< La carbonaria
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Atto III Atto V

ATTO IV.

SCENA I.

Panfago, Alessandro.

Panfago. Ho fatto una gran sciocchezza a farmi scappar Pirino dalle mani; ché per poterlo poi trovare non ho lasciato strada né casa d’amico che non abbi cerco, per gir a desinar con lui come restammo d’accordo: perché ho complito quello che ho promesso a lui, giusto è ch’egli complisca quello che ha promesso a me. Sí che per la soverchia fatica ho una sete ch’arrabio: penso che sia in casa di Alessandro e che apparecchi il banchetto, e tutti mi stieno aspettando. Ecco la casa. O che aura odorata che ne spira, annunciatrice di un eccellente apparecchio! Se non giungo a tempo della battaglia, almeno raccorrò le spoglie de’ nemici: tic, toc.

Alessandro. Chi è lá?

Panfago. Amici!

Alessandro. Come ponno essere amici chi ne spezzano le porte?

Panfago. Aprite tosto!

Alessandro. Chi sei?

Panfago. Il soverchio bere ti ará tolto il vedere.

Alessandro. Chi dimandi tu?

Panfago. Pirino, dico.

Alessandro. Non è in casa, è uscito poco fa.

Panfago. Ha egli forse alzato il fianco?

Alessandro. Sí bene.

Panfago. Non ha lasciato alcun bocconcello, alcun miserabil rilevo per me?

Alessandro. Nulla.

Panfago. O mal d’affogaggine! Oimè, che la fame m’asciuga lo stomaco e la sete mi disecca le vene; ma possa io morir di mala morte, se non me ne farò vendetta e bona! Traditori assassini, che dispetto vi feci mai, che meritasse tanto scherno? farmi star tutto il giorno su le speranze, digiuno? Mi avete promesso per non attendere e m’avete onorato per beffarmi; ma farò che la beffe torni sopra voi, il cibo che avete divorato senza me farò che mal pro vi facci: ché non mi terranno tutte le catene del mondo, che non vada ora al dottore e non gli riveli tutte le furbarie che gli avete fatte. Avete rotto la fede a me, la romperò io a voi: li riempirò l’animo di gelosia, l’aspreggiarò tanto che da questa beffe ne germoglino danni, rumori e morti e quanto piú se può peggio. Un par mio digiuno a quest’ora, eh?

SCENA II.

Dottore, Panfago.

Dottore. Panfago, dove vai?

Panfago. Se non vi rovino tutti, ...

Dottore. Che cosa hai?

Panfago. ... cadano i cieli, se abissi la terra...

Dottore. Di chi ti rammarichi?

Panfago. ... e si sconquassi il mondo!

Dottore. Panfago, tu smanii; certo tu devi arrabbiar della fame.

Panfago. Oh sète qui, dottore! la rabbia m’avea offuscata la vista d’un torto che vi è stato fatto: e se l’avessi potuto vendicar io senza la vostra saputa, l’arrei fatto assai volentieri; ma non potendo, vengo sforzato a dirvelo: è cosa che proprio non la posso digerire.

Dottore. Io dubito che tu abbi digesto d’avanzo, e che essendoti stato promesso da desinare e venutoti meno, tu ti muoia della fame.

Panfago. Ma vorrei che stimassi che le parole mie nascano da vero amore e da zelo del vostro onore, non da qualche mio interesse.

Dottore. Che cosa dunque?

Panfago. Sapete che Melitea vi è stata tolta e or sta in poter di Pirino?

Dottore. Non può essere.

Panfago. Quante cose paiono che non ponno esser, e pur sono? Ma accioché non pensiate che io parli in aria, m’offerisco a farvi veder ogni cosa con gli occhi propri.

Dottore. Mangone si guarda da Pirino e da Forca, come il diavolo dalla croce; e Melitea sta inferma e carcerata, e son tre giorni che non ha cibo.

Panfago. Pirino s’è tinto da schiavo e s’ha fatto vendere a Mangone da un gran furfante, come io, vestito da raguseo; e intrato in casa sua, ha vestito Melitea de’ suoi panni e fattala comprar dal padre: e la burla è stata accetta e ricevuta, ...

Dottore. Per farmi credere una bugia, ce ne aggiungi un’altra peggiore. Come voleva entrare e uscir dalla casa di Mangone, se vi sta un perpetuo guardiano?

Panfago. ... ed il Forca è stato presente a tutto...

Dottore. O che testimonio m’adduci!

Panfago. ... ed io a tutto son testimonio d’occhi. Né si ha vergognato di far una simile beffa ad un par vostro, ricco, dotto e di qualitá tanto stimate nella terra nostra. Chi è Pirino altro che un pidocchioso? chi è Forca se non un che meritarebbe essere stato afforcato prima che nascesse? ...

Dottore. Orsú, basta, basta.

Panfago. ... Or stanno abbracciati cosí stretti che l’aria non vi può star in mezo...

Dottore. Taci, non piú: ché me l’hai espressi cosí vivi che essermi gli contemplo presenti, e non veggendogli par di vedergli.

Panfago. ... L’han fatto piú per svillaneggiarvi che per altro: or si ridono di voi, dicendo che abbracciar voi è abbracciar un morto, e che li movete vomito con la vista, sète pelle senza nervo, una vescica sgonfiata, che puzzate di cimitero e che piatite con la sepoltura, e che la notte la terreste sempre svegliata con l’orologio delle correggie, se dormisse con voi. ...

Dottore. Ogni tua parola m’è un serpe velenoso che mi morde, una tigre che mi straccia.

Panfago. ... Né gli bastava avervi beffeggiato, se alle beffe non s’aggiongevano l’ingiurie.

Dottore. Io mi sento l’anima in uno istesso tempo assalita da contrari affetti, combattuta da una turba de nemici, da sdegno, da malinconia, da vergogna e da gelosia. La malinconia mi rode, la vergogna mi confonde, l’ira m’arde nel core, la gelosia mi boglie nell’anima. Ho melancolia che ho perduta l’innamorata, ho gelosia che altri la goda, ho sdegno che non m’ami, ho vergogna d’esser beffato; e se son vecchio ho il cervello giovane, e se ho la debolezza del corpo ho la prontezza dello spirito.

Panfago. Se volete vendicarvi, bisogna prestezza e piú fare che dire, anzi il dire e il fare sia in un medesimo tempo: io vi aiuterò col consiglio e con l’esser a parte d’ogni fatica.

Dottore. Assaltiamgli all’improvviso; ché essendo Pirino temerario ed audace ne’ piaceri, sará timido nelle avversitá, che sempre sogliono essere temeritá e paura in un medesimo soggetto. Andiamo a Mangone prima, veggiamo se Melitea sia in casa e poi rimediaremo al tutto.

Panfago. Andiamo.

Dottore. E se troverò che sia vero quanto hai detto, prenderò tal vendetta di loro che li farò pentir mille volte d’avermi ingiuriato.

Panfago. Or do a desinare alla mia rabbia e da bere alla mia sete: la vendetta compenserá la noia dell’una e dell’altra.

Dottore. Ecco la casa, io batto.

Panfago. Io mi starò cosí chiuso nella cappa che costui non mi riconosca.

SCENA III.

Mangone, Dottore, Filace, Panfago.

Mangone. Padron caro, che furia è questa? Melitea sta a vostra posta; e se la volete cosí inferma come ella è, ve la darò or ora.

Dottore. Dove è ella?

Mangone. Chiavata in camera strettamente.

Dottore. Dici il vero; ma non in camera tua e da altri.

Mangone. Dubitate forse che Pirino e Forca non me l’abbino tolta?

Dottore. Non lo dubito, ma lo tengo per certo; perché intendo che da Pirino e da Forca ti sia stata sbalzata di casa.

Mangone. Saranno eglino prima sbalzati da una forca.

Dottore. Di grazia, toglimi da tale ambascia, ché mi bolle nel cor un strano desiderio di vederla.

Mangone. Volentieri. O Filace, o Filace!

Filace. Che volete?

Mangone. Che cali giú Melitea, che la vuole veder il dottore.

Filace. Vado.

Mangone. Filace è un gran custode, molto astuto e sospettoso, e teme insin delle mosche. Poi, gabbar me? son un tristo e son ruffiano — bástavi questo, — e son il maggior ruffiano di tutto il ruffianesmo.

Filace. Mangone, la camera è aperta e dentro non v’è alcuno.

Mangone. Oimè, che m’hai ucciso!

Filace. Come ucciso?

Mangone. Parli pietre, me n’hai dato una in testa che m’ave ucciso. E per dove potria esser scampata?

Filace. Io non mi son mosso oggi di casa né fuor dell’uscio; e se non ha poste l’ali e scampata per le fenestre, non ha potuto scampar altronde.

Dottore. Che dici ora? non parli?

Mangone. No, né può uscir fiato dalla gola: Forca m’ha strangolato.

Dottore. Che ti dissi io?

Mangone. E mi fa peggio ch’egli m’abbi ingannato, ch’ogni altro forastiero. O Forca, ti veggia alzato in mezzo due forche che arrivino insin al cielo! o che Dio ti dia la mala ventura!

Dottore. Tu l’hai avuta giá. Ma perché non cominci il lamento sopra i cinquecento ducati? Il lamento fallo sopra di te: che tu l’hai perduti, che colpa n’ho io?

Mangone. Son piú misero di quanti uomini sono stati o saranno o sono. O tristo me!

Dottore. Anzi, me!

Mangone. Son rovinato.

Dottore. Son rovinato ben io.

Mangone. Ho perduto cinquecento ducati.

Dottore. Ho perduto l’innamorata.

Mangone. Son punito delle beffe che m’ho fatto di lui.

Dottore. Come t’hai lasciato ingannare?

Mangone. Non son stato ingannato altrimente da lui, ma ben da un raguseo il qual m’ha portato un schiavo a vendere, che, or che vi penso bene, avea tutte le fattezze di Pirino. Quel raguseo è stato la cagione della mia ruina.

Dottore. Come ti colse quel raguseo?

Mangone. Con un presente di molto prezzo; e non m’accorsi che sotto la maschera di quel presente stava nascosta la trappola.

Panfago. Ditegli che vi mostri quel presente.

Dottore. Di grazia, fammi veder quel presente per isgannarmi.

Panfago. Filace, conduci qui quei presente che mi portò il raguseo.

Dottore. Sai tu come si chiamava quel raguseo?

Mangone. Sí bene, Rastello Fallatutti di Monteladrone.

Dottore. Se ti disse che si chiamava Rastello, ché ti rastellava, e Fallatutti, ché fallava e ingannava tutti, come non ti guardavi che non fallasse ancor te?

Mangone. E il suo fattore si chiamava Rampicone di Maltivegna.

Dottore. Venghi il malanno a te e a lui; ma il mal t’è venuto.

Mangone. E gli feci una buonissima collazione.

Dottore. Questo è il peggio, che facesti una collazione a chi te ingannava.

Mangone. Prego Iddio che gli facci mal pro.

Panfago. A te porta il presente, Filace.

Mangone. Ponnosi veder le piú belle provature, formaggi, bottarghe e barilotti di malvagia?

Panfago. Diteli che le provi un poco.

Dottore. Di grazia, provatene alcune.

Mangone. Odorerò il vino. O gaglioffo traditore! il barilotto è pieno di piscio, le bottarghe sono di mattoni, il formaggio di pietra e le provature vessiche piene di sporchezza! O Dio, non gli bastava l’ingiuria, se non giongeva ingiurie ad ingiurie!

Dottore. Con tutt’i mei guai pur mi vengon le risa. Fa’ cercar meglio per la casa se forse Melitea si fusse nascosta.

Mangone. Camina su, bestiaccia; non lasciar luogo da cercare. Ma che dispiacer feci mai a quel raguseo, ché mi avessi a trattar cosí male?

Dottore. Deve essere amico di Pirino e di Forca, e per far piacere a loro è stato ministro del tuo danno.

Mangone. Or che mi ricordo, avea una ciera di furfantaccio, d’un malandrino, d’un ladrone, e rassomigliava tutto a costui.

Panfago. Menti per la gola, ch’io non ho ciera di malandrino.

Mangone. Possa morir di mala morte, se tutto non rassomigliava a te!

Panfago. Mio padre fu raguseo, e in Raguggia ho un fratello che tutto rassomiglia a me. Io non ce ho colpa né in fatti né in parole.

Mangone. O Dio, che mi giova di essere uomo da bene, se la disgrazia mi persegue e altri invidiano il mio guadagno? Se vi dovesse spendere tutta la mia robba, io il porrò in mano del boia.

SCENA IV.

Filace, Dottore, Mangone, Panfago, Muto.

Filace. Padrone, ho ritrovato costui nascosto con le vesti di Melitea.

Mangone. Ecco qui il ladro, ecco qui l’assassino, che ancor tiene adosso le vesti di Melitea.

Dottore. Mangone, da costui si potrá sapere il fondamento del fatto.

Mangone. Vien qui, traditore; onde hai tolte le vesti, ove è colei a cui le togliesti?

Dottore. Mira come sta saldo, come se non dicesse a lui! non si degna respondere. Dimmi, dove è quella donna padrona delle vesti che tieni adosso?

Mangone. Il manigoldo finge non intender; che parliamo noi arabo o greco? Dimmi, come sei qui?

Dottore. Finge il sordo: noi parliamo ed ei mira altrove.

Mangone. Mira che ride. Fa del fastoso e alieno; or si fa beffe di noi e cava fuori la lingua.

Dottore. Balla, salta e fa atto da pazzo.

Mangone. Filace, tienlo che non ti scappi, ché ne scapperebbe la speranza di non averne a sapere mai piú il fatto come è passato.

Dottore. Finge il muto e il sordo.

Mangone. Dubito che da dovero non sia sordo e muto.

Dottore. Parlagli con i cenni e con le mani, se forse t’intende.

Mangone. Appunto. Bisogna parlargli con le mani da dovero.

Dottore. Zappiamo nell’acqua.

Mangone. Non v’accorgete della industria di Forca? S’ha servito per stromento di questa trappola d’un sordo, muto e pazzo, accioché, essendo qui ritrovato e dimandato dalla giustizia, ei non possa dar indicio di alcuna cosa.

Dottore. Chi ha fatto la pentola, ha saputo ancor far la manica. Non v’accorgete che è matto e pazzo?

Mangone. Filace, recami qui un bastone, che quel solo ha virtú di far intendere a sordi e parlare a muti.

Dottore. Mentre egli viene, io vo’ far prova se nelle pugna e ne’ calci fusse la medesima virtú. Vòlgeti qua, se non mi racconti il fatto come sia gito, arai per ora un saggio di pugna. Non vuoi rispondere? toccherai delle busse.

Mangone. Giá ti è stato detto due volte; alla terza viene il buono. Dimmi, in tua malora, chi t’ha posto in dosso queste vesti? Ragiona, se vuoi. Io... oimè, oimè, mi uccide; aiutami, aiutami, dottore!

Dottore. Oimè, che mi stringe; aiutami, Panfago!

Panfago. Oimè, dottor, aiutami, che m’ha posto le mani alla gola e mi stringe cosí forte che mi strangola, che non potrò inghiottir mai piú intieri i ravioli!

Dottore. Di nuovo è tornato a me. Panfago, dove fuggi?

Panfago. Per trovar armi e amici.

Dottore. Fermati, pazzo indemoniato, dove mi strascini?

Mangone. Tieni, para, Panfago, ché non ne scappi.

Panfago. Non vo’ impacciarmi con pazzi, io.

Mangone. Tieni, tieni!

Panfago. Lasciatelo andar in malora, che si rompa il collo!

Filace. Ecco il bastone.

Mangone. Vieni con l’armi dopo la rotta! Io vo’ andare a trovare il raguseo, chiarirmi del tutto e ricuperar il mio; tu resta guardiano della casa.

Dottore. La dovevi far guardar prima: ti porrai la celata dopo rotta la testa!

Filace. Cosí farò.

SCENA V.

Dottore, Panfago, Forca, Pirino.

Dottore. Panfago, non star piú nascosto: il pazzo è gito via.

Panfago. O a che periglio mi son oggi trovato d’esser strangolato e non poter piú mangiare! Or non poteva attaccarmisi piú tosto con i denti al naso, strapparmi l’orecchie o ficcarmi i diti negli occhi? Parve che il diavolo proprio gli drizzasse le mani alla gola per farmi dar in preda della disperazione, e che mi appicassi con le mie mani o fusse precipizio di me stesso.

Dottore. Una tempesta di pensieri non mi lascia riposare: ardo d’un doppio fuoco d’amore e d’ira: l’uno mi spinge a tor vendetta di costoro, l’altro m’incende d’amore; vorrei sfogar l’ira, ma l’amor mi tien ligato; l’ira m’inferma e il desiderio m’accende; e sí grande è l’una e l’altro, che la bilancia sta dubbia dove debba calare. Panfago, se non mi aiuti non posso riposare.

Panfago. Se prima non fo un poco di collazione e mi beva duo bicchieretti di vino, non arai ben di me tutt’oggi.

Dottore. Se mi darai modo che ricuperi Melitea e mi vendichi di costoro, ti darò tal mancia che non arai piú a morirti di fame mentre sarai vivo.

Panfago. Mi dá l’animo che la trappola che han tesa contro te scoccherá contro loro: gli faremo un tratto doppio, che avendola comperata per cinquecento ducati, l’abbi per cento, anzi per nulla.

Dottore. Tu mi curerai di due malatie, di amor, di gelosia: e dell’una risanandome, dell’altra riempiendomi di speranza. Fa’ questo, ch’io non ti mancherò di quanto ti ho promesso.

Panfago. Ascolta quanto dico.

Forca. (Giá espugnata la fortezza e soggiogati i nemici, potrai entrar in una casa e goder delle spoglie de tuoi nemici).

Pirino. (Taci, ché gli inimici ancor sono in campagna. Veggio Panfagoe il dottore a stretti ragionamenti).

Forca. (Chi sa se gli scuopre i nostri secreti?).

Pirino. (La fortuna comincia i suoi cattivi effetti: siam rovinati).

Forca. (Lo so: vorrei che dicesse cosa che non sapessi. Scostiamoci e ascoltiamo che dicono).

Panfago. Poiché costoro han tinto di carbone la faccia a Melitea e l’han fatta comprar da quel buon vecchio — e or è in casa sua, — andiamo a Filigenio, scopriamogli la veritá; essageraremo il negozio, che arderá di sdegno contro il figlio, porrá Forca in una galea, cacciará Melitea di casa sua per i capegli a bastonate.

Pirino. (Intendi?).

Forca. (Intendo, sto attento; taci).

Dottore. Egli nol crederá.

Panfago. Anzi lo crederá prima che s’apra la bocca, ché i vecchi son di natura sospetti, e giá del fatto v’è in sospetto; e quando fusse restio a crederlo, della veritá ne potremo far veder subito l’isperienza: che lavatole la faccia restará bianca e, se vuol toccar con mano se sia femina o maschio, le scalzi le brache e lo vederá.

Pirino. (O Dio, che odo, che veggio! o che fusse nato sordo e cieco! ecco disperate le mie speranze).

Forca. (Ecco rovinata l’occasione di condur ad effetto cosí bell’opera).

Dottore. Io non vo’ che la cacci altrimente; rendiamela di buona voglia, ch’io gli rimborserò i suoi cento scudi.

Panfago. Se volete far questo, vo’ che allegramente...

Pirino (O diavolo...)

Panfago. ...vi porti a casa sua...

Pirino. (...porti te, e quanti sono de’ tuoi pari).

Panfago. ...e te la consegni per la mano. Cosí gli faremo conoscere che, se la volpe è maliziosa, piú malizioso è chi la prende: ché uno pensa la volpe e altro chi ordina la tagliola.

Dottore. M’hai tirato nel tuo parere e m’hai posto in nuova speranza di riaverla. Orsú, andiamo a casa di Filigenio.

Panfago. Io l’ho visto or ora a’ Banchi: andiam per costá, che l’incontraremo per fermo. E sará bene che né Pirino né Forca ci veggia insieme; ma, mentre che stanno addormentati in tanta allegrezza né curan piú d’altro, non s’accorgano che vogliamo rovinargli e possano preveder l’apparecchio.

Pirino. O fortuna, sei piena d’aggiramenti! sperava da te mia madregna qualche effetto di madre, ma m’accorgo ch’ancor sono ammogliato con la disgrazia, perché non fo un disegno, che la fortuna non ne faccia un altro in contrario.

Forca. Ma io, sciocco ignorante, come non avessi mai fatto altra truffa, ho avuto fede ad uno che ha mancato sempre di fede.

Pirino. O Forca, Dio tel perdoni! io te ne avisai prima, che costui ci avrebbe tradito, che era uomo che parlava con tutti e d’ogni cosa che li vien in bocca; non essendosi saputo da lui, non si sarebbe saputo altronde.

Forca. Voi foste piú presto a esseguire ch’io a dirlo, e non mi deste tempo a mutar proposito.

Pirino. E quel che piú mi molesta è che l’impresa cominciata e proseguita con tanta gloria, or ci partorisca contrario effetto; e ci assassinano con l’astuzie imparate da noi.

Forca. Ho fatto quanto ho saputo e potuto, e v’è successo ogni cosa contra la vostra opinione: questo è vizio della imperfetta nostra umana natura, ché discorgendo un ingegno, per savio che sia, sempre suol restare ingannato.

Pirino. Ma cosa si ha piú astuta della disgrazia? Oimè, oimè!

Forca. Rincora te stesso e sta’ in buon animo.

Pirino. Come starò di buon animo, se ho perduto l’animo? e togliendomesi Melitea, mi si toglie l’anima mia; con la perdita di costei io perdo tutte le mie speranze: o dolore insopportabile, ecco finita ogni cosa!

Forca. Io ti dico che non è finita ogni cosa: fa’ buon cuore.

Pirino. Io son tanto atterrito dalle fortune passate e dalla disperazione delle presenti, che non oso sperar nelle cose avvenire. La nostra rappresentazione ha mutato faccia: rappresentiamo una favola contraria a quella di prima! Mio padre, in sentir questo, cacciará subito Melitea di casa, e io non arò piú animo di comparirgli dinanzi.

Forca. Ed a me bisogna far voto a san Mazzeo per la schena.

Pirino. Son in un mar di travagli; né per tanti travagli l’amor scema, anzi piú cresce: o disgrazia senza rimedio!

Forca. Dico che non è senza rimedio, né questo è tempo di consumarlo in lamenti.

Pirino. Il piangere è fatto mio famigliare.

Forca. Vo volgendo per l’animo molte cose. O bel tiro mi sovviene! facciamo cosí, ché racconciaremo l’errore e daremo miglior perfezione all’opra, anzi — o bel pensiero! — castigheremo l’ardir loro, e vostro padre ancora, per avergli dato credenza, e ci vendicheremo di Panfago, e io provederò alla mia schena: faremo tre servigi ad un tempo.

Pirino. Deh, conservator della mia vita, ritornami vivo con qualche speranza!

Forca. Andiamo a trovare il pazzo, che stará in casa di Alessandro, conduciamolo in casa tua, tingiamoli la faccia con carboni e vestimolo delle vesti che tien or adosso Melitea; e sbalziamo Melitea fuor di casa tua e conduciamola in quella di Alessandro. Qua verrá il dottore a lamentarsi con Filigenio, gli consegnerá il pazzo, pensandosi consegnargli Melitea; e se li laveranno la faccia, troveranno altro che pensano: restará l’uno e l’altro schernito, anzi verranno insieme a cattive parole. Poi troveremo un capitano di birri e faremo tor Panfago, con dir che ha rubato le vesti del schiavo e del raguseo ad Alessandro; e andaremo in casa sua, dove si troveranno, perché ivi se l’ha spogliate; e noi serviremo per testimoni: ché se non sará appicato, almeno lo faremo andar in galea in vita e ci vendicheremo di lui. Poi informaremo Alessandro del tutto e lo mandaremo a Filigenio per lo schiavo: ei gridará e gli dirá ingiurie. Alessandro gli dirá che è figlio di un gran signore; e che non s’accordi, se non gli cava di mano almen trecento scudi. E li faremo costar tanto l’aver creduto al dottore; voi ve lo restituirete in vostra grazia, ed io schivarò un maligno influsso di bastonate che mi sarebbon piovute dal Cielo.

Pirino. O Forca mio dolce, o Forca mio di zucchero, Forca che dái la vita a’ morti e non la togli a’ vivi, ho preso animo e giá con la speranza abbraccio Melitea; ma non perdiam tempo, ché potria venir mio padre.

Forca. Andate in casa, lavate la faccia a Melitea, fatele spogliar le vesti, e scampate per la porta di dietro; ch’io fra tanto vi condurrò il pazzo.

Pirino. Cosí farò: toc, toc.

SCENA VI.

Melitea, Pirino, Forca, Muto.

Melitea. Che dimandate, padron mio caro?

Pirino. Il tesoro della bellezza, la monarchia delle grazie, la dolcissima mia padrona, accioché mi rallegri cosí il cuor con la sua presenza, come gli occhi con la sua bellezza.

Melitea. In questa casa per ora non ci abita persona di tanto momento; ma se cercate una schiava nera, venduta per vilissimo prezzo, vile, brutta e disgraziata, che non ha altro in sé di buono che amore e fede, l’avete dinanzi agli occhi.

Pirino. Non cosí splende il sole, quando ha alquanto ricoperti i suoi raggi di nuvoli, come le due chiare stelle de’ vostri begli occhi lampeggiano sotto la nera tinta, che a pena posso soffrire i suoi ardentissimi lampi; né cosí i carboni rilucono sotto il cenere, come porporeggiano i vostri labrucci di rubini: anzi la tinta istessa par troppo festosa e superba nella vostra faccia, né scorgono gli occhi miei cosa piú bella di lei. Deh, lascia questo non tuo, ma suo falso colore! sparisci via, invidioso carbone, e non celar piú al mondo quella faccia di rose, quelle carni impastate di perle, quel raro paragon di bellezza, dinanzi al quale ogni cosa, per bella che sia, par brutta; e come fin ora son stato uditore della suavissima sua voce, cosí sia spettatore della sua leggiadria: e se la voce mi rallegra, quanto mi fará beato la sua bellezza?

Melitea. Queste lodi non convengono alla schiava che ben conosce il suo proprio merito, ma alla generositá dell’animo del suo padrone.

Pirino. Dove è vero amore, non ci sono lusinghe e inganni.

Forca. Padrone, questo non è tempo da scherzi: abbiam bisogno di prestezza e che i fatti prevengano le parole, se non, siam rovinati.

Melitea. Oimè, non sono ancor finiti i nostri affanni? infelici noi, quando saremo felici? abbiam scampato da ladri, dalla casa e dalle mani del ruffiano, e in casa vostra ancor temo? chi piú infelici di noi, se anco nelle felicitá siamo infelici?

Pirino. Fate conto, signora, che la fortuna per questa volta ha fatto come il buon cuoco che, per tor la soverchia dolcezza delle vivande, ci mescola un poco di agresto; cosí per aver acquistata Melitea, per moderar tanta gioia, mi fa assaggiar questo poco di molestia: però, vita mia, entriamo e spogliatevi le vesti.

Melitea. Non si potrebbe ciò far senza spogliar le vesti?

Pirino. Perché, cor mio?

Melitea. Perché avendole vestite voi prima e or vestendole io, par che da tutte le parti sia abbracciata da voi.

Forca. Entrate, signora, e senza lasciar ponto di sollecitudine avanziamogli di prestezza. Eccovi la tinta di carboni, tingete la faccia del pazzo e vestitelo de’ panni di costei; ma presto entriamo, ché veggio il dottore e Panfago e di lá spunta Filigenio. Fate presto e fuggite per la porta di dietro.

SCENA VII.

Dottore, Panfago, Filigenio.

Dottore. Sappiate, Filigenio caro, che non è sí brutto il fatto istesso, come il modo con che l’han fatto; perché si son serviti della vostra persona per intermedio della propria furfantaria, e farvi ruffiano di vostro figlio; e se nol credete, potrete or ora vederne l’esperienza, perché lavando la faccia a quello schiavo che avete in casa, diverrá bella, bianca e pulita, e se volete veder piú innanzi, la troverete femina in carne e ossa.

Panfago. E se ben, innamorato di quella puttana, la poteva aver con alcuni dinari, Pirino e Forca, per maggior vostra beffe e per ridersene fra loro alla sgangherata, se hanno voluto servir de’ vostri dinari: eccoli scelerati contro voi, ingiuriosi contro me e profani contro Iddio.

Filigenio. So che tutto è vero quanto dite, e conosco che tanto eglino sono stati astuti quanto io sciocco. Ah Forca ribaldo, ah figlio iniquo, ah traditore Alessandro! cosí sono da tutti voi egualmente beffato! Quando io diverrò savio, se a capo di sessanta anni mi lascio beffar da giovani? Or m’accorgo che quello schiavo ch’io comprai avea piú fattezze donnesche che virili, e con un parlar delicato e toscano, anzi — o sciocco me! — con un scherzevol riso, con certe cerimoniose e oscure parole significava esser innamorata di mio figlio; e io sempliciaccio non me n’accorgeva. Ma che sciocchezza fu la mia a credergli cosí subito! Veramente, quando le stelle s’accordano alla ruina di alcuno, alla prima gli togliono la prudenza. Ma io ne farò ben vendetta! Contro la puttana mi saziarò ben di schiaffi, pugna e calci e tirare de’ capelli; Forca porrò in una galea; al figlio darò perpetuo bando di casa mia. O che rabbioso sdegno! lo sdegno avanzará l’amore, la rabbia la pietade.

Dottore. Fermatevi, non bisogna alcuna di queste cose: l’error è giá fatto; delle strade cattive eleggasi la migliore.

Filigenio. Dite, di grazia, ch’io son cosí riscaldato dall’ira che dubito con qualche precipitoso consiglio non mi condur a qualche sproposito.

Dottore. Io vo’ che voi non perdiate nulla: non scacciarete il figlio e non perderete i danari; anzi con un bel fatto resteranno scherniti dal lor scherno. Rendetemi lo schiavo e io darò a voi or ora gli cento ducati.

Filigenio. Io non mi curo di perderli per saziarmi di sangue e con un castigo barbaro vendicarmi d’ingiurie sí vituperose.

Dottore. Questo non vorrei io, ch’ella non patirebbe alcun male che non lo patisca io: ecco i vostri cento scudi.

Filigenio. Questi sono i cento scudi che vi ho prestati per man di Forca?

Dottore. Che Forca? che scudi? chi v’ha dato ad intendere una simil favola?

Filigenio. Me l’ha chiesti Forca da vostra parte.

Dottore. Ho sempre un par di migliara di scudi al mio comando, che pèrdono tempo al banco.

Filigenio. Misero me, che da ogni banda sono aggirato.

Dottore. Entriamo in casa e ve li contarò.

Filigenio. Entriamo.

Dottore. Panfago, va’ a casa, apparecchia un banchetto a tuo modo, che vogliamo tutti rallegrarci: to’ gli danari.

Panfago. Sia benedetto Dio che pur m’è toccato di apparecchiare un desinare a mio modo e di far un pignato grasso.

SCENA VIII.

Pirino, Melitea, Forca.

Pirino. Non vi dogliate, vita mia, che, se ben i frutti d’amore nel principio son amari, sempre nel fin la radice è dolce. E perché in tanti travagli la fortuna non ha bastato a scompagnarci, fo fermo augurio che i Cieli v’abbino servato per me, e che saremo nostri.

Melitea. Io non mi affligo per me ma per voi, stando io sicura che mi aiutarete, se non quanto io, almeno quanto merita l’amor mio; e travaglimi la fortuna quanto gli piace.

Pirino. Vita mia, con tanta cortesia piú m’obbligate e mi sforzate ad esser piú vostro che mio, e se il destino facesse che non avesse ad esser vostro, almeno non sarò d’altri. Questo allontanarci da casa nostra non è per altro che per schivar una burasca che n’è sovragionta, che portavamo pericolo di affogarci nel porto.

Forca. Or che nôtate nel golfo delle dolcezze, non si fa piú memoria del povero Forca, cagion del vostro giubilo.

Pirino. Forca, sta’ sicuro che mentre arò core arò memoria di tanto beneficio, accioché venendo l’occasione possa premiar l’amor e la fede verso me.

Melitea. Ed io riserbo la ricompensa, quando sarò in miglior stato; ché adesso non posso mostrar segno del mio buon animo.

Forca. Ed io pregherò Iddio che mai scompagni cosí bella coppia di sposi i quali, per etá, per nobiltá e costumi e bellezza, son degnissimi l’un dell’altro. Intanto, entrate in casa di Alessandro, e il passato pericolo vi renda assai piú cauti e diligenti: ché qui, di fuori, vi potrebbe vedere il dottore o Mangone o il padre istesso, e ad una tempesta se ne aggiongerebbe un’altra. Informate Alessandro di quello che abbia a dire a vostro padre e inviatelo fuori; fra tanto io m’armerò d’una corazzina di falsitadi e di bugie, che possa star saldo ad ogni gran bòtta di veritá: e gli farò credere che voi siate il piú onesto figlio che si trovi, io un santo e i nostri emuli traditori. Ma la sua porta s’apre: sgombriamo tosto.

SCENA IX.

Dottore, Muto.

Dottore. Ecco che tocco il ciel col dito. Chi è al mondo piú felice di me, che della acquistata vittoria porto meco il trionfo e le spoglie de’ nemici, e avendola acquistata, ancor non credo di averla? Era il mio amor stato vinto da altrui astuzia, or il mio valore ha vinto l’altrui malizia. O voi che fastosamente altieri schernivate la mia semplicitá, o voi che solo pensavate sapere al mondo, ecco ch’io sovrasto a voi quanto pensavate di calcar me. O Dio, quanto è grande la forza della sua bellezza, perché non basta la nera tinta a nasconderla, anzi la rende piú chiara e piú risplendente! Lo splendor che scintilla da’ tuoi chiari soli, non bastava un uomo a sostenerlo; or fatto un poco piú opaco, ricevé tal temperamento che confortano non abbagliano, rischiarano non acciecano, avvivano non uccidono l’altrui viste. Or quanto sarai bella, quando sarai bianca divenuta? Ecco, carissima Melitea, sarai padrona della casa o mia regina; e se mi facci un figlio, mia carissima moglie, per te obliarò la perdita della mia amata consorte e la rapina dell’unica mia figliuola Alcesia. Anzi reputa, da oggi innanzi, che io sia tuo servo, e in dono ti do tutta la mia robba e me medesimo. Che dici, cor mio? rispondi, dolce anima mia; fa’ che senta il suono di quelle parole che solo portano consolazione all’anima mia. Ma tu ridi, scherzi e balli: o che allegrezza, o che giubilo ha d’esser scampata dalle mani di quello importuno e fastidioso di Pirino, ed esser in mio potere! Sempre mi son accorto, ben mio, che tu mi amavi: è del tuo sommo giudicio sprezzar i giovani e amar uomini di consiglio e di riputazione. Ma perché non entro, non volo in casa mia, in camera, in letto? Entra, vita mia: questa è tua casa.

SCENA X.

Filigenio, Forca.

Filigenio. La ragion n’insegna, l’esperienza ne dimostra, l’autoritá ne conferma che camina piú tardi un bugiardo che un zoppo. Quel scelerato di Forca mi avea dato ad intendere molte girandole; ma non sono state molto tempo a scoprirsi. Ma ecco il liberator delle puttane, il venditor de’ liberi per schiavi, l’ingannator de’ ruffiani, l’assassino de’ vecchi, la ruina de’ giovani, la fucina e l’architetto d’inganni, e la forca che conduce gli uomini alla forca; e che rispondi?

Forca. Io non posso trovar cosí belle parole per ringraziarvi di cosí illustri titoli che mi date.

Filigenio. Io non so che dir piú, né posso dir tanto che non sia mille volte piú di quel che dico.

Forca. A chi fo male io?

Filigenio. Agli amici, agli inimici, a quanti puoi.

Forca. Nessuno stima questo di me.

Filigenio. Perché tutti lo tengono per fermo.

Forca. Quei che sono cattivi, stimano che tutti gli altri sieno cattivi.

Filigenio. Dunque, io son un tristo che stimo te il piú tristo uomo del mondo?

Forca. Non dico questo io, né è convenevole a un servo dirlo: ma guardatevi che non lo dica altri a cui piú conviene. (A tuo dispetto ti sommergerò in un mar di bugie, e se scamperai da un scoglio, romperai in un altro). Padrone, voi mi avete per un tristo, perché son troppo buono: ché a tempi d’oggi per esser stimato buono dal tuo padrone, bisogna rubbarlo, assassinarlo a tutto suo potere. Ma perché mi stimate cosí tristo, che effetto cattivo avete di me veduto?

Filigenio. Puoi negar tu che non sia il maggior ribaldo del mondo?

Forca. A me non convien negarlo né affermarlo: ché negandolo farei voi bugiardo, e affermandolo direi bugia. Ma io nacqui al mondo sotto cattivo pianeta, assai disgraziato. Ma se voi deposta la còlera e l’ira, volete intendere il vero, il dico liberamente: e vo’ che siate il mio giudice, poi ch’io purgherò le mie calunnie, e m’averete per un uomo da bene.

Filigenio. Vien qua, rispondimi a quanto ti domando.

Forca. Eccomi.

Filigenio. Non hai tu tinto la faccia di carboni a mio figlio e vendutolo al ruffiano? poi tinta la faccia di carboni alla puttana, e l’hai fatta comprar da me, facendomi pregar da Alessandro?

Forca. Giesú! vostro figlio va libero per la cittá con la faccia bianca per testimonio della veritá e di colui che vi ha detto il contrario. Ma ditemi, di grazia, la puttana, che avete comprata con la faccia tinta, l’avete lavata la faccia per scoprir la veritá?

Filigenio. Non io.

Forca. Perché dunque, per far la prova delle altrui astuzie e della mia furfantaria, non faceste tal esperienza? Dio vel perdoni! ché, chiarito della veritá, or con giusta cagione avresti cagione di uccidermi di bastonate, disgraziar vostro figlio e dolervi di Alessandro senza scusa.

Filigenio. Non m’hai tu chiesto cento scudi per dargli al dottore, con darmi ad intendere che voleva rifiutar la puttana?

Forca. Voi li avete dati a me, io al dottore.

Filigenio. Egli m’ha detto che ciò non fu mai, e che ha duomila scudi al banco per suo servigio.

Forca. Chiamo in testimonio Iddio!

Filigenio. Chiami in testimonio chi è tuo nemico capitale.

Forca. Dubito che v’abbia negato questo per farsi qualche altra somma di maggior importanza: però state in cervello, perché è un gran baro, vostro nimico, del figlio e mio; e dubito che non ve l’abbi attaccata giá; e faccia Dio che il mio dubitar sia vano!

Filigenio. Ma a vostro dispetto io ho ricoverati i miei cento ducati e scacciata la puttana di casa.

Forca. Che cento scudi? che puttana?

Filigenio. Quella che m’avea pregato Alessandro ch’avesse comprata per lui.

Forca. O padrone, avete avuto gran torto creder piú ad un bugiardo che ad Alessandro, gentiluomo amico e mio vicino. Com’egli sappia questo, s’adirerá con voi.

Filigenio. Tu sei un gran ladro.

Forca. Sarò piú tosto un grande indovino.

Filigenio. Tu pensi aggirarmi di nuovo, ma non m’aggirerai.

Forca. È vero, perché sète stato aggirato giá.

Filigenio. Sempre tu meschi un poco di veritá per darmi ad intendere una gran bugia.

Forca. Ed or avete creduta una gran bugia senza punto di veritá. Vi dico il vero, non vi sono adulatore, se non l’avete per male; ma Iddio m’aiutará.

Filigenio. Iddio non aiuta forfanti pari tuoi.

Forca. Ma ecco Alessandro. Oh, siate il ben venuto: da lui potrete intendere il vero.

SCENA XI.

Alessandro, Filigenio, Forca.

Alessandro. Vengo desioso a trovar Filigenio mio amicissimo.

Filigenio. Anzi capitalissimo inimico; e vo’ piú tosto l’odio di molti, che la tua amicizia, ...

Alessandro. Questo è un principio d’una grande ingiuria.

Filigenio. ... poiché cosí trattate gli amici vostri.

Alessandro. Oimè, che dite?

Filigenio. Il vero. Con iscusa che fate piacere ad un mio figliuolo, fate a lui e a me un grandissimo dispiacere.

Alessandro. Questa è una maniera di notarmi d’infideltá, e queste parole pungenti fanno disconvenevole ogni convenevolezza, e io da ogni persona aspetterei di udir simili parole fuorché da voi, il qual non offesi mai in cosa alcuna, se pur non ho offeso in averlo soverchiamente riverito e onorato.

Filigenio. Cose indegne di buon vicino.

Alessandro. La sinceritá della mia fede credo l’avete veduta agli effetti.

Filigenio. Non merita questo l’amore.

Alessandro. Lassatemi dire.

Filigenio. Non voglio.

Alessandro. Ascoltate.

Filigenio. Non piú parole.

Alessandro. Io, io...

Filigenio. Anzi io...

Alessandro. Tacete, che non sapete quello che voglia dire.

Filigenio. Né voi sapete quello che voglio rispondere. Non meritava questo l’amor che vi ho portato; e v’ho stimato gentiluomo, né vi diedi cagion mai di dolervi di me, ma servirvi di quanto ho potuto.

Alessandro. Confesso aver ricevuto da voi molti favori, e confesso parimente non averli riserviti non per mancamento d’animo, ma d’occasione.

Filigenio. Voi me l’avete resi con iniquo cambio che non sarebbe stato fatto ad un turco; ma dice bene il proverbio: che molti benefici fanno un uomo ingrato.

Alessandro. Orsú, perché avete sfogata l’ira con ingiuriarmi, sarebbe di ragione, se non prima, mi dicesti la cagione di che vi dolete di me; perché le vostre parole mi sono ferite mortali che mi trapassano il core. Non mi fate piú penare.

Filigenio. Guarda simulazione.

Alessandro. In che v’ho offeso, accusandomi tanto d’ingratitudine?

Filigenio. Anzi di sfacciataggine e di furfantaria.

Alessandro. Ah, dir cosí sfacciatamente mal degli uomini è ufficio di tirannica lingua! però, di grazia, ponete freno alla lingua nell’ingiuriarmi, accioché non la scioglia allo sdegno per difendermi.

Filigenio. Perché, con iscusa di farmi comprar un schiavo per un vostro amico, me avete fatto comprar l’amica del mio figliuolo e fattalami condurre a casa?

Alessandro. Mi fo la croce; overo ciò dite per schernirmi, o forse vi movete da alcuna falsa informazione.

Forca. Vedrete, padrone, che tutto sará falsitá quanto vi è stato detto.

Filigenio. Ed in cose di niente farmi ruffiano di mio figlio?

Alessandro. Ditemi se di giá avete comprato lo schiavo e dove sia.

Filigenio. L’avea comprato giá e ridotto a casa; poi, venuto il dottore, mi disse ch’era la bagascia di mio figlio, tinta la faccia di carboni, vestita da maschio; l’ho cacciata di casa e lasciatala a lui.

Alessandro. O Dio, che cosa mi dite? O fortuna traditora, a che son condotto! io son il piú disperato uomo del mondo! Sappiate che il dottore è mio capital nemico, e per cagion di costui non l’ho voluto comprar io, ma pregatone voi, accioché mi aveste a ciò favorito.

Forca. Che vi dissi, padrone?

Alessandro. Vo’ scoprirvi l’importanza. Gli mesi a dietro, in una battaglia navale si fe’ giornata tra il re di Marocco e il re di Borno: fu sconfitto il re di Borno, e il figlio, il quale è costui, fuggendo in una nave sbattuta dalla furia della tempesta, venne in Italia; non essendo conosciuto, fu venduto per ischiavo. I suoi parenti han perciò inviato trentamila scudi per lo suo riscatto e restituirlo al suo reame. Il dottor ha lettere del re de’ mori per inviarlo a lui: avendolo in mano, o lo fará morire in una prigione o li taglierá la testa. Onde il dottore, per guadagnarsi questi danari, m’ha fatto il tradimento.

Filigenio. Egli m’ha dato i cento scudi. Eccoli qui.

Alessandro. Io non vo’ ricevere altramente i cento scudi; ma vo’ lo schiavo overo oprare in modo me si restituisca.

Filigenio. Come può esser che il fatto non sia fatto? Io non stimava tal cosa: essendo come voi dite, io mi pento di averlo venduto.

Alessandro. A che mi giova ora il vostro pentimento? Convien ad un uomo della qualitá ed esperienza che voi sète, dar cosí subita credenza ad un uomo senza onore e senza anima, che con un velo d’ipocresia cuopre ogni sua sceleraggine, e stima, non dico me, ma vostro figlio che è un de’ piú gentili giovani della cittá nostra, per un tristo uomo?

Forca. Non vi dissi ch’era vostro inimico?

Filigenio. Ecco i cento scudi.

Alessandro. Or questa sarebbe bella: per cento scudi pagarne trentamila! Egli se li guadagnará, e mandará quel povero giovane al macello overo ad una perpetua prigionia; ed io volea restituirlo al suo regno.

Filigenio. Ho peccato semplicemente; confesso l’errore, e se vi piace, confermare con giuramento la mia ignoranza. Poiché siam qui, facciasi quel che si può per rimediarci.

Alessandro. Se avevate comprato lo schiavo in nome mio e con i miei danari, quello era mio, e voi non avevate piú potestá sovra quello; e avendolo venduto, sará in vostro pregiudizio, perché avete venduto quello che non era vostro. L’error vi costerá caro. Andrò a’ superiori e mi farò far giustizia: forse sarete condannato agli interessi.

Filigenio. Dio me ne guardi! ecco i vostri danari.

Alessandro. Io non gli torrò per non far pregiudicio alle mie ragioni. Andrò a Sua Eccellenza, raccontarò il fatto: ella dará ordine di quello che ará a farsi. M’incresce nell’anima ch’abbia a venir con voi, che v’ho stimato mio padre e padrone, a termini cosí fatti.

Filigenio. O Iddio, che intrighi son questi ove mi trovo? Va’, Forca, e vedi se puoi far nulla.

Forca. Padron, perdonatemi, sète stato frettoloso a credere ed estimar vostro figlio e un amico come Alessandro, un assassino — ché l’uno vi fu sempre ubidientissimo e l’altro venti anni un buon vicino, — e me per un ladro, che v’ho servito venti anni fedelmente.

Filigenio. Eccoti i cento scudi: almeno non arò rimordimento di conscienza di aver fatto cosa con malizia. Togli anco questa catena d’oro che val quattrocento, e vedi si puoi rimediare.

Forca. Non lascierò tentar per ogni via, per amor vostro. Io vo.

Filigenio. Camina.

SCENA XII.

Dottore, Filigenio, Panfago, Muto.

Dottore. Fermati, Filigenio, non entrare ancora: avemo a trattare alcune cose insieme.

Filigenio. Pur hai animo comparirmi dinanzi, giuntatore: non vedo io che porti scolpita nella fronte la sfacciataggine?

Dottore. Che hai tu meco? vuoi esser forse il primo a gridare, per mostrar in un certo modo che abbi ragione o dar qualche color di giustizia alla tua ingiustizia?

Filigenio. Mi dai ad intendere che lo schiavo era la bagascia di mio figlio, ed era il figlio del re di Borno, qual con inganno m’hai tolto di mano per farlo essere decapitato?

Dottore. Che re di Borno, che decapitare? io non so se tu stai ne’ tuoi sensi. Io pensava riscattar la mia innamorata Melitea; poi, avendola condotta a casa e lavatagli la faccia, ho ritrovato un maschio e altro di quel che pensava: eccolo qui.

Filigenio. Chi è dunque?

Dottore. Tanto ne so io quanto tu.

Filigenio. O Dio, che girandole son queste? che vuoi tu dunque da me?

Dottore. Che ti togli il tuo schiavo e mi torni i miei cento scudi.

Filigenio. Che so io se lo schiavo che m’hai tolto di casa sia quel che mi rimeni?

Dottore. Che so io che Melitea che fu portata in casa vostra non sia stata scambiata e posto costui in suo luogo?

Filigenio. Eccomi diversamente incappato in una lunga rete di artifici: e quanto piú cerco svilupparmene, piú mi ci trovo dentro, senza trametter tempo di mutar consiglio. Se tu non stavi sicuro che fusse quella che desiavi, a che venire a chiederlami con tanta voglia?

Dottore. E se non stavi securo che fusse l’innamorata di tuo figlio, perché subito non consignarlami?

Filigenio. Io dubito che con l’arte non vogliate schernir l’arte. Ma vien qua: chi sei tu che ti hai lasciato vendere? perché non rispondi? di’, parla. Sta saldo, come se a lui non dicessi.

Panfago. Non vedi che con le mani fa ufficio della lingua, e con tacito parlar dice che non sa nulla?

Dottore. Non so che voglia dir, io. Panfago, dove vai?

Panfago. Questo è quel pazzo di poco anzi, nol conoscete?

Dottore. Certo che mi par quello: ride, salta e cava fuor la lingua.

Panfago. Scampa, dottore, ché non ti còglia un’altra volta.

Filigenio. Vien qui. Dimmi: chi sei tu? parlavi poco anzi come un filosofo; come hai or cosí perduta la lingua? Se non rispondi, ti rompo la testa. Oimè, oimè; aiuto, aiuto, ché costui non m’ammazzi! Chi mi ha portato costui dinanzi? a me con beffe? sarò uomo da vendicarmene.



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