< La Stella dell'Araucania
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Capitolo XIV - Lo stregone
Capitolo XIII Capitolo XV

CAPITOLO XIV.

Lo stregone.

Per cinque giorni la Quiqua continuò a scendere verso il Sud, esplorando le coste di quella terra selvaggia, affrontando l’impeto delle onde, le quali non avevano cessato di assalirla con estrema violenza montando perfino a bordo.

In tutto quel tempo il cielo si era mantenuto costantemente coperto di minacciosi nuvoloni, senza che mai un raggio di sole si fosse mostrato.

Si direbbe che quei tristi paraggi non siano affatto amati dall’astro diurno o che le nebbie, gelose, non gli permettano di spingere la sua luce dorata fino su quelle spiaggie maledette, condannate a non ricevere che colpi di vento, rovesci d’acqua e nevicate abbondantissime per sette mesi dell’anno.

La costa si era mostrata sempre deserta ed aspra. Sempre rupi immense che cadevano a picco sul mare, rendendo impossibile l’approdo; più oltre, verso l’interno, montagne e montagne, coperte di vapori. Di rado qualche fiume, il quale però sboccava nell’oceano con tanta furia da non acconsentire alle scialuppe di rimontarlo e la cui corrente formava presso le spiaggie dei gorghi pericolosissimi, battagliando aspramente colle acque del mare.

Nessuna traccia di naufragio era stata scorta su quel tratto di spiaggia, tratto relativamente breve, perchè la nave baleniera, contrariata dai venti e malmenata dai marosi, non aveva potuto avanzare verso il sud che per duecento miglia e dopo lunghe e faticose manovre che avevano affaticato molto l’intero equipaggio.

Durante quei cinque giorni Piotre aveva abbandonato di rado la coperta, contentandosi di brevi riposi. Aveva esplorato attentamente la costa, accostando la nave, quando scorgeva qualche apertura nella parete granitica, sufficiente a lasciar passare una baleniera; ma tutte le mattine e tutte le sere, a Mariquita che lo interrogava timidamente, aveva sempre date le medesime risposte.

— Ancora nulla: sarà più al sud. —

La mattina del sesto giorno, dopo una notte cattivissima, che aveva molto affaticato l’equipaggio pei furiosi colpi di vento che avevano sorpresa più volte la Quiqua, minacciando di sbatterla contro quelle temute coste, essi giungevano dinanzi alla baia di S. Sebastiano, dove contavano di fare una breve fermata per mettersi in relazione cogli indigeni, se ne avessero trovati.

Quella baia, una delle pochissime che si trovano sulla costa orientale della Terra del Fuoco, si apre quasi ad un terzo di distanza fra il capo dell’Espirito Santo, che segna l’entrata dello stretto di Magellano, e quello di Maire che separa la suddetta terra dall’isola degli Stati.

È molto aperta, male riparata dalle onde dell’Atlantico, tuttavia vi si può trovare qualche ancoraggio, e poi in quel luogo la spiaggia è accessibile, non essendo tagliata a picco.

— Sperate di trovare dei selvaggi? — aveva chiesto il signor Lopez al baleniere, il quale terminava di dare gli ordini opportuni per entrare nella baia.

— Tutte le volte che mi sono recato qui a rinnovare le mie provviste d’acqua e di legna, ne ho trovati sempre, — aveva risposto Piotre.

— Come ci accoglieranno?

— Certo con molta diffidenza.

— Avremo da temere da parte loro?

— Le tribù che occupano quella baia sono bellicose e anche crudeli, signor Lopez. Sono indi Una, i giganti della razza fuegiana, che per statura non la cedono ai patagoni, se pure non li superano, cosa assai strana, perchè voi sapete che tutti gli altri abitanti dell’isola sono invece assai piccoli.

— Sì, generalmente arrivano appena a un metro e mezzo.

— Mentre invece io ho veduto degli Una alti un metro e novantatre.

— Derivati probabilmente da un incrocio di patagoni e di fuegini, — rispose il signor Lopez.

— Eppure le due razze, quantunque separate da uno stretto che in certi luoghi si può attraversare con poche bracciate, non hanno rapporti, — disse Piotre. — Io, per esempio, non ho mai veduto un fuegino sulle coste patagoni; come non ho mai scoperto un patagone su quelle della Terra del Fuoco.

— Questo è vero, Piotre. Oggidì le due razze cercano di evitarsi, come se provassero un invincibile disgusto a trovarsi vicine; nondimeno un tempo devono aver avuto frequenti rapporti, anzi sembra che abbiano appartenuto ad una medesima famiglia.

— E perchè quella differenza di statura? I patagoni, giganteschi, robustissimi, con petti ampii, forme erculee, e questi fuegini, eccettuati gli Ona, piccoli, bruttissimi, magri, più neri di pelle e rachitici.

— Questione di clima e di alimentazione, signor Piotre. Il patagone vive nell’abbondanza, avendo cavalli in quantità, guanachi in gran numero, struzzi, vischache ecc., tende comode che lo riparano dai freddi e dai venti, vesti che lo difendono dai rigori dell’inverno; il fuegino invece trema di freddo otto mesi dell’anno e soffre la fame tutti i dodici.

Questa è una razza in decadenza che va perdendo l’antica robustezza e anche l’antica civiltà, perchè non vi è dubbio che anche i fuegini discendano dal potente impero degli Incas, avendo una lingua ricchissima al pari di quella dei peruviani, che ha più di 30.000 vocaboli, mentre i popoli primitivi, veramente selvaggi, l’hanno sempre avuta poverissima.

Ah! avevate ragione, Piotre, di dirmi che qui troveremo dei selvaggi. Non vedete sulla costa, in mezzo a quei gruppi di faggi antartici, alzarsi delle colonne di fumo?

— E vedo anche dei punti neri staccarsi dalla costa, — rispose il baleniere.

Devono essere canotti che pescano o che cercano di venirci incontro.

Andiamo a cercare un ancoraggio; poi vedremo d’interrogare quegl’indigeni.

— Conoscete la loro lingua?

— Abbastanza per farmi intendere e anche papà Pardoe ne sa qualche cosa. —

La baleniera, dopo aver girato un capo assai roccioso che spingeva la sua cima granitica a trecento metri di altezza, e dopo aver evitata una scogliera contro cui le onde dell’Atlantico si rompevano con fracasso assordante, facendo spumeggiare le acque per parecchie miglia intorno, si era inoltrata nella baia.

Colà, dietro le scogliere che la proteggevano dalla furia dell’oceano, regnava una certa calma. L’ondulazione non era più violenta ed i cavalloni, infranti da quegli ostacoli, si spiegavano tranquilli, rumoreggiando verso la costa.

Quantunque tutto intorno vi fossero aspre montagne, coperte già da un folto strato di neve, alla loro base si scorgeva una rigogliosa vegetazione, ancora verdeggiante, la quale si spingeva fino alla riva che era coperta dovunque da cozze, piante fitte, attaccate ad una specie di bisso, pendenti sul mare, che sono eccellenti cotte e si possono mangiare anche crude.

Più in alto si vedevano gruppi di alberetti somiglianti un po’ alle palme di berberis e al nostro bosso ed il cui legno, anche raccolto verde, brucia rapidamente; ed anche gruppi di mirti somiglianti ai corbezzoli.

Poi la linea degli imponenti faggi antartici, coi loro tronchi enormi che sbalzavano trenta e anche quaranta metri, stendendo in tutte le direzioni i loro robusti rami carichi di ammassi di foglie verdi cupe.

Anche nella baia la vegetazione era fitta.

Tutto il fondo era cosparso di quelle lunghissime alghe chiamate Kelp, che misurano talvolta perfino duecento e anche trecento metri di lunghezza, vere praterie marine, dove sfilavano a battaglioni i sebaste dalle scagliette coralline, le belle nothothenie dalle grosse squame dorate e dove riposavano placidamente le enormi patelle magellaniche che forniscono ai fuegini un cibo appetitoso e abbondante e delle cui coppe eleganti, che hanno un diametro considerevole, si servono come di bicchieri.

La Quiqua aveva appena gettata l’âncora, quando fu avvertito un canotto il quale si dirigeva con notevole rapidità verso di essa.

Era abbastanza ben fatto, per essere stato costruito da selvaggi privi di arnesi taglienti, e forniti soltanto di meschini coltelli formati da una conchiglia legata ad un pezzo di legno, essendo a loro sconosciuto l’uso del ferro.

I fuegini, cosa curiosissima, invece di scavare i loro canotti nel tronco d’un albero, come fanno tutti i selvaggi dell’oceano Pacifico e anche dell’Africa, adoperano, al pari delle pelli-rosse del Canadà e dei Grandi Laghi dell’America inglese, la scorza d’una specie di betulla che staccano tutta intera con molta abilità e che mantengono aperta mediante alcune tavole. Alle due estremità aggiungono due punte di legno, che non mancano talvolta d’una certa eleganza e turano poi accuratamente le fessure con dell’argilla mescolata ad una sostanza viscida che è assolutamente insolubile.

Si servono di corte pagaie per remare e nel centro portano sempre dei grossi ciottoli su uno strato di terra per tenervi acceso il fuoco, avendo sempre bisogno di riscaldarsi con quel clima tanto freddo.

Con quelle barchette percorrono i fiumi, i canali interni e anche le baie; non osano invece arrischiarsi al largo, sapendo bene che non potrebbero resistere agli urti di quel mare sempre irrequieto.

Anche quando vogliono portarsi da un luogo all’altro, sia pure costiero, piuttosto di affrontare le onde preferiscono smontare i loro canotti e poi ricostruirli ed incatramarli di nuovo.

Il canotto che s’avanzava verso la Quiqua era montato da quattro indigeni di statura altissima e d’una bruttezza assolutamente spaventosa. Avevano la pelle oscura, color della corteccia delle castagne, la fronte bassa e stretta, gli zigomi assai sporgenti, gli occhi piccoli, mentre la bocca era larghissima con labbra assai carnose, il naso lungo, colle narici aperte, e la capigliatura lunga, ruvida, incolta e grondante d’olio di foca. Quantunque di statura così elevata avevano le spalle incurvate, il petto poco ampio e che mostrava le costole e le membra magrissime, che facevano l’effetto di bastoni coperti di cuoio.

Sebbene il vento fosse freddissimo e la neve altissima sulle montagne, quei disgraziati non avevano per vesti che una misera pelle di guanaco gettata sulle spalle e che non li riparava al di sotto della cintura, e sul dinanzi un pezzo di pelle di pinguino.

Eppure quei miserabili, che dovevano tremare di freddo per la maggior parte dell’anno, mostravano degli istinti di civetteria! Ed infatti avevano i corpi striati di righe nere su fondo bianco, colori ottenuti con una decozione di carbone o l’infusione di conchiglie calcinate e ridotte in polvere, ed ai polsi portavano braccialetti formati con denti di pesce e sul petto collane di ossicini, probabilmente falangi di dita umane.

— Sono orribili! — esclamò Mariquita, che li osservava con una viva curiosità. — Non credevo che fossero così brutti.

— E quelli sono i più bei rappresentanti della razza fuegina, — disse il signor Lopez. — Se tu vedessi gli Yacana od i Pekerai che troveremo più al sud, ti spaventeresti.

— E come sono sporchi! Devono puzzare come le bestie selvagge.

— Come le volpi, — disse papà Pardoe. — Se saliranno a bordo ci appesteranno. Eppure guardate come sono ben pelati! Non si scorge la menoma peluria, nè sui loro volti, nè sui loro corpi. Qui i barbieri non farebbero fortuna.

— Hanno l’abitudine di strapparseli, è vero, papà Pardoe? — chiese il signor Lopez.

— Sì, e quel che è peggio si è che non possono vedere nemmeno gli altri barbuti. Si ricorda che un povero missionario, che era sbarcato su quest’isola per predicare la fede di Cristo e che per sua disgrazia era ben fornito di barba, fu preso e pelato vivo.

— Con quanto suo piacere, si può immaginare, — disse il signor Lopez.

— E fortunato lui che non l’abbiano mangiato.

— Li hai mai veduti mangiare carne cruda?

— Sì signore, una volta, al capo di S. Diego. C’era stata battaglia tra due tribù nemiche ed i vincitori impadronitisi dei nemici rimasti morti sul campo li divorarono sotto i miei occhi.

— Allo spiedo?

— Crudi, signore, però non divorano interamente i loro nemici. Gli uomini mangiano le gambe, le donne le braccia ed il petto, il resto lo gettano via. Eccoli qui quei galantuomini! Sentite che puzzo di volpe vecchia che tramandano! —

Il canotto era giunto presso la nave, fermandosi ad una quindicina di passi.

I quattro selvaggi erano tutti armati di fiocine colla punta d’osso e sulle traverse della scialuppa si vedevano delle clave, dei pugnali, colla punta di pelle e degli archi lunghi sessanta o settanta centimetri, colle corde formate di tendini d’animali e con freccie di mezzo metro, dalle punte di ossidiana, abbastanza acute per produrre delle ferite anche mortali. Vedendo che i balenieri non avevano armi in mano, deposero le loro fiocine e si accostarono alla scala che Piotre aveva fatto abbassare.

— Volete farli salire? — chiese Mariquita.

— Uno solo, — rispose il baleniere. — Questi selvaggi sono traditori come lo erano i maori della Nuova Zelanda, vent’anni or sono.

— Volete interrogarli sul naufragio della Rosita?

— Forse potrebbero sapere qualche cosa. Papà Pardoe, senza che se ne accorgano, fate portare alcuni tromboni in coperta. —

Si accostò alla cima della scala e fece segno ai selvaggi di accostare il canotto.

Quando furono presso la nave, si rivolse al più alto dei quattro, che era anche il più anziano e che indossava un mantello di pelle di guanaco più ampio degli altri, e scambiò con lui alcune parole.

Era un invito a salire a bordo con promessa d’una larga distribuzione di viveri. Il fuegino parve dapprima poco disposto ad obbedire, poi, dopo un breve consiglio coi compagni, si decise a salire la scala, portando con sè la sua fiocina.

Puzzava come una vera volpe e tramandava anche un orribile fetore d’olio di pesce rancido, avendo l’abitudine quegli isolani di ungersi, forse perchè credono di sentire meno, così unti, i morsi del freddissimo vento del sud.

Quell’uomo non era un vero guerriero, bensì un jacmusa, specie di medico e di stregone ad un tempo, carica poco apprezzata da quei selvaggi, i quali anzi sovente li maltrattano quando non riescono a placare i furori di Yacy-ena, una specie di spirito malvagio che si raffigurano nero e grandissimo e che ha la facoltà di scatenare i venti e le tempeste. Piotre lo fece sedere su una cassa e gli fece portare un cesto contenente del lardo, della carne salata e dei biscotti avariati, mentre papà Pardoe gettava altri viveri agli uomini rimasti nella scialuppa.

Lo stregone che forse mai si era trovato dinanzi a tanta abbondanza, e che doveva aver sofferto dei lunghi digiuni, a giudicarlo dalla magrezza spaventosa del suo corpo, si era gettato sulla cesta coll’avidità d’una belva feroce, divorando affannosamente. La sua bocca era già piena da scoppiare, ma egli si sforzava ancora a cacciarvi dentro pezzi di lardo e di carne, come se avesse avuto paura di non avere tempo sufficiente per finir tutto.

Bastarono dieci minuti per far sparire ogni cosa, sei o sette chilogrammi di commestibili. Il suo ventre era diventato così gonfio che pareva un otre pronto a scoppiare.

— Un australiano non avrebbe fatto di più, — disse il signor Lopez. — Che stomaco! E scommetterei che questo diavolo d’uomo sarebbe capace di ricominciare! —

Piotre intanto, dopo una breve assenza, era tornato in coperta, tenendo in mano parecchie fila di perle azzurre e rosse che fece vedere allo stregone. Questi aveva subito fatto un gesto come per afferrarle; il baleniere si era tirato invece sollecitamente indietro, dicendogli in lingua Ona:

— Sì, queste saranno tue, se risponderai alle mie domande.

— L’uomo bianco può interrogarmi, — rispose lo stregone. — Ti avverto prima che non mi lascierò ingannare e che gli Ona non hanno paura degli stranieri. Che cosa vuoi?

— Da dove viene la tua tribù?

— Dalle regioni del Sud.

— Da quanto tempo siete giunti qui?

— Prima che Yaue-ana facesse cadere sulle montagne la polvere bianca.

— Cioè prima dell’inverno, — disse papà Pardoe che conosceva la lingua e che traduceva a Mariquita ed al signor Lopez le risposte del selvaggio.

— Hai udito raccontare che un canotto grosso come questo e che aveva pure al pari di questo le ali, si sia perduto sulle coste meridionali? — chiese Piotre.

Lo stregone stette un momento silenzioso, guardando la nave da prora a poppa, poi disse:

— Sì, era come questo canotto, un po’ più piccolo.

— Dove si è spezzato? — chiese Piotre, corrugando la fronte.

— Lontano di qui, molto, dalla parte di dove vengono i ghiacci.

— È stato spinto verso terra dalla tempesta?

— Sì, sì, da onde gigantesche.

— La nave d’Alonzo!— esclamò Mariquita, con uno scoppio di gioia immensa, dopo udita la traduzione di papà Pardoe, — oh! padre mio! —

Piotre si era voltato verso la giovane col viso oscuro ed i denti stretti. Un lampo cupo balenava nei suoi occhi.

La guardò per alcuni istanti in silenzio, quasi ferocemente, pallido, fremente. Quel grido di gioia gli era sceso nel cuore, come un colpo di coltello.

— Tacete, — le disse brutalmente, frenando a malapena un gesto minaccioso. — Volete mettere in sospetto questo selvaggio? D’altronde, — aggiunse poi con un accento ironico, — non sappiamo ancora se quella nave apparteneva al vostro Alonzo Gutierres. —

Mariquita era rimasta muta e confusa. Nell’esplosione improvvisa di gioia si era dimenticata per un momento che il naufrago per lei era perduto e che ella ormai non poteva appartenere che a Piotre.

— Avete ragione, — disse a mezza voce, soffocando un singhiozzo che le saliva alla gola. — Non sappiamo ancora se si tratta del signor Gutierres. —

Papà Pardoe aveva guardato José e poi il signor Lopez, crollando ripetutamente la testa e tirando un sospirone. Aveva cominciato a capire che qualche cosa doveva essere accaduto nella casa di Piotre, la sera dell’abboccamento che aveva preceduto la partenza della Quiqua e che qualche patto gravissimo doveva essere stato concluso fra la giovane ed il baleniere. Il signor Lopez invece, tutto occupato a guardare il selvaggio il cui tipo lo interessava assai, non pareva che si fosse accorto di nulla.

— Che cosa è accaduto di quel grande canotto? — aveva continuato Piotre, dopo qualche minuto, rivolgendosi allo stregone.

— Si è arenato in mezzo alle scogliere e così solidamente da non poter essere più rimesso a galla. Pesava tanto che due tribù non sarebbero state capaci di strapparlo da quelle rocce.

— Quanti uomini lo montavano? —

Il selvaggio si guardò le dita, poi i piedi, poi i marinai che lo circondavano, quindi scosse la testa, come se non fosse capace di fare il conto, troppo difficile di certo pel suo cervello.

— Non so, molti.

— Sono stati mangiati?

— Perchè vuoi che noi mangiamo gli uomini bianchi? — rispose, mostrandosi quasi offeso.

— Forse che non divorate più i naufraghi? — chiese Piotre, ironicamente.

— Sono troppo amari e troppo salati, — rispose candidamente lo stregone. — Preferiamo la carne dei nostri che somiglia più a quella dei pesci.

— Già, perchè è impregnata d’olio di foca e puzza di più, — disse papà Pardoe, ridendo.

— Allora sono ancora vivi, — disse Piotre.

Il selvaggio guardò il baleniere con una cert’aria imbarazzata, quindi rispose:

— Non lo so.....

— Non li hai più veduti tu?

— Io no; vi è nella nostra tribù un uomo che potrebbe dirtelo, avendo assistito al naufragio di quel grosso canotto.

— Come! — esclamò Piotre, stupito. — Non l’hai veduto tu rompersi sulla spiaggia?

— Io no.

— E come hai potuto dirmi che quel canotto era un po’ più piccolo del mio se non l’hai veduto? Tu cerchi d’ingannarmi.

— M’immagino che dovesse essere più piccolo del tuo.

— Allora tu non eri presente?

— Io cacciavo i leoni marini su un’altra costa, alla foce d’un fiume.

— Sicchè non hai incontrato quegli uomini?

— Mai.

— E non hai veduto il grosso canotto nemmeno dopo che si era spezzato?

— No, no, — rispose il selvaggio: con una certa vivacità.

Piotre guardò papà Pardoe.

— Che cosa ne dite di queste risposte confuse? — gli disse. — Che quest’uomo non abbia assistito al naufragio di quella nave, che potrebbe essere la Rosita, o che cerchi d’ingannarci per carpirmi le perle? Prima dice d’aver veduto la baleniera e afferma che vi erano molti uomini a bordo, poi di non aver assistito all’arenamento.

— Uhm! Fidatevi di queste canaglie, signor Piotre, — rispose il vecchio. — Tuttavia io credo che qualche cosa di vero ci possa essere in questa storia.

Lasciate fare a me.

Sacmusa, — disse, volgendosi verso il selvaggio, — avresti per caso la lingua doppia come quel brutto Yacu-ena che scatena le bufere? Tu non parli chiaro, amico mio come quel buon Yerry-Yupor1. L’hai veduta quella nave, sì o no? Se non ti spieghi meglio, invece delle perle ti scaricheremo in mezzo al ventre una di quelle armi che tuonano e lanceremo anche a fondo la tua barca.

— Io non l’ho mai veduto, — rispose lo stregone, senza mostrare alcun timore per quella minaccia.

— Chi è che ti ha raccontato quella storia?

— Un cacciatore di guanachi.

— Dove si trova?

— Presso la mia tribù.

— Egli ha assistito al naufragio del grosso canotto?

— Sì.

— Dunque saprà anche che cosa è accaduto agli uomini che lo montavano.

— Certo.

— Puoi condurlo qui quel cacciatore?

— Ha paura degli uomini bianchi e non verrà.

— Perchè ha paura?

— Io non lo so.

— Forse che ha mangiato anche lui un pezzo di quei naufraghi?

— Fakà mangia solamente la carne dei guanachi e dei pesci.

— Dove potremo vederlo?

— Stamani stava pescando laggiù all’estremità della baia coi suoi cani, e vi sarà ancora.

— Vuoi condurci da lui? Se parla gli regaleremo un monile di perle ed un coltello e tu avrai pure altri regali.

— Non ho alcuna difficoltà a condurvi da lui, ma non prendete con voi di quelle armi che lanciano il fuoco, altrimenti fuggirà.

— Quell’uomo deve avere la coscienza ben nera, — disse papà Pardoe a Piotre. — Noi non saremo però così sciocchi da sbarcare senza armi fra questi traditori: che cosa intendete di fare?

— Di andarlo a cercare, — rispose il baleniere. — Ho la convinzione che quel cacciatore sappia molte cose intorno al naufragio di quella nave.

— Credete che si tratti veramente della Rosita? — chiese il signor Lopez.

— Ne ho il sospetto.

— Non c’ingannerà questo selvaggio per attirarci in qualche agguato? Ha troppa premura di farci scendere a terra senz’armi.

— Lasceremo qui i nostri fucili, ed i nostri tromboni, ma ci armeremo di pistole, armi che questi selvaggi non conoscono e che a noi serviranno egualmente, — rispose il baleniere. — Ne ho parecchie nella mia cabina.

— Siete deciso di scendere a terra?

— Sì, signor Lopez.

— Voglio venire anch’io, — disse Mariquita. — Non rifiutatemi questo favore, Piotre.

— Potreste esporvi a qualche grave pericolo, — rispose il baleniere. — Di questi uomini non ci si può fidare perchè sono traditori e cattivi.

— Con voi non avrò paura, Piotre. —

Il baleniere la guardò sorridendo, lieto forse che quella giovane apprezzasse la sua forza ed il suo coraggio e si sentisse completamente sicura a fianco di lui.

— Se ciò può farvi piacere, venite pure, Mariquita, — disse. — Credo che non oseranno tentare nulla contro di noi, colla nave che è così vicina. —

Quindi, volgendosi verso i suoi uomini, disse:

— Calate il gran canotto con sei marinai. Venite anche voi, papà Pardoe?

— Sono ai vostri ordini.

— A voi, signor Lopez, affido il comando della nave durante la nostra assenza. In caso di pericolo, sapete che cosa avrete da fare meglio d’ogni altro, avendo passato buona parte della vostra esistenza battagliando contro i pampas ed i patagoni.

— Contate su di me, Piotre, — rispose il vecchio esploratore. — Vegliate su Mariquita.

— Non temete, signore. Io non ho paura dei fuegini. —

Due minuti dopo il gran canotto veniva calato in mare dal tribordo e vi prendevano posto Piotre, Mariquita, papà Pardoe e cinque marinai scelti fra i più robusti ed i più abili.

Prima d’imbarcarsi tutti avevano nascoste sotto le fascie di lana, un paio di pistole ed un coltello da caccia, non esclusa Mariquita, che era stata ben addestrata nel maneggio delle armi dal vecchio esploratore.

Lo stregone, dopo un po’ di esitanza, aveva accettato di salire sulla scialuppa, gridando ai compagni di precederlo verso il luogo ove doveva trovarsi il cacciatore di guanachi.

Il selvaggio però non si mostrava troppo tranquillo di trovarsi fra gli uomini bianchi, li guardava con una certa diffidenza anzi con un vivo timore, quantunque fosse convinto che erano disarmati.

Di quando in quando s’alzava per vedere se i suoi compagni si tenevano sempre a breve distanza e borbottava delle parole incomprensibili.

— Deve aver indosso la tremarella, — disse papà Pardoe a Mariquita. — Ha paura di venire fatto prigioniero o che noi vendichiamo su di lui le bricconate che deve aver commesso e non devono essere poche di certo. Chissà quanti naufraghi ha divorato questo brutto antropofago.

— Che i marinai della Rosita siano stati massacrati? — chiese la giovane, con un brivido. — Se anche Alonzo fosse stato ucciso? Dio mio!

— Forse il signor Gutierres no, signora, — rispose il vecchio. — Questi selvaggi, tutte le volte che hanno sorpresa una spedizione di uomini bianchi, ne hanno sempre risparmiato uno, il capo.

— E perchè?

— Non ve lo saprei dire, ma la cosa è esatta ed è stata osservata da molti.

— Sicchè tu credi....? — chiese Mariquita con ansietà.

— Che se anche l’equipaggio della Rosita fosse stato massacrato, il signor Alonzo, nella sua qualità di comandante, sarebbe stato risparmiato. D’altronde, se questo stregone non ha mentito, fra poco sapremo qualche cosa sulla sorte toccata a quei disgraziati, purchè non si tratti di qualche altra nave, ciò che non sarebbe impossibile. —


  1. Lo spirito benigno dei fuegini.

Note

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