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Publio Papinio Stazio - La Tebaide (92)
Traduzione dal latino di Cornelio Bentivoglio d'Aragona (1729)
Libro primo
La Tebaide Libro secondo

LA DISCORDIA


 
L’armi fraterne e con profani sdegni
l’empia Tebe contesa e ’l regno alterno,
furor sacro a cantare il sen m’accende.
Ma qual daremo, o Dee, principio al canto?
5Canterem forse la feroce Gente?
Forse i ratti sidonii, o d’Agenorre
la dura legge, o per lo mar profondo
canteremo di Cadmo i lunghi errori?
Ma da troppo remota ed alta fonte
10origin prenderebbe il nostro canto,
se ridicesse del cultor che sparse
il guerrier seme negl’infami solchi,
onde poi nacque fratricida messe
d’uomini armati; o se ridir volesse
15Tebe di sette porte e d’ampie mura
ornata al suon de l’anfionia cetra;
o l’ira di Giunone e l’ingannata
Semele accesa dal celeste foco
del suo divino non creduto amante;
20o d’Atamante il reo furor, che scempio
feo di Learco, onde ne’ flutti amari
Ino fuggì con Melicerta in braccio.
  I vari casi e le tue gesta, o Cadmo,
restin per or da parte; e sol di Edippo
25l’infame casa e mal concorde al nostro
canto porga il principio e porga il fine.
La cetra accordo, e già le aonie schiere
e lo scettro fatale a i due Tiranni
a cantar prendo: e de l’immonde Erinni
30gli odii immortali: e la discorde fiamma
de i due Fratelli e ’l biforcuto rogo:
e i Regi estinti agli avoltoi lasciati
in preda: e le città di popol vuote;
allor che Dirce di color sanguigno
35tinse l’onde cerulee, e stupì Teti,
e orror la prese nel veder l’Ismeno
correre al mar di tante stragi onusto,
non più contento di sue anguste sponde.
Ma qual fra tanti eroi, Musa, primiero
40a me presenti? Forse il gran Tideo
d’implacabile sdegno? Forse il Vate
di sacra fronda il crin canuto cinto,
e l’immensa vorago ove fu assorto?
Ma dove lascio Ippomedonte, solo
45del fiume irato contro l’onde ultrici?
Dove il giovin d’Arcadia a guerra esposto
per lui funesta? E Capaneo ben degno
di più guerriera e più feroce tromba?
  Edippo già sè di sua man punendo
50gli occhi svelti dal capo, e condannata
la sua vergogna ad una eterna notte,
moría vivendo d’una lunga morte.
Ei nei più ascosi, e al sole stesso ignoti,
cupi recessi de l’infame ostello
55chiuso volgea ne l’agitata mente
l’orrendo incesto e ’l miserabil giorno;
e co i flagelli del rimorso al fianco
gli eran le Furie; onde mostrando al cielo
le vuote cave de la cieca fronte,
60perpetua pena a l’infelice vita,
e con le man sanguigne il suol battendo,
l’orribil voce in cotai detti ei sciolse:
  - O crudi numi de l’eterna notte,
che i neri abissi e l’alme scelerate
65co’ supplicii reggete; e voi, stagnanti
laghi di Stige, che senz’occhi ancora
io veggo pure; e tu da me sovente,
Tesifone, invocata, a i fieri detti
porgi l’orecchio e il voto reo seconda.
70Se teco meritai, se di te degno
sono; se ne l’uscir dal matern’alvo
mi raccogliesti; se l’infermo piede
mi risanasti; se al bicorne giogo
ed a l’onda Cirrea mi fosti scorta;
75(quantunque meglio io mi vivea contento
di Focide nel trivio e ne la rocca
di Polibo da me creduto padre);
se per te sola con quest’empia mano
lo sconosciuto vecchio padre uccisi,
80e spiegai de la Sfinge i sensi oscuri;
se dolci furie nel materno letto
per te gustai e più nefande notti,
e a te i miei figli generai; se gli occhi
svelsi di fronte e a l’infelice madre
85gittai d’avanti: or le mie preci ascolta,
e accorda a me quel che per te faresti.
Gli empi miei figli (e che rileva il modo?)
ch’io generai, non che del padre afflitto,
de l’alma luce privo e del suo regno,
90pietà li prenda o cura, e il suo dolore
temprin co i detti: essi già Re nel nostro
trono sedendo dispettosi a scherno
han le tenebre nostre, ed hanno a sdegno
le paterne querele. A questi ancora
95io sono in odio? E pur sel vede Giove?
E pur lo soffre? Ma se a lui non cale,
fanne tu almeno aspra vendetta, e passi
anche a i figli de i figli il rio flagello.
Cingi la chioma de l’infausto serto,
100che di putrido sangue ancora intriso,
rapito un tempo fu da la mia mano;
ed istigata da’ paterni voti
va’ tra gli empii fratelli: il ferro ostile
tronchi del sangue i sacri nodi; e sia
105tal l’eccesso che ordisci, o dea d’Averno,
ch’io sospiri d’aver lume che il vegga.
Vieni tu quale a te conviensi, e pronti
per ogni via ti seguiran gl’iniqui,
nè potrai dubitar che sien miei figli.-
110 Alzò la testa a quel parlare, e il voto
gradì l’orrida Erinne. Ella sedea
sul nero margo di Cocito, e agli angui
del crin lambir lasciava il flutto immondo.
Non sì veloce il fulmine di Giove
115scende, o vapor ne l’aria acceso, come
lasciò le infauste ripe. A lei davante
fuggono i neri spirti, e l’ombre vane
de la tiranna lor temon l’aspetto.
Essa pel folto innumerabil vulgo
120de l’anime dolenti il passo affretta,
e le tartaree porte a l’uscir chiuse
passa veloce, ed esce all’aria pura.
Sentilla il giorno, e si coprì d’orrore;
Febo celò fra dense nubi il volto;
125Eto e Piroo fur per tornare addietro;
tremonne Atlante, ed il celeste incarco
fu per cader, e ne temero i numi.
Da l’ima valle di Mallea l’Erinne
alzossi a volo, e vêr l’iniqua Tebe
130diritto il cammin prese: a lei men note
son le strade d’Abisso; a lei men grato
del Tartaro natio sembra il soggiorno:
cento ceraste, de l’orrendo crine
parte minore, le fann’ombra al volto:
135gli occhi incavati ne la fronte, e accesi
d’una luce ferrigna, appunto quale
Cintia rosseggia al suon de’ tracii carmi:
putrida tutta e di veleno infetta,
che peste e sete e fame e stragi sparge
140ne’ popoli, e più morti, ed ella sola
a tutti è morte; si strascina a tergo
lacero il manto, e se l’allaccia al petto
con due serpenti: Atropo queste, e queste
fogge Proserpina usa: ambe le mani
145scuote; con l’una feral teda innalza,
d’idre vibra con l’altra orribil sferza.
  Giunta che fu di Citerone in cima,
e scoprì Tebe, un sì grand’urlo mise
e fischiar feo l’anguicrinita fronte,
150che ne suonâr per molte miglia i lidi
ed i regni di Pelope: Parnaso
ed Eurota tremâr: Eta al fragore
si curvò in fianco e fu a cader vicino:
e l’Istmo ancora da i propinqui mari,
155ch’egli divide, ebbe a restar sommerso.
Vide la madre Palemon per l’onde
sovra un delfin gire a diporto e ratta
gli diè di piglio e se lo strinse al seno.
La Dea di Cadmo appena entrò nel tetto,
160che de l’usato suo vapor maligno
tutti infettò i Penati; allor s’accese
ne gli ancor dubbi cor de’ rei germani
il natural furor: l’invidia sorse,
e l’odio dal sospetto, e la potente
165brama d’impero; e del secondo regno
gl’infidi patti, e del secondo Rege
impazïente d’aspettar desio;
e gelosia di restar solo in trono,
e la sanguigna alfin Discordia pazza.
170Come talor fuor de la mandra tratti
l’agricoltore ad un medesmo aratro
tenta accoppiar due fervidi giovenchi,
cui non per anche da l’altero collo
e non calloso la giogaia pende:
175essi vanno discordi, e in varie parti
traggono il peso indomiti e feroci,
e confondono l’un con l’altro solco;
non altrimenti la Discordia inaspra
il cuor de i due germani: un solo patto
180resta ancora fra lor, che per un anno
tenga un lo scettro, e l’altro esule vada,
per poi salir l’anno novello al trono;
questa sola pietà fra lor rimase,
questa fu del pugnar sola dimora
185da non durar sino al secondo Rege.
  Non era allor di lucido metallo
il regio tetto adorno: ancor dagli alti
monti di Paro i prezïosi marmi
non formavan colonne a l’ampie logge,
190ove s’accoglie adulatrice turba;
nè ancor la guardia de i guerrieri armati
con alterne vigilie a l’alte porte
custodivano i sonni del Tiranno;
nè a le tazze gemmate il vin, nè a l’oro
195commettevasi il cibo: angusto regno
cagione fu de la crudel contesa.
Or mentre ancor la dubbia sorte pende,
chi lasciar debba le ristrette zolle
di Dirce, e chi regnar nel trono infausto
200de l’esule di Tiro, andaro in bando
Onestade, Ragion, Giustizia e Fede,
e di vita e di morte egual vergogna.
  Ah miseri fratei! Dove vi tragge
cieco furor a scelerate guerre?
205Perfidi, forse che da voi s’aspira
a conquistar quanto da i lidi Eoi
trascorre il sole a la marina Ibera?
E ciò che obliquo mira? E fin là dove
spira Borea gelato? E dove scalda
210con i tepidi fiati il torrid’Austro?
E che fareste, se raccolti in uno
di Frigia e Tiro fossero i tesori?
Un luogo infausto, una città crudele
fur seme d’odio: de l’infame Edippo
215con sì ree furie fu comprato il trono.
  Già Polinice da la sorte escluso
ad Eteocle il primo onor cedea.
  Quale per te, crudel, fu mai quel giorno,
che solo a te senza rivale al fianco
220ligio vedesti il regno, e di già tua
tutta la corte, e dal tuo solo cenno
pender le leggi e ognun di te minore?
Ma già comincia l’Echionia plebe
a mormorar; e qual del volgo è stile,
225odia il Rege presente, ama il futuro.
Uno fra loro, cui serpeggia in seno
venen d’invidia, e impazïente soffre
l’esser soggetto: - Ahi queste dunque (grida)
aspre vicende i crudi Fati ordiro
230contro l’ogigia gente? A i gioghi alterni
e sempre formidabili supporre
il collo, ognor di nostra sorte incerti?
Diviso hanno fra loro il destin nostro,
e ne le mani lor la nostra sorte
235instabile divenne: ahi dunque ogni ora
un esule servir sarem costretti?
E tu de i numi padre e de’ mortali,
Giove, inspirasti lor sì fiera mente?
Forse tal legge prescrivesti a Tebe
240fin da quel dì che per lo mare indarno
il Toro rapitor Cadmo seguendo,
fondò ramingo in questi campi il regno?
O le da i solchi nate empie fraterne
schiere mandaro a gli ultimi nipoti
245l’infausto augurio? Or vedi come insulta
costui che in sè tutto il poter raccolse,
come torvo ne guata e ne minaccia?
Con quanto fasto ne conculca e preme?
E costui soffrirà scender dal trono?
250Certo più umano e più gentil sembrava
l’altro fratello, e più del giusto amante.
Ma che però? Egli non era solo.
E noi turba minor de’ vari regi
a i rei servigi sarem sempre esposti,
255siccome nave in procelloso mare
al diverso soffiar di Borea e d’Euro.
O troppo incerta e intollerabil sorte
de i popoli soggetti a due tiranni,
che ne minaccia l’un, l’altro comanda! -
260 Di Giove intanto al riverito impero
il senato de’ numi era raccolto
nel centro interno del girevol Polo.
Sorge quivi una reggia alta lucente,
ch’è posta in mezzo, ed egualmente siede
265tra ’l dì e la sera, e l’Aquilone e l’Ostro,
donde quanto è quaggiù tutto si scopre
e di terre e di mari. Egli sublime,
ma placido, in sembiante, in lo stellato
trono si posa, e i riverenti Dei,
270che stangli intorno, dolcemente mira,
e lor con mano di seder fa cenno.
Empion le logge poi la minor turba
de’ Semidei, e delle nebbie affini
i fiumi, e per timor placidi e cheti
275i venti impetuosi: al grave pondo
di tanti Numi vacillâr le sfere;
e lo splendor de le divine fronti
tutte d’intorno feo l’auree pareti
folgoreggiare di più chiara luce.
280Ma dopo ch’egli di tacer fe’ cenno,
e s’ammutì lo sbigottito mondo,
parlò da l’alto (Li tremendi detti
forza han di legge e gli ubbidisce il Fato.)
  - A voi, numi, de’ perfidi mortali
285l’opre nefande accuso, e l’empie menti
non spaventate da le furie o vinte:
cotanto osan tentar lo sdegno nostro?
Io sazio son di fulminar; già stanchi
sono i Ciclopi nel lavoro; e manca
290a l’eolie fucine il ferro e il fuoco.
Perciò vidi, e ’l permisi, il falso auriga
a traverso guidar Eto e Piroo,
e da l’ardenti ruote il cielo acceso,
e il mondo andar in cenere e in faville.
295Ma tutto invano: invan col gran tridente,
fratello, apristi inusitate strade
a l’onde tue ne li vietati campi.
Or io stesso le due di Tebe e d’Argo
inique stirpi a castigar discendo,
300sebben ambe da me l’origin hanno:
tutti han d’errori l’empie menti infette.
Chi di Cadmo non sa le trasformate
forme e l’acerbo Fato? E dagli abissi
le uscite Furie a perturbare il mondo?
305Chi de le madri barbare i piaceri
ignora? E de le selve i crudi errori?
E quei (che pur sotto silenzio premo)
delitti de gli dei? Non è bastante
del dì la luce e della notte l’ombra
310tutti a narrar de la profana gente
gl’indegni eccessi; anzi che l’empio Erede
rivolto, quasi bruto, al ventre, ond’ebbe
vital respiro, sul paterno letto
macchiò d’incesto l’innocente madre
315non meritevol di cotanto oltraggio:
pur ei pagò del fallo suo le pene
a i Numi irati, e si privò del giorno,
nè più vagheggia l’aere sereno.
Ma i figli, i figli (oh sceleraggin nuova
320e non intesa più!) del cieco padre
calpestan gli occhi. Ah non andranno inulti!
Sono esauditi i voti tuoi crudeli;
han meritato alfin le tue tenébre
Giove vendicator, vecchio infelice.
325Involverò li due profani regni
in nuove guerre: svellerò da l’imo
la scelerata stirpe; il vecchio Adrasto,
e ’l genero ramingo e le malvage
nozze contratte sotto infausti auspici
330de la Discordia innalzino la face.
Anche a costor dovute son le pene.
Nè di mente m’uscío l’ingiuria atroce
de la tantalea sanguinosa mensa. -
  Egli qui tacque; e dentro il cuor profondo
335d’improvviso dolor percossa e punta,
così Giuno rispose: - A me tu dunque,
o ingiusto Nume, fai di guerra invito?
E ben sai tu di qual favore onori
le rocche da i Ciclopi al cielo alzate,
340e qual io porga aita al nobil regno,
cui d’Inaco il figliuolo illustre rese.
Tacciasi da me pure, e si perdoni
de l’adultera vacca il buon custode
prima sopito in ingannevol sonno,
345e poscia ucciso; e la mentita pioggia,
con cui di Danae ne la torre entrasti.
Non ti rinfaccio le mentite forme,
e gl’incogniti stupri. Io quella abborro
cittade ove tu vai col proprio aspetto
350cinto di raggi e fulmini stridenti,
e con la maestà che meco giaci.
Sconti Tebe i suoi falli: Argo è innocente.
Ma che mai dico? Or via: Sparta e Micene,
e la mia Samo atterra, e non sia luogo,
355ove a la Diva tua germana e moglie
s’offran vittime e incensi e s’ergan are.
Sian più felici d’Io gli augusti tempii,
e gli adori tranquillo il vasto Egitto,
e di più sistri il risonante Nilo.
360Ma se pur vuoi de gli avi più remoti
ne i nipoti punir le colpe antiche;
se riandando i secoli vetusti,
ti si risveglia in cuor tarda vendetta;
e quando porrai modo a i tuoi flagelli?
365Quando potrai purgare tutto il mondo?
E qual sì pura e non colpevol gente
troverai tu che fra li padri e gli avi
un reo non conti? Ma se pur desio
hai di punir, mira là, dove Alfeo
370per occulto cammin segue Aretusa:
ivi gli Arcadi tuoi t’ergon altari
in luoghi infausti; ivi si vede il carro
d’Enomao e gli suoi crudi destrieri,
degni servire a i fieri Geti e a i Traci.
375Ivi si miran biancheggiar pe’ campi
l’ossa insepolte de’ rivali uccisi.
E pur ivi gradisci incensi e voti;
e pur Ida nocente e la vinosa
Creta ti piace, e ’l tuo mentito avello.
380Perchè d’Argo a me invidii il bel soggiorno?
Volgi altrove la guerra, e del tuo sangue
pietà ti prenda: altri più iniqui regni
degni vi son del Genero fatale. -
Così tra supplichevole e sdegnosa
385parlò Giunone. Impertubabilmente
udilla Giove, e tal le diè risposta:
  - Che d’Argo tua tu la difesa prenda,
già non m’è nuovo, e rivoltar altrove,
quantunque giusta, l’ira mia procuri.
390E Bacco ancora e Citerea per Tebe
mi farian voti; ma timor li frena,
e riverenza al mio divin volere.
Io per l’onda fraterna e spaventosa
giuro di Stige: terrò fermo il detto
395e sarà irrevocabile il Destino.
Or tu, messaggio mio, Cillenia prole,
fendi l’aere leggero e i venti passa,
e giù scendendo al tenebroso regno,
al tuo gran zio la mia ambasciata esponi:
400Laio di sangue ancor bagnato e lordo
dal figlio ucciso, e per la dura legge
de l’Erebo profondo ancor vagante
lungo il margo di Lete, al giorno mandi,
e li miei cenni al reo nipote ei porti:
405l’esule suo fratel fatto superbo
e da gli ospizi e da le nozze argive
(com’è già suo desire) ei tenga escluso
da Tebe, e neghi del paterno regno
il vicendevol pattuito onore:
410quinci a l’ire principio: il resto poi
condurrò con cert’ordine di cose. -
  Ubbidì pronto il messagger celeste
a i comandi del padre, e già calzati
i talari e adombrati i rai del volto
415con l’alato cappello, in mano ei prese
il caduceo fatal di serpi cinto:
egli con questo a suo piacer discaccia
da gli occhi il sonno, e a suo piacer l’infonde:
con questo aprir può le tartaree porte,
420e vita dare e spirto a l’ombre esangui.
Gittossi poscia nel freddo aer puro,
e in un momento con girevol volo
a l’ime parti si calò da l’alto.
  Ramingo intanto e de la patria in bando
425gía Polinice per l’aonie selve,
volgendo ognor ne l’agitata mente
il pattuito regno e l’anno alterno,
che lento a lui più de l’usato sembra.
Questo pensiero il dì, questo la notte
430gli sta fisso nel cuore, e già si finge
esule il fier germano, umíle, abietto,
e sè potente dominare in trono.
E tanto brama un sì felice giorno,
che torria seco a patteggiar la vita.
435Ora si duol de l’intricate strade,
che ritardan sua fuga; ora i reali
spirti riprende, e su ’l fratel depresso
salir gli sembra su l’avito soglio.
L’alma agitata in dubbia speme ondeggia,
440e in lunghi voti il suo desio consuma.
Or sin che Febo tutto compia intero
suo vasto giro, ei di ritrarsi agogna
a’ Danai campi, d’Inaco a le rocche,
od a Micene, onde già il sol fuggio;
445Nè so ben dir se lo traesse il Fato,
o ’l sospingesse pur l’immonda Erinne.
Lascia gli urlisonanti antri di Ogige,
e dal furor de le Baccanti sparsi
di sangue i monti, e scende ove Citero
450in lieti colli verso il mar s’appiana.
Passa oltre, e di Sciron l’infame scoglio
vede, e scorre a Megara, e la salubre
Corinto a tergo lascia, ove si sente
mugghiare il mar da due contrarie sponde.
455Ma di già Febo il suo diurno corso
finito aveva, e la triforme Dea
col rugiadoso carro iva vagando
per l’alto cielo, e ne piovea vapore
che l’aer denso fa freddo e sottile.
460Già su i rami gli augei, le belve in tane
prendon riposo, e di già il dolce sonno
molce le cure e infonde oblio de’ mali.
Ma il Sol caduto infra le nubi involto,
e il non purpureo rosseggiante cielo
465non promettean sereno il nuovo giorno.
S’alzan da terra atri vapori e densi,
ch’alto salendo son mutati in nebbia:
una tetra caligine profonda
copre di Cintia il vacillante lume:
470già già s’odon sonar l’Eolie chiostre,
e un fremer rauco di spezzate nubi
la tempesta minaccia. I venti in guerra,
mentre il campo del cielo ognun pretende,
e l’uno e l’altro incalza, e nessun cede,
475sembran schiantare dal suo centro il mondo.
Ma l’Austro più potente in maggior notte
la notte involve, e turbini e procelle
mesce, e la pioggia in giù versa a torrenti,
che al soffiar poscia d’Aquilon gelato
480in grandin si condensa e i campi inonda.
Serpeggian per lo ciel fulmini ardenti,
e spezzan l’aria spessi tuoni e lampi:
scorron per tutto l’acque, e la Nemea
valle n’è piena, e già ne sono molli
485d’Arcadia i monti a le Tenarie selve
vicini, e per più rivi Inaco altero
già soverchia le sponde, e il suo veleno
Lerna ripiglia e ne gorgoglia e freme.
Argine più non v’è, non v’è riparo,
490che de i poc’anzi polverosi fiumi
possan frenar l’impetuoso corso.
Volano infranti i tronchi, e del Liceo
i cupi boschi, ove non entra il sole,
penetra il turbo impetuoso e rio.
495 Il miser Polinice intorno mira,
e vede giù precipitar da’ monti
rupi infrante e torrenti: ode il fracasso
de la procella, che rapisce seco
svelte le case e gli uomini e gli armenti.
500Egli tremante e del cammino ignaro,
per l’ombre cieche de la buia notte
il passo affretta, e lo spaventa e turba
quinci il tempo crudel, quindi il germano.
Così nocchier, che in procelloso mare
505privo di Cinosura, e senza lume,
non vede più dove drizzar la prora,
sta fra vari timor dubbio ed incerto:
teme le sirti ascose ed i palesi
scogli, e ad ognora d’affondar paventa.
510 Il giovane infelice afflitto e lasso
per lo più folto de le oscure selve
le siepi apre col petto e le boscaglie,
e col pesante scudo urta e percuote
di qua, di là arbori, tronchi e massi,
515ove albergan talor feroci belve;
e lo stesso timor dà lena al piede.
Pur finalmente de l’eccelsa rocca
di Larissa ne i tetti alti e sublimi,
che d’Inaco già fur, vede una face
520che l’ombre scaccia e lungi spande il lume.
Ei colà s’incammina, e la speranza
gli mette l’ali al piede: a tergo lassa
Prosina a Giuno sacra, e la palude
di Lerna insigne per l’erculeo foco,
525ed entra d’Argo ne le schiuse porte.
Vede le logge del real palagio,
ed ei di pioggia ancor stillante e molle
vi si ricovra, e sopra il duro suolo
stende le membra, e invita gli occhi al sonno.
530Qui il buon Adrasto i popoli reggea
con dolce freno ed in tranquilla pace,
uomo d’anni maturo, e più di senno,
per avi illustre, e che il suo sangue tragge
per ambo i rivi dal supremo Giove.
535A sua felicità mancavan solo
del miglior sesso i figli, e solo a lato
due figlie leggiadrissime tenea.
A queste Febo con occulte ambagi
strani sposi promette e fiere nozze.
540Un setoso cinghiale a l’una e un biondo
leone a l’altra; ed avverossi il detto.
Questo enimma funesto il vecchio padre
e del futuro Anfiarao presago
invan tentan svelare: Apollo il vieta;
545e un sì tristo pensier nel padre invecchia.
  Ed ecco intanto il gran Tideo scacciato
di Calidonia per crudel destino,
e conscio a sè de la fraterna morte,
per le stesse procelle e per le stesse
550folte selve passando, e de la pioggia
tutto grondante il crin, grondante il manto,
giunge ove Polinice ha preso albergo.
Tosto Fortuna a i due guerrieri appresta
nuovi furori, e l’uno a l’altro nega
555sotto un tetto comun prender riposo.
Brevi fur le minacce; e tosto accesi
d’ira steser le braccia, e disarmati
a nuda guerra s’accozzaro insieme.
Era grande il Tebano, e in ferma etade;
560ma Tideo di coraggio a lui non cede,
e il suo vigor per tutt’i membri sparso
dentro il piccolo corpo era maggiore.
Qual su i monti Rifei cadon frequenti
e grandini e saette: i due rivali
565spesseggian le percosse, e fanno al volto
od a le cave tempia ingiuria e danno;
incurvan le ginocchia, e a lotta stretti
si premono a vicenda il petto e ’l fianco.
Siccome allor che terminato il lustro
570rinnova Olimpo i sacri giuochi a Giove,
di nobile sudor sparsa è l’arena,
e i vari applausi a i giovanetti eroi
accrescon forza ne l’amico agone,
e aspettan fuori il vincitor le madri;
575così ne l’ira pronti, e non già mossi
da bel desio d’onor, guastansi ’l viso
con mani adunche, e non rispettan gli occhi;
e forse il ferro avriano preso, e forse
tu, Polinice, con men ampio fato
580cadevi, e t’avria pianto anche il fratello:
se non che Adrasto, a cui la molta etade,
e più le cure fanno lieve il sonno,
ode il fragor de le percosse, e i gridi
tratti da l’imo petto, e non usati
585ne i taciti silenzi de la notte:
e ratto corre; esce da l’alte porte,
e lo precedon cento faci accese;
ma poi che giunge ov’è il conflitto, e vede,
orribil vista! i lacerati volti
590di sangue intrisi: - E qual furor vi mena,
o giovani stranieri, a fiera pugna?
(dice) perchè so ben che nel mio regno
uom sì ardito non fora. E qual sì atroce
d’odio cagion de la tranquilla notte
595turba i riposi? È forse angusto il giorno?
Di placida quïete un sol momento
invidiate a voi stessi, e un breve sonno?
Dite, chi siete? Onde venite? Quali
son vostre risse? Le magnanim’ire
600e le ferite che in voi scorgo impresse
segno mi son di chiaro alto lignaggio. -
Ed essi allora con turbate voci
ed occhi biechi l’un l’altro mirando,
così dissero a gara: - O degli Argivi
605buon re, tu stesso vedi il sangue sparso;
a che ce ’l chiedi? - Indi Tideo ripiglia:
- Io per sollievo d’infelice colpa
lasciata ho Calidonia, e le superbe
ricchezze avite, e i campi d’Acheloo:
610ne i confin vostri tenebrosa notte
e procellosa mi sorprende; or quale
ha diritto costui nel real tetto,
onde mi vieti il necessario albergo?
Forse perchè vi giunse egli primiero?
615I biformi Centauri un sol soggiorno
accoglie, ed Etna gli orridi Ciclopi.
Hanno le loro leggi anco le fiere:
noi non avrem comune il duro suolo?
Ma che più tardo? Or tu, chiunque sei,
620o te n’andrai de le mie spoglie altero,
o se il valore antico in me non langue
per novello dolor, vedrai ben tosto
ch’io son del grand’Eneo degno rampollo,
e merto aver fra gli avi miei Gradivo. -
625- Nè a noi manca valore e chiaro sangue -
replica l’altro: ma vergogna il frena,
e non ardisce nominare il padre.
  Allor Adrasto: - La crudel contesa,
che l’errore notturno e un improvviso
630siasi sdegno o valor in voi destaro,
deh cessi omai, e ne’ miei tetti entrando
datevi d’amistà le destre in pegno.
Forse non senza de gli dei mistero
questo n’avvenne, e del vicino amore
635forieri sono gli odii vostri: grato
forse vi fia ciò rammentare un giorno. -
Sì disse Adrasto, e fu del ver presago;
perocchè dopo la crudel tenzone
tale nacque tra lor santa amistade,
640quanta fra Teseo audace e Piritoo,
quanta fu mai fra Pilade ed Oreste.
Essi allor tranquillando a poco a poco
l’alma commossa al suon de’ regii detti,
entrâr nel gran palagio. In cotal guisa
645dopo l’aspra procella il mare accheta
l’onde sconvolte, e non però del tutto
si tace il vento ne le aperte vele.
  Or quivi Adrasto attentamente osserva
degli ospiti l’aspetto, e l’armi e i manti:
650vede il tebano entro la spoglia involto
di fier leone, a cui dal collo pende
l’incolta giuba, da l’erculeo braccio
ucciso già ne la Teumessia Tempe:
di questo Alcide era vestito, quando
655il Cleoneo maggior leone estinse.
Ma Tideo intorno avea del setoloso
aspro cinghial, di Calidonia onore,
l’irsuto pelo e le ritorte zanne.
Stupisce il vecchio, e nel pensier rivolge
660il grande augurio, e intende già gli oscuri
oracoli di Febo, e de le grotte
le risposte fatidiche e veraci.
Tien gli occhi a terra fissi, e gli ricerca
un lieto orrore le midolla e l’ossa.
665Conosce ei ben ch’ivi guidollo il Nume,
e che son questi i generi promessi
sotto il velame de’ ferini volti:
allora al cielo alza le mani, e dice:
- Notte, che de’ mortali e de’ Celesti
670le cure abbracci, e teco in giro meni
per diverso cammin gli astri splendenti;
che dài ristoro a gli animali lassi,
fino che il nuovo Sol li desti a l’opre;
tu, sacra Notte, volontaria sciogli
675gli occulti enimmi, e da la dubbia mente
mi discacci il timor, riveli il fato;
tu a l’opra assisti, e il lieto auspicio avvera.
Quantunque volte si rinnovi l’anno,
avrai ne le mie case altari e voti:
680noi t’offriremo nere agnelle e tori
scelti dal miglior gregge, e le lustrali
viscere avrà Vulcan di latte asperse.
Salve, o de’ sacri tripodi e del cieco
antro d’Apollo non fallace fede;
685e tu salve, o Fortuna, che de’ Numi
ci discopristi l’infallibil mente. -
Tace; e i guerrieri per la man prendendo,
con lor s’inoltra nel più interno albergo.
  Fumavan ivi ancora in su gli altari,
690da le tepide ceneri coperti,
il sacro fuoco e i libamenti sacri.
Ordina il re che nuova fiamma splenda,
e si preparin nuove cene: pronti
accorrono i ministri, e ne rimbomba
695di vario suono la sublime reggia.
Altri portan purpurei aurei tappeti,
e n’adornano i letti: altri le mense
copron co’ bianchi lini: altri le faci
accendon su le pendole lumiere:
700chi de le uccise vittime le carni
ne lo spiedo rivolge, e chi sul desco
la macerata cerere dispensa.
Ferve ne l’opra la real famiglia.
Sel mira Adrasto, e nel suo cuor ne gode;
705ed egli intanto in su l’eburneo scanno,
di ricchi strati adorno, alto s’assise:
i giovani stranier, lavate e monde
pria le lor piaghe, gli sedeano a fronte:
si rimirano in viso, e de le impresse
710ferite han duolo, e l’un perdona a l’altro.
Allora il Re la vecchia e fida Aceste,
de le figlie nutrice, a cui la cura
n’era commessa e le serbava intatte
a i maturi e legittimi imenei,
715fatta chiamare, ne l’attenta orecchia
basso le parla: ella ubbidisce a i detti:
ed ecco uscir da le segrete celle
le due vergini eccelse, appunto quali
(se ne togli il terror) l’egidarmata
720Palla e la faretrata alta Diana.
Ma come vider de i garzon stranieri
i nuovi aspetti, con alterni moti
di pallor, di rossor tinser le gote;
poi gli occhi vergognosi al padre alzando,
725ivi li tenner sempre immoti e fissi.
Intanto vari e prezïosi cibi
scacciata avean la fame; allor di Jaso
il successore l’aureo nappo chiede
tutto d’istorie variato e sculto,
730con cui solean libare a’ sacri Dei
e Danao e Foroneo; da un lato v’era
un cavalier sopra destriero alato,
che tenea in man le serpentine chiome
e il teschio di Medusa: alto ei rassembra
735levarsi a volo, e ch’essa gli occhi gravi
per morte e il volto ancor spirante muova,
e il suo pallore anche ne l’oro serba.
Da l’altro il Frigio cacciator si vede
da l’aquila rapito, e sotto lui
740Ida s’abbassa, e s’allontana Troia:
restan mesti gli amici, e i fidi cani
invan latrangli dietro e mordon l’ombra.
Ei questo nappo ridondante e colmo
di vino in parte versa, i numi invoca;
745ma Febo in prima; e Febo, Febo intuona
la famiglia regal: ciascuno in mano
tien la pudica fronda amata tanto
dal Nume, a cui sacro è quel giorno, e a cui
fuman l’are e gl’incensi. Adrasto allora:
750- Forse in voi sorge natural desio,
giovani, di saper del sacro rito
gli alti misteri, e qual cagion ne muova
a fare in questo giorno a Febo onore?
Non sono a caso i sacrifizi: un tempo
755il popol d’Argo da gran strage oppresso
or questi voti scioglie, e udite come.
Poich’ebbe Apollo il gran Pitone ucciso,
orribil mostro de la Terra figlio,
che co’ suoi tortuosi ampli volumi
760Delfo tenea ben sette volte cinta,
e le piante seccava e i verdi campi
col pestifero fiato e con le squamme,
tutta vuotando in lui la sua faretra;
mentr’ei stendeva nel Castalio rivo
765il lungo collo e la trisulca lingua,
per rinnovar con l’onda il suo veleno,
e dopo morto infin de la gran mole
stesi gl’immensi avviticchiati giri,
di Cirra ricoprì ben cento campi:
770pria di tornare infra i celesti numi
volle espiar quaggiù l’uccisa fiera,
e ne i poveri tetti ebbe l’asilo
del re Crotopo. Avea questi una figlia
giovane e bella di natia bellezza,
775de i Penati custode, e riserbata
a legittime nozze intatta e pura.
Felice lei, se del Signor di Delo
fuggiva i furti e i clandestini amori!
Ma poi che il nume ebbe sofferto, errante
780lungo il fiume Nemeo (già Cintia avendo
ben dieci volte rinnovato il corno)
un vezzoso bambino in luce diede;
e perchè teme l’implacabil ira
del genitor, che il vïolato letto
785non lascerebbe invendicato, ascosi
luoghi ricerca, e in villereccio albergo
il caro parto ad un pastore affida.
Sventurato fanciul! già non son queste
degne del sangue tuo cune reali:
790tu su l’erba t’adagi, e te ricetta
di virgulti e di canne un tetto umíle:
tu fra cortecce d’arbori rivolto
scaldi le membra: rustica zampogna
a te concilia il sonno, e con gli armenti
795hai comune il soggiorno ed il terreno:
e questo ancora t’invidiaro i fati!
Perchè, mentr’egli abbandonato e solo
sopra verde cespuglio un dì giacea,
vivo e tremante il divoraro i cani.
800Ma non sì tostò a l’infelice madre
giunse l’avviso reo, che da sè scaccia
ogni vergogna e ’l genitor non teme,
e scinta il seno e lacerata il crine,
d’urli e di strida i regii tetti empiendo,
805corre, e il suo fallo al crudo padre accusa:
ei da pietà non mosso, a fiera morte,
e bramata da lei, tosto l’invia.
Ma sebben tardi, a te tornaro in mente
i dolci amplessi e la trafitta amante,
810Febo: però non gli lasciasti inulti.
Un mostro orrendo d’Acheronte in fondo
da le Furie concetto a noi mandasti.
Aveva di donzella il volto e ’l petto,
ma bieco il guardo, e le partiva il crine
815una rabbiosa e sibilante serpe.
Or questa peste fra i notturni orrori
penetrava le case, e da le culle
e dal sen de le vigili nudrici
tutti traeva i teneri bambini;
820e pascendo di lor l’ingorda fame,
si satollava de i paterni pianti.
Ma il prode in armi e di gran cuor Corebo,
fatta di scelti giovani una schiera,
vie più d’onore che di vita amanti,
825più non volle soffrir l’iniquo mostro.
Andonne in traccia, e ritrovollo appunto
infra due porte d’infelici case
dond’era uscito: gli pendean dal fianco
due pargoletti, e già le adunche mani
830ne le viscere d’uno, e i crudi artigli
immersi aveva, e ne strappava il cuore.
Lo vede, vibra l’asta e gli dà morte;
e la piaga allargando e le interiora
squarciando, il mostro suo rende a l’inferno.
835Stupiscon gli altri: e poichè un colpo solo
finì l’impresa, prendonsi diletto
di rimirar le impallidite luci,
e l’immonda pinguedine del ventre,
e le viscere orrende e già nudrite
840de’ nostri figli: già l’Argiva plebe
accorre, la rimira, e ancor ne teme,
e il nuovo gaudio di pallore è misto.
Alfin fatta sicura, altri ne squarcia
le scelerate membra a brano a brano:
845chi l’orribile ceffo e le mascelle,
chi l’ampie zanne con i sassi infrange;
nè può vendetta sazïar lo sdegno.
Da quel sozzo cadavere insepolto
fuggîr notturni augelli; e i cani e i lupi
850s’allontanâr dal velenoso pasto.
Ma quando credevam de i lunghi pianti
rasciugar gli occhi: ecco che Febo a sdegno
presa la morte de la Furia ultrice,
dal bicorne Parnaso in noi saetta
855col crudel arco avvelenati strali.
Sorge un vapor maligno, e i campi adugge:
una nebbia ferale in cieca notte
tutt’Argo involve, e la ritien coperta.
Mancan l’alme infelici, e a Stige scendono.
860Non sì veloce il mietitor recide
le spiche, e non sì presto il foco stende
in secca stoppia la vorace fiamma,
com’empia Morte miete a cento, a mille
le vite, e insegne vincitrici spiega.
865Già scorre la cittade; e vinta e doma
tutta la manda in sacrificio a Pluto.
Infin l’afflitto re ricorre al tempio,
e da l’Autor de’ nostri mali chiede
del male la cagion; perchè n’offenda
870l’aere infetto, e perchè Sirio in cielo
oltre l’usato tiranneggi l’anno?
Ma il crudo nume una crudel risposta
ne dà: che tosto sien mandati a morte
quei che la sozza bestia aveano uccisa.
875O di Corebo invitto animo altero,
d’eterno onor, d’immortal fama degno!
Non già l’armi nascondi, e non t’infingi,
nè ricusi per noi l’estremo fato.
Vittima volontaria egli sen corre,
880e del gran tempio in su la soglia giunto
osa il nume irritar co’ detti acerbi:
"Nè da altrui mosso, nè a cercar perdono
io vengo, o Febo, a i tuoi tremendi altari:
me la mia coscïenza, me il valore,
885me la pietà qui manda: io son colui
che la tua Furia uccisi; quella, iniquo,
che con l’atre nubi e con gli oscuri
giorni, e con l’aria infetta e colla peste,
e col lutto comun vendicar tenti:
890che se lassù fra gl’immortali Numi
in tanto pregio son le belve e i mostri,
che la morte de gli uomini rassembri
recare al mondo minor danno; e quale
Argo v’ha colpa? Me, me, giusto Nume,
895questo mio capo tue vendette adempia.
Che giova a te de le deserte case
mirare i tetti e le campagne inculte?
e gli estinti cultori arder su i roghi?
Ma perchè tardo più col parlar mio
900la tua vendetta? Aspettan già le madri,
e già m’onoran degli estremi pianti.
Su dunque il dardo scocca, e a Lete manda
quest’alma eccelsa che morir non pave;
ma da le rocche d’Inaco discaccia,
905benigno Febo, il velenoso influsso".
  Sempre arrise fortuna a gran valore.
Placossi Febo; serenossi il cielo;
cessò l’acerba strage, ed ei tornossi
tra gli applausi comuni e i lieti gridi,
910qual vincitor ne le paterne case.
Quindi è che noi, dopo il girare intero
de l’anno, a Febo in questo dì solenne
rinnoviam queste cene e i nostri voti.
E forse ancor qui voi guidò la fama,
915per star con noi del sacrifizio a parte;
sebben tu mi dicesti, e mi sovviene,
ch’eri figliuol del Calidonio Eneo
e successor del Partaonio regno.
Ma tu donde a noi vieni? (Il tempo e il luogo
920agio ne dan di favellar.) Rivela
qual sia la patria, il genitore, il nome.
Arrossì Polinice, e il volto a terra
chinando, riguardò come di furto
l’emulo generoso, ed a la fine,
925dopo molto pensar, così rispose:
- Non chiedermi, o buon Re, fra tanti onori
sacri a’ superni Dei, quale il mio nome,
qual sia la patria o il genitor, chè ponno
del santo rito funestar la pompa.
930Ma se pur vuoi che l’onte mie palesi,
io nato son ne la guerriera Tebe:
da Cadmo ho il sangue, e madre m’è Giocasta.
Allora il re de l’ospite a pietade
mosso: - A che celi a noi le cose note?
935(disse) dunque in Micene e in Argo solo
non si sapranno del Tebano regno
gli error, le furie e le accecate fronti?
Già ne vola la fama, ovunque splende
il Sole, e dov’ei nasce e dove more,
940e sotto i sette gelidi Trioni,
e là di Libia ne le aduste arene.
Cessin le tue querele, e l’opre inique
de’ tuoi maggiori non recarti a scorno.
Anche tra i nostri alcun peccò, nè a noi,
945nè al sangue nostro il fallir lor s’ascrive.
Cancella tu con generose geste
le colpe altrui, e te di gloria adorna.
Ma già il timon abbassa, e langue e manca
il pigro auriga de la gelid’Orsa:
950Su su, ministri, rinnovate i fuochi,
e il vin su vi spargete, e i nostri canti
lodino ’l biondo dio, che a gli avi nostri
(sua gran mercè) diede salute e vita.
"Febo, o sia che di Licia ora pe’ i monti
955cacci le fiere, e Patareo t’appelli;
o che Timbreo ne li Troiani campi
abbi soggiorno, ove li Frigi ingrati
la promessa mercede a te negaro;
o che in Castalia lungo il dolce rivo
960ti sieda a l’ombra de’ tuoi sacri allori;
o più ti piaccia la materna Cinto,
che il vasto Egeo co’ suoi gran monti adombra,
l’angusta Delo tua posta in oblio:
tu l’arco porti, e contro gli empi scocchi
965le divine infallibili saette:
a te diè Giove aver fresche e vermiglie
ognor le gote e sempre biondo il crine:
a te fu dato antiveder quai stami
sia per troncar l’inesorabil Parca,
970del futuro presago; a te di Giove
nota è la mente e l’immutabil fato;
tu qual anno fia sterile o fecondo;
tu sai qual ne sovrasti o pace o guerra;
tu quai regni minaccin le comete;
975tu vinci con la tua sonora cetra
Marsia nel canto; e tu lo leghi e scuoi;
Tizio per te di Stige ingombra i campi;
e de la madre tua vendichi l’onta;
tu il fier Pitone uccidi, e la tremante
980Niobe de i parti suoi orbata rendi:
per te Megera inesorabil tiene
Flegia digiuno a sozze mense assiso:
tu benigno ci guarda, e tu difendi
questo a te già sì caro ospite albergo,
985e questo di Giunon divoto regno,
o che tu Osiri esser chiamato brami,
o di Titano più ti piaccia il nome,
quali sul Nilo e in Achemenia prendi,
o quel di Mitra (c’hai ne’ Persi regni)
990che il bue restio per le gran corna afferra". -

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