< La clemenza di Tito
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Interlocutori Atto secondo

ATTO PRIMO

SCENA I

Logge a vista del Tevere negli appartamenti di Vitellia.

Vitellia e Sesto.

Vitellia. Ma che! sempre l’istesso,

Sesto, a dir mi verrai? So che sedotto
fu Lentulo da te; che i suoi seguaci
son pronti giá; che il Campidoglio acceso
dará moto a un tumulto, e sará il segno
onde possiate uniti
Tito assalir; che i congiurati avranno
vermiglio nastro al destro braccio appeso,
per conoscersi insieme. Io tutto questo
giá mille volte udii: la mia vendetta
mai non veggo però. S’aspetta forse
che Tito a Berenice in faccia mia
offra, d’amore insano,
l’usurpato mio soglio e la sua mano?
Parla! di’! che s’attende?
Sesto.   Oh Dio!
Vitellia.   Sospiri?
Intenderti vorrei. Pronto all’impresa
sempre parti da me; sempre ritorni
confuso, irresoluto. Onde in te nasce

questa vicenda eterna

d’ardire e di viltá?
Sesto.   Vitellia, ascolta:
ecco, io t’apro il mio cor. Quando mi trovo
presente a te, non so pensar, non posso
voler che a voglia tua; rapir mi sento
tutto nel tuo furor; fremo a’ tuoi torti;
Tito mi sembra reo di mille morti.
Quando a lui son presente,
Tito, non ti sdegnar, parmi innocente.
Vitellia. Dunque...
Sesto.   Pria di sgridarmi,
ch’io ti spieghi il mio stato almen concedi.
Tu vendetta mi chiedi;
Tito vuol fedeltá. Tu di tua mano
con l’offerta mi sproni; ei mi raffrena
co’ benefizi suoi. Per te l’amore,
per lui parla il dover. Se a te ritorno,
sempre ti trovo in volto
qualche nuova beltá; se torno a lui,
sempre gli scopro in seno
qualche nuova virtú. Vorrei servirti;
tradirlo non vorrei. Viver non posso,
se ti perdo, mia vita; e, se t’acquisto,
vengo in odio a me stesso.
Questo è lo stato mio: sgridami adesso.
Vitellia. No, non meriti, ingrato!
l’onor dell’ire mie.
Sesto.   Pensaci, o cara,
pensaci meglio. Ah! non togliamo, in Tito,
la sua delizia al mondo, il padre a Roma,
l’amico a noi. Fra le memorie antiche
trova l’egual, se puoi. Fingiti in mente
eroe piú generoso o piú clemente.
Parlagli di premiar: poveri a lui
sembran gli erari sui.

Parlagli di punir: scuse al delitto

cerca in ognun. Chi all’inesperta ei dona,
chi alla canuta etá. Risparmia in uno
l’onor del sangue illustre; il basso stato
compatisce nell’altro. Inutil chiama,
perduto il giorno ei dice,
in cui fatto non ha qualcun felice.
Vitellia. Ma regna.
Sesto.   Ei regna, è ver; ma vuol da noi
sol tanta servitú quanto impedisca
di perir la licenza. Ei regna, è vero;
ma di sí vasto impero,
tolto l’alloro e l’ostro,
suo tutto il peso, e tutto il frutto è nostro.
Vitellia. Dunque a vantarmi in faccia
venisti il mio nemico; e piú non pensi
che questo eroe clemente un soglio usurpa
dal suo tolto al mio padre?
che m’ingannò, che mi ridusse (e questo
è il suo fallo maggior) quasi ad amarlo?
E poi, perfido! e poi di nuovo al Tebro
richiamar Berenice! Una rivale
avesse scelta almeno
degna di me fra le beltá di Roma:
ma una barbara, o Sesto,
un’esule antepormi! una regina!
Sesto. Sai pur che Berenice
volontaria tornò.
Vlitellia.   Narra a’ fanciulli
codeste fole. Io so gli antichi amori;
so le lagrime sparse allor che quindi
l’altra volta partí; so come adesso
l’accolse e l’onorò. Chi non lo vede?
il perfido l’adora.
Sesto.   Ah! principessa,
tu sei gelosa.

Vitellia.   Io!

Sesto.   Sí.
Vitellia.   Gelosa io sono,
se non soffro un disprezzo?
Sesto.   E pure...
Vitellia.   E pure
non hai cor d’acquistarmi.
Sesto.   Io son...
Vitellia.   Tu sei
sciolto d’ogni promessa. A me non manca
piú degno esecutor dell’odio mio.
Sesto. Sentimi!
Vitellia.   Intesi assai.
Sesto.   Férmati!
Vitellia.   Addio.
Sesto. Ah, Vitellia! ah, mio nume!
non partir. Dove vai?
Perdonami, ti credo: io m’ingannai.
Tutto, tutto farò. Prescrivi, imponi,
regola i moti miei:
tu la mia sorte, il mio destin tu sei.
Vitellia. Prima che il sol tramonti,
voglio Tito svenato, e voglio...

SCENA II

Annio e detti.

Annio.   Amico,

Cesare a sé ti chiama.
Vitellia.   Ah! non perdete
questi brevi momenti. A Berenice
Tito gli usurpa.
Annio.   Ingiustamente oltraggi,

Vitellia, il nostro eroe: Tito ha l’impero

e del mondo e di sé. Giá per suo cenno
Berenice partí.
Sesto.   Come!
Vitellia.   Che dici!
Annio. Voi stupite a ragion. Roma ne piange
di meraviglia e di piacere. Io stesso
quasi noi credo; ed io
fui presente, o Vitellia, al grande addio.
Vitellia. (Oh speranze!)
Sesto.   Oh virtú!
Vitellia.   Quella superba
oh, come volentieri udita avrei
esclamar contro Tito!
Annio.   Anzi giammai
piú tenera non fu. Partí; ma vide
che adorata partiva e che al suo caro
men che a lei non costava il colpo amaro.
Vitellia. Ognun può lusingarsi.
Annio.   Eh! si conobbe
che bisognava a Tito
tutto l’eroe per superar l’amante.
Vinse, ma combatté. Non era oppresso,
ma tranquillo non era; ed in quel volto,
dicasi per sua gloria,
si vedea la battaglia e la vittoria.
Vitellia. (E pur forse con me, quanto credei,
Tito ingrato non è.) (a parte a Sesto) Sesto, sospendi
d’eseguire i miei cenni. Il colpo ancora
non è maturo.
Sesto. (con isdegno)  E tu non vuoi ch’io vegga...
ch’io mi lagni, o crudele...
Vitellia. (con i sdegno)  Or che vedesti?
di che ti puoi lagnar?
Sesto. (con sommissione)  Di nulla. (Oh Dio!
chi provò mai tormento eguale al mio?)

Vitellia.   Deh! se piacer mi vuoi,

     lascia i sospetti tuoi;
     non mi stancar con questo
     molesto — dubitar.
          Chi ciecamente crede,
     impegna a serbar fede;
     chi sempre inganni aspetta,
     alletta — ad ingannar. (parte)

SCENA III

Sesto ed Annio.

Annio. Amico, ecco il momento

di rendermi felice. All’amor mio
Servilia promettesti. Altro non manca
che d’Augusto l’assenso. Ora da lui
impetrar lo potresti.
Sesto.   Ogni tua brama,
Annio, m’è legge. Impaziente anch’io
son che alla nostra antica
e tenera amicizia aggiunga il sangue
un vincolo novello.
Annio.   Io non ho pace
senza la tua germana.
Sesto.   E chi potrebbe
rapirtene l’acquisto? Ella t’adora;
io sino al giorno estremo
sarò tuo; Tito è giusto.
Annio.   Il so, ma temo.
               Io sento che in petto
          mi palpita il core,
          né so qual sospetto
          mi faccia temer.

               Se dubbio è il contento,

          diventa in amore
          sicuro tormento
          l’incerto piacer. (parte)

SCENA IV

Sesto solo.

Numi assistenza! A poco a poco io perdo

l’arbitrio di me stesso. Altro non odo
che il mio funesto amor. Vitellia ha in fronte
un astro che governa il mio destino.
La superba lo sa, ne abusa; ed io
né pure oso lagnarmi. Oh sovrumano
poter della beltá! Voi, che dal cielo
tal dono aveste, ah! non prendete esempio
dalla tiranna mia. Regnate, è giusto;
ma non cosí severo,
ma non sia cosí duro il vostro impero.
          Opprimete i contumaci;
     son gli sdegni allor permessi:
     ma infierir contro gli oppressi!
     questo è un barbaro piacer.
          Non v’è trace in mezzo a’ traci
     sí crudel, che non risparmi
     quel meschin che getta l’armi,
     che si rende prigionier. (parte)

SCENA V

Innanzi, atrio del tempio di Giove Statore, luogo giá celebre per le adunanze del senato; indietro, parte del fòro romano, magnificamente adornato d’archi, obelischi e trofei; da’ lati, veduta in lontano del monte Palatino e d’un gran tratto della via Sacra; in faccia, aspetto esteriore del Campidoglio, e magnifica strada per cui vi si ascende.

Nell’atrio suddetto saranno Publio, i senatori romani e i legati delle province soggette, destinati a presentare al senato gli annui imposti tributi. Mentre Tito, preceduto da’ littori, seguito da’ pretoriani, accompagnato da Sesto e da Annio, e circondato da numeroso popolo, scende dal Campidoglio, cantasi il seguente

Coro.   Serbate, o dèi custodi

          della romana sorte,
          in Tito, il giusto, il forte,
          l’onor di nostra etá.
               Voi gl’immortali allori
          su la cesarea chioma,
          voi custodite a Roma
          la sua felicitá.
               Fu vostro un sí gran dono;
          sia lungo il dono vostro;
          l’invidi al mondo nostro
          il mondo che verrá.

Sulla fine del coro suddetto giunge Tito nell’atrio, e nel tempo medesimo Annio e Sesto da diverse parti.

Publio. Te «della patria il padre» (a Tito)

oggi appella il senato; e mai piú giusto
non fu ne’ suoi decreti, o invitto Augusto.
Annio. Né padre sol, ma sei
suo nume tutelar. Piú che mortale
giacché altrui ti dimostri, a’ voti altrui
comincia ad avvezzarti. Eccelso tempio

ti destina il senato; e lá si vuole

che fra divini onori
anche il nume di Tito il Tebro adori.
Publio. Quei tesori che vedi,
delle serve province annui tributi,
all’opra consacriam. Tito non sdegni
questi del nostro amor pubblici segni.
Tito. Romani, unico oggetto
è dei voti di Tito il vostro amore;
ma il vostro amor non passi
tanto i confini suoi,
che debbano arrossirne e Tito e voi.
Piú tenero, piú caro
nome che quel di padre
per me non v’è; ma meritarlo io voglio,
ottenerlo non curo. I sommi dèi,
quanto imitar mi piace,
abborrisco emular. Li perde amici
chi li vanta compagni, e non si trova
follia la piú fatale
che potersi scordar d’esser mortale.
Quegli offerti tesori
non ricuso però: cambiarne solo
l’uso pretendo. Udite. Oltre l’usato
terribile il Vesevo ardenti fiumi
dalle fauci eruttò; scosse le rupi;
riempie’ di ruine
i campi intorno e le cittá vicine.
Le desolate genti
fuggendo van; ma la miseria opprime
quei che al fuoco avanzâr. Serva quell’oro
di tanti afflitti a riparar lo scempio.
Questo, o romani, è fabbricarmi il tempio.
Annio. Oh vero eroe!
Publio.   Quanto di te minori
tutti i premi son mai, tutte le lodi!

Coro.   Serbate, o dèi custodi

     della romana sorte,
     in Tito, il giusto, il forte,
     l’onor di nostra etá.
Tito. Basta, basta, o quiriti.
Sesto a me s’avvicini; Annio non parta;
ogni altro si allontani.

Si ritirano tutti fuori dell’atrio, e vi rimangono Tito, Sesto ed Annio.

Annio.   (Adesso, o Sesto,

parla per me.)
Sesto.   Come, signor, potesti
la tua bella regina...
Tito.   Ah, Sesto, amico,
che terribil momento! Io non credei...
Basta, ho vinto: partí. Grazie agli dèi!
Giusto è ch’io pensi adesso
a compir la vittoria. Il piú si fece:
facciasi il meno.
Sesto.   E che piú resta?
Tito.   A Roma
toglier ogni sospetto
di vederla mia sposa.
Sesto.   Assai lo toglie
la sua partenza.
Tito.   Un’altra volta ancora
partissi e ritornò. Del terzo incontro
dubitar si potrebbe; e, finché vuoto
il mio talamo sia d’altra consorte,
chi sa gli afletti miei
sempre dirá ch’io lo conservo a lei.
Il nome di regina
troppo Roma abborrisce. Una sua figlia
vuol veder sul mio soglio;
e appagarla convien. Giacché l’amore
scelse invano i miei lacci, io vuo’ che almeno

l’amicizia or gli scelga. Al tuo s’unisca,

Sesto, il cesareo sangue. Oggi mia sposa
sará la tua germana.
Sesto. Servilia?
Tito.   Appunto.
Annio.   (Oh me infelice!)
Sesto.   (Oh dèi!
Annio è perduto.)
Tito.   Udisti?
Che dici? Non rispondi?
Sesto.   E chi potrebbe
risponderti, o signor? M’opprime a segno
la tua bontá, che non ho cor... Vorrei...
Annio. (Sesto è in pena per me.)
Tito.   Spiègati. Io tutto
farò per tuo vantaggio.
Sesto. (Ah! si serva l’amico.)
Annio.   (Annio, coraggio!)
Sesto. Tito!... (risoluto)
Annio. (risoluto) Augusto, io conosco
di Sesto il cor. Fin dalla cuna insieme
tenero amor ne stringe. Ei, di se stesso
modesto estimator, teme che sembri
sproporzionato il dono; e non s’avvede
ch’ogni distanza eguaglia
d’un Cesare il favor. Ma tu consiglio
da lui prender non déi. Come potresti
sposa elegger piú degna
dell’impero e di te? Virtú, bellezza,
tutto è in Servilia. Io le conobbi in volto
ch’era nata a regnar. De’ miei presagi
l’adempimento è questo.
Sesto. (Annio parla cosí! Sogno o son desto?)
Tito. E ben! recane a lei,
Annio, tu la novella; e tu mi siegui,
amato Sesto, e queste

tue dubbiezze deponi. Avrai tal parte

tu ancor nel soglio, e tanto
t’innalzerò, che resterá ben poco
dello spazio infinito,
che frapposer gli dèi fra Sesto e Tito.
Sesto. Questo è troppo, o signor. Modera almeno,
se ingrati non ci vuoi,
modera, Augusto, i benefizi tuoi.
Tito. Ma che! se mi negate
che benefico io sia, che mi lasciate?
          Del piú sublime soglio
     l’unico frutto è questo:
     tutto è tormento il resto,
     e tutto è servitú.
          Che avrei, se ancor perdessi
     le sole ore felici
     che ho nel giovar gli oppressi,
     nel sollevar gli amici,
     nel dispensar tesori
     al merto e alla virtú? (parte)

SCENA VI

Annio e poi Servilia.

Annio. Non ci pentiam. D’un generoso amante

era questo il dover. Se a lei, che adoro,
per non esserne privo,
tolto l’impero avessi, amato avrei
il mio piacer, non lei. Mio cor, deponi
le tenerezze antiche. È tua sovrana
chi fu l’idolo tuo. Cambiar conviene
in rispetto l’amore. Eccola. Oh dèi!
mai non parve sí bella agli occhi miei.

Servilia. Mio ben...

Annio.   Taci, Servilia. Ora è delitto
il chiamarmi cosí.
Servilia.   Perché?
Annio.   Ti scelse
Cesare (che martír!) per sua consorte.
A te (morir mi sento!), a te m’impose
di recarne l’avviso (oh pena!), ed io...
io fui... (parlar non posso)... Augusta, addio!
Servilia. Come! Férmati! Io sposa
di Cesare! E perché?
Annio.   Perché non trova
beltá, virtú che sia
piú degna d’un impero, anima... Oh stelle!
che dirò? Lascia, Augusta,
deh! lasciami partir.
Servilia.   Cosí confusa
abbandonar mi vuoi? Spiègati, dimmi:
come fu? per qual via?...
Annio. Mi perdo s’io non parto, anima mia.
          Ah! perdona al primo affetto
     questo accento sconsigliato:
     colpa fu del labbro, usato
     a chiamarti ognor cosí.
          Mi fidai del mio rispetto,
     che vegliava in guardia al core;
     ma il rispetto dall’amore
     fu sedotto e mi tradí. (parte)

SCENA VII

Servilia sola.

Io consorte d’Augusto! In un istante

io cambiar di catene! Io tanto amore
dovrei porre in obblio! No, sí gran prezzo
non val per me l’impero.
Annio, non lo temer; non sará vero.
               Amo te solo;
          te solo amai:
          tu fosti il primo;
          tu pur sarai
          l’ultimo oggetto
          che adorerò.
               Quando sincero
          nasce in un core,
          ne ottien l’impero,
          mai piú non muore,
          quel primo affetto
          che si provò. (parte)

SCENA VIII

Ritiro delizioso nel soggiorno imperiale sul colle Palatino.

Tito e Publio con un foglio.

Tito. Che mi rechi in quel foglio?

Publio.   I nomi ei chiude
de’ rei che osar, con temerari accenti,
de’ Cesari giá spenti
la memoria oltraggiar.

Tito.   Barbara inchiesta,

che agli estinti non giova, e somministra
mille strade alla frode
d’insidiar gl’innocenti! Io da quest’ora
ne abolisco il costume; e, perché sia
in avvenir la frode altrui delusa,
nelle pene de’ rei cada chi accusa.
Publio. Giustizia è pur...
Tito.   Se la giustizia usasse
di tutto il suo rigor, sarebbe presto
un deserto la terra. Ove si trova
chi una colpa non abbia, o grande o lieve?
Noi stessi esaminiam. Credimi: è raro
un giudice innocente
dell’error che punisce.
Publio.   Hanno i castighi...
Tito. Hanno, se son frequenti,
minore autoritá. Si fan le pene
familiari a’ malvagi. Il reo s’avvede
d’aver molti compagni; ed è periglio
il pubblicar quanto sian pochi i buoni.
Publio. Ma v’è, signor, chi lacerare ardisce
anche il tuo nome.
Tito.   E che perciò? Se il mosse
leggerezza, nol curo;
se follia, lo compiango;
se ragion, gli son grato; e se in lui sono
impeti di malizia, io gli perdono.
Publio. Almen...

SCENA IX

Servilia e detti.

Servilia.   Di Tito al piè...

Tito.   Servilia! Augusta!
Servilia. Ah! signor, sí gran nome
non darmi ancora: odimi prima. Io deggio
palesarti un arcan.
Tito.   Publio, ti scosta,
ma non partir. (Publio si ritira)
Servilia.   Che del cesareo alloro
me, fra tante piú degne,
generoso monarca, inviti a parte,
è dono tal, che desteria tumulto
nel piú stupido core. Io ne comprendo
tutto il valor. Voglio esser grata, e credo
doverlo esser cosí. Tu mi scegliesti,
né forse mi conosci. Io, che, tacendo,
crederei d’ingannarti,
tutta l’anima mia vengo a svelarti.
Tito. Parla.
Servilia.   Non ha la terra
chi piú di me le tue virtudi adori:
per te nutrisco in petto
sensi di meraviglia e di rispetto.
Ma il cor... Deh! non sdegnarti.
Tito.   Eh! parla.
Servilia.   Il core,
signor, non è piú mio: giá da gran tempo
Annio me lo rapí. L’amai che ancora
non comprendea d’amarlo, e non amai
altri finor che lui. Genio e costume
uní l’anime nostre. Io non mi sento
valor per obbliarlo. Anche dal trono

il solito sentiero

farebbe a mio dispetto il mio pensiero.
So che oppormi è delitto
d’un Cesare al voler; ma tutto almeno
sia noto al mio sovrano:
poi se mi vuol sua sposa, ecco la mano.
Tito. Grazie, o numi del ciel! Pure una volta
senza larve sul viso
mirai la veritá. Pur si ritrova
chi s’avventuri a dispiacer col vero.
Servilia, oh qual contento
oggi provar mi fai! quanta mi porgi
ragion di meraviglia! Annio pospone
alla grandezza tua la propria pace!
Tu ricusi un impero
per essergli fedele! Ed io dovrei
turbar fiamme sí belle? Ah! non produce
sentimenti sí rei di Tito il core.
Figlia, ché padre invece
di consorte m’avrai, sgombra dall’alma
ogni timore. Annio è tuo sposo. Io voglio
stringer nodo sí degno. Il ciel cospiri
meco a farlo felice; e n’abbia poi
cittadini la patria eguali a voi.
Servilia. O Tito! o Augusto! o vera
delizia de’ mortali! io non saprei
come il grato mio cor...
Tito.   Se grata appieno
esser mi vuoi, Servilia, agli altri inspira
il tuo candor. Di pubblicar procura
che grato a me si rende,
piú del falso che piace, il ver che offende.
          Ah! se fosse intorno al trono
     ogni cor cosí sincero,
     non tormento un vasto impero,
     ma saria felicitá.

          Non dovrebbero i regnanti

     tollerar sí grave affanno,
     per distinguer dall’inganno
     l’insidiata veritá. (parte)

SCENA X

Servilia e Vitellia.

Servilia. Felice me!

Vitellia.   Posso alla mia sovrana
offrir del mio rispetto i primi omaggi?
Posso adorar quel volto,
per cui, d’amor ferito,
ha perduto il riposo il cor di Tito?
Servilia. (Che amaro favellar! Per mia vendetta
si lasci nell’inganno.) Addio. (in atto di partire)
Vitellia.   Servilia
sdegna giá di mirarmi!
Oh dèi! partir cosí! cosí lasciarmi!
Servilia.   Non ti lagnar s’io parto,
     o lágnati d’Amore,
     che accorda a quei del core
     i moti del mio piè.
          Alfin non è portento
     che a te mi tolga ancora
     l’eccesso d’un contento,
     che mi rapisce a me. (parte)

SCENA XI

Vitellia, poi Sesto.

Vitellia. Questo soffrir degg’io

vergognoso disprezzo? Ah, con qual fasto
giá mi guarda costei! Barbaro Tito!

ti parea dunque poco

Berenice antepormi? Io dunque sono
l’ultima de’ viventi? Ogni altra è degna
di te, fuor che Vitellia? Ah, trema, ingrato!
trema d’avermi offesa! Oggi il tuo sangue...
Sesto. Mia vita.
Vitellia.   E ben, che rechi? Il Campidoglio
è acceso? è incenerito?
Lentulo dove sta? Tito è punito?
Sesto. Nulla intrapresi ancor.
Vitellia.   Nulla! E sí franco
mi torni innanzi? e con qual merto ardisci
di chiamarmi tua vita?
Sesto.   È tuo comando
il sospendere il colpo.
Vitellia.   E non udisti
i miei novelli oltraggi? Un altro cenno
aspetti ancor? Ma ch’io ti creda amante,
dimmi, come pretendi,
se cosí poco i miei pensieri intendi?
Sesto. Se una ragion potesse
almen giustificarmi...
Vitellia.   Una ragione!
Mille ne avrai, qualunque sia l’affetto,
da cui prenda il tuo cor regola e moto.
È la gloria il tuo voto? Io ti propongo
la patria a liberar. Frangi i suoi ceppi;
la tua memoria onora;
abbia il suo Bruto il secol nostro ancora.
Ti senti d’un’illustre
ambizion capace? Eccoti aperta
una strada all’impero. I miei congiunti,
gli amici miei, le mie ragioni al soglio
tutte impegno per te. Può la mia mano
renderti fortunato? Eccola! corri,
mi vendica, e son tua. Ritorna asperso

di quel perfido sangue; e tu sarai

la delizia, l’amore,
la tenerezza mia. Non basta? Ascolta,
e dubita, se puoi. Sappi che amai
Tito finor; che del mio cor l’acquisto
ei t’impedí; che, se rimane in vita,
si può pentir; ch’io ritornar potrei,
non mi fido di me, forse ad amarlo.
Or va’: se non ti muove
desio di gloria, ambizione, amore;
se tolleri un rivale,
che usurpò, che contrasta,
che involar ti potrá gli affetti miei,
degli uomini il piú vil dirò che sei.
Sesto. Quante vie d’assalirmi!
Basta, basta, non piú! Giá m’inspirasti,
Vitellia, il tuo furore. Arder vedrai
fra poco il Campidoglio; e questo acciaro
nel sen di Tito... (Ah, sommi dèi, qual gelo
mi ricerca le vene!)
Vitellia.   Ed or che pensi?
Sesto. Ah, Vitellia!
Vitellia.   Il previdi:
tu pentito giá sei...
Sesto.   Non son pentito;
ma...
Vitellia.   Non stancarmi piú. Conosco, ingrato,
che amor non hai per me. Folle ch’io fui!
Giá ti credea, giá mi piacevi, e quasi
cominciavo ad amarti. Agli occhi miei
invólati per sempre,
e scòrdati di me.
Sesto.   Férmati! io cedo;
io giá volo a servirti.
Vitellia.   Eh! non ti credo.
M’ingannerai di nuovo. In mezzo all’opra
ricorderai...

Sesto.   No: mi punisca Amore,

se penso ad ingannarti.
Vitellia. Dunque, corri! Che fai? perché non parti?
Sesto.   Parto; ma tu, ben mio,
     meco ritorna in pace.
     Sarò qual piú ti piace;
     quel che vorrai farò.
          Guardami, e tutto obblio,
     e a vendicarti io volo.
     Di quello sguardo solo
     io mi ricorderò. (parte)

SCENA XII

Vitellia, poi Publio.

Vitellia. Vedrai, Tito, vedrai che alfin sí vile

questo volto non è. Basta a sedurti
gli amici almen, se ad invaghirti è poco.
Ti pentirai...
Publio.   Tu qui, Vitellia? Ah! corri:
va Tito alle tue stanze.
Vitellia. Cesare! E a che mi cerca?
Publio.   Ancor nol sai?
Sua consorte ti elesse.
Vitellia.   Io non sopporto,
Publio, d’esser derisa.
Publio. Deriderti! Se andò Cesare istesso
a chiederne il tuo assenso.
Vitellia. E Servilia?
Publio.   Servilia,
non so perché, rimane esclusa.
Vitellia.   Ed io...
Publio. Tu sei la nostra Augusta. Ah! principessa,
andiam: Cesare attende.

Vitellia.   Aspetta. (Oh dèi!)

Sesto?... (Misera me!) Sesto?... (verso la scena) È partito.
Publio, corri... raggiungi...
digli... No. Va’ piuttosto... (Ah! mi lasciai
trasportar dallo sdegno.) E ancor non vai?
Publio. Deve?
Vitellia.   A Sesto.
Publio.   E dirò?
Vitellia.   Che a me ritorni;
che non tardi un momento.
Publio. Vado. (Oh, come confonde un gran contento!) (parte)

SCENA XIII

Vitellia.

Che angustia è questa! Ah! caro Tito, io fui

teco ingiusta, il confesso. Ah! se frattanto
Sesto il cenno eseguisse, il caso mio
sarebbe il piú crudel... No, non si faccia
sí funesto presagio. E se mai Tito
si tornasse a pentir?... Perché pentirsi?
perché l’ho da temer? Quanti pensieri
mi si affollano in mente! Afflitta e lieta,
godo, torno a temer, gelo, m’accendo;
me stessa in questo stato io non intendo.
          Quando sará quel dí,
     ch’io non ti senta in sen
     sempre tremar cosí,
     povero core?
          Stelle, che crudeltá!
     un sol piacer non v’è,
     che, quando mio si fa,
     non sia dolore. (parte)

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