
Mentre stavano scendendo, i minatori delle huaneras, quasi avessero indovinato le loro intenzioni, avevano spinto in acqua una grossa scialuppa che era stata fino allora in secco sulla spiaggia, per metterla al riparo dalle forti ondate dell’oceano.
— Ragazzi! — gridò il vecchio Pardoe. — Chi vuole seguirmi? —
Venti o trenta uomini, quasi tutti marinai o vecchi pescatori, si erano fatti innanzi.
— Bastano otto, — disse Pardoe. — Salgano i più robusti, gli altri non perderanno nulla nell’attesa, perchè la balena apparterrà a tutti. —
Otto robusti garzoni balzarono come un solo uomo nella scialuppa, afferrando prontamente i remi.
Il vecchio baleniere sì mise alla barra del timone, mentre José prendeva posto sull’ultimo banco, chiedendo:
— Dobbiamo alzare l’albero e spiegare la vela?
— È inutile, — rispose il vecchio. — La raggiungeremo egualmente, prima che le onde la respingano al largo. —
La scialuppa si staccò dalla riva, passando a poppa della nave e fra le balsas che tornavano scariche, quindi si diresse rapidamente verso la punta settentrionale, lottando vigorosamente contro le onde.
L’oceano era cattivissimo, quantunque non tempestoso. In quelle regioni d’altronde è un caso raro trovarlo calmo nella vicinanza delle coste, in causa dei poderosi colpi di vento, chiamati dai balenieri williwans, che soffiano dalle aspre e profonde gole della vicina Terra del Fuoco e anche dall’isola della Desolazione. Quelle raffiche impetuose, che non cessano quasi mai durante la stagione invernale, si ripercuotono contro le montagne e contro le numerosissime isole che circondano quelle terre e abbattendosi poscia sull’oceano, sollevano dei cavalloni che mettono quasi sempre in grave apprensione i naviganti.
La scialuppa montata da Pardoe e dai suoi compagni era a prova di scoglio, coi bordi assai alti, con lunga chiglia e d’una stazzatura non comune, avendo una portata di nove tonnellate. Per di più gli uomini che la montavano erano stati tutti marinai e conoscevano i pericoli che presentano quei paraggi.
Abilmente guidata dal vecchio mastro, uscì dal porto, sormontando leggermente le onde, le quali si accavallavano con furore e andavano ad infrangersi con terribili muggiti contro le spiaggie sollevandosi in sprazzi colossali.
La balena non era lontana che mezzo chilometro dalla punta settentrionale del porto Stokes e spinta dal vento e trascinata fors’anche da qualche corrente marina, s’avanzava lentamente verso il mezzodì, ora sprofondando pesantemente nelle voragini dei marosi ed ora risalendo le creste spumeggianti, con un largo dondolìo.
Era una di quelle balene chiamate, dai pescatori, a due pinne, specie piuttosto rara, e che s’incontrano solamente nei mari antartici; e una delle più grosse, avendo una lunghezza di almeno diciotto metri.
Somigliano alle altre, tuttavia la loro pelle, invece di essere nerastra, è grigio-verdastra, hanno poi il muso largo e ottuso, la mascella inferiore più sporgente della superiore, invece di una sola pinna dorsale, due bene sviluppate, diritte, di forma triangolare, perfettamente separate, e gli occhi, quantunque più piccoli, assai più intelligenti e vivaci.
Sul dorso di quell’enorme cetaceo, un po’ verso la prima pinna, eran confitti due ramponi ai quali si vedevano ancora appese delle lenze e che avevano prodotto due squarci considerevoli, dai quali doveva essere uscito il sangue in gran copia, vedendosene raggrumato lungo tutto il fianco, fino al livello d’immersione.
Più sopra invece, fra le gibbosità delle due pinne, si vedevano due esseri umani aggomitolati l’un presso l’altro e che pareva non dessero più segno di vita.
Sopra di loro moltissimi uccelli marini, dei marangoni neri e dei lestri antartici, che hanno artigli come gli uccelli rapaci e dei gaviotas, svolazzavano in gran numero, senza dimostrare paura alcuna, ora innalzandosi ed ora abbassandosi per strappare dal corpo del cetaceo qualche pezzo di lardo.
— Quei disgraziati devono essere morti e anche da lungo tempo, — disse il vecchio baleniere a José.
— Lo sospetto anch’io, — rispose questi con voce triste. Da dove verranno quei miseri e a quale nave avranno appartenuto? Riusciremo noi a saperlo?
— Forse chissà che non troviamo su di loro qualche documento.
— Che questa balena sia morta da molte settimane?
— Di certo, — rispose il vecchio. — Ha il dorso quasi privo della pelle e vedo dei lembi di lardo pendere dai suoi fianchi.
Gli uccelli marini e anche i pesci cani devono essersene nutriti abbondantemente e tu sai che, nè gli uni nè gli altri osano avvicinare questi cetacei se non dopo che sono morti e anche da qualche tempo.
— Non ci sarà sui manichi dei ramponi il nome della nave a cui appartenevano? — chiese José.
— No, lo troveremo invece sulle doghe.
— Che cosa sono queste doghe?
— Tavolette di sughero attaccate all’estremità delle lenze, su cui sono impresse, col ferro rovente, le cifre della nave e talvolta anche le iniziali del capitano. Ciò si usa onde nessuna altra nave s’impadronisca d’una balena uccisa da altro equipaggio ed in ciò, devo dirlo a loro onore, i balenieri sono leali.
— Sicchè noi sapremo almeno a quale nave appartenevano quei due marinai?
— Sì, se le lenze non si sono spezzate.
— E perchè quei due uomini si sono rifugiati sul dorso della balena? Ecco una cosa che non so spiegarmi, Pardoe, — disse José.
— Io suppongo che la balena abbia sfondata la scialuppa che le dava caccia e che quei marinai, probabilmente i soli superstiti, si sieno aggrappati in tempo alle lenze.
— E la loro nave perchè non è andata in loro soccorso?
— Mio caro José, — disse il vecchio, — quando le balene vengono ferite, fuggono e non vi è nessuna nave, per quanto rapida, che possa tenere loro dietro.
Forse quella a cui apparteneva la scialuppa sta ora cercandola e non sarei sorpreso di vederla comparire da un momento all’altro, a menochè....
— Prosegui, Pardoe, — disse il giovane.
— Non sia stata affondata da un colpo di testa del cetaceo. Di questi casi ne sono avvenuti. Ohè, ragazzi, forza ai remi. Giriamo il Capo e l’oceano è assai mosso. — — Parla, papà Pardoe! — gridò Mariquita, scuotendolo. (Cap. IV).