< La commedia degli equivochi
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William Shakespeare - La commedia degli equivochi (1594)
Traduzione dall'inglese di Carlo Rusconi (1859)
Atto secondo
Atto primo Atto terzo

ATTO SECONDO


SCENA I.

Una piazza pubblica.

Entrano Adriana e Luciana.

Adr. Nè mio marito, nè il servo che gli avea mandato dietro, ritornano. È certo, Luciana, saranno oramai le due.

Luc. Forse qualche mercante l’avrà invitato, ed ei sarà ito a pranzare altrove. Cara sorella, desiniamo noi pure, e non v’impazientite. Gli uomini dispongono della loro libertà. Non v’è che il tempo che li domini: onde abbiate pazienza.

Adr. Ma perchè la loro libertà deve essere più estesa della nostra?

Luc. Perchè i loro negozii son sempre fuori di casa.

Adr. E quando io voglio comportarmi al par dì lui, egli l’ha in mala parte.

Luc. Non dimenticate mai, sorella, che un marito tien le redini della vostra libertà.

Adr. Non vi sono che bestie stupide che possano lasciarsi padroneggiare così.

Luc. La libertà senza freno è sempre accoppiata colla sventura. Non v’è nulla sotto l’occhio del Cielo che non vada soggetto a certe leggi. Gli animali, i pesci, gli uccelli son sottomessi ai loro maschi, e si inchinano dinanzi alla loro autorità; l’uomo più vicino a Dio, Re di quanto esiste. Signore del vasto mondo e dell’umido impero dei mari, dotato d’intelligenza e di un’anima immortale, di un grado assai al disopra dei pesci e degli uccelli, è padrone di sua moglie, è il suo supremo signore: sottomettetevi perciò, sottomettetevi.

Adr. È forse questa schiavitù che fa che non vogliate maritarvi?

Luc. No: ma la croce congiunta al letto nuziale.

Adr. Ma se foste maritata dovreste assoggettarvi.

Luc. Prima che impari ad amare, vuo’ imparare ad obbedire.

Adr. E se vostro marito si perdesse altrove?

Luc. Finch’ei non ritornasse, starei paziente.

Adr. Finchè la pazienza non è intorbidata, ella puote usarsi: è facile essere uniti quando nulla ci si oppone: un’anima sventurata è consigliata spesso a rassegnarsi. Ma se noi fossimo oppressi dal medesimo fardello di dolori e di sventure, ci lagneremmo del pari, o fors’anche più. Voi che non avete un marito bisbetico pretendete consolarmi, raccomandandomi una pazienza vana e inefficace: ma se vivete abbastanza per subire il mio destino, quell’imbelle pazienza sarà rigettata da voi.

Luc. Vuo’ maritarmi un giorno, non fosse per altro che per provarlo. Ma ecco il vostro servo che ritorna: vostro marito non dovrebb’essere lontano. (entra Dromio di Efeso)

Adr. E il tuo padrone viene una volta? Rispondi, che intenzioni ha?

Drom. Egli mi ha stampate le sue intenzioni sulle guancie. Maledetta sia la sua mano! ho durata molta fatica a comprenderlo.

Adr. Parlava in modo sì equivoco che tu non potessi indagare il suo pensiero?

Drom. Oh! parlava abbastanza chiaro.

Adr. É in via per tornar qui? Davvero che si prende grandi cure di me!

Drom. Signora, il mio padrone dev’essere pazzamente geloso.

Adr. Che osi tu, malandrino?

Drom. Non dirò ch’egli abbia ragione per esserlo: ma certo lo è. Quando l’ho pregato per venir a pranzo, mi ha dimandato mille marchi d’oro. È tempo di desinare, gli ho detto io: il mio oro mi ha risposto. — Le vivande bruciano, gli ho detto; il mio oro, ha continuato egli. — Volete rientrare? gli dissi. Il mio oro, soggiunse sempre; dove sono i mille marchi, che ti diedi, scellerato? il maialetto di latte, gli ho detto, si abbrucia. — Il mio oro, il mio oro, mi ha risposto continuamente. — La mia padrona, signore... il diavolo la tua padrona; non so chi sia; al diavolo.

Luc. Egli disse così?

Drom. Così disse. Non conosco nè casa, nè moglie, nè padrona. E dopo tale dichiarazione mi venne una tempesta di botte, che ne porto ancor i lividi.

Adr. Torna da lui subito, miserabile, e riconducilo a casa.

Drom. Sì, torna da lui, per farti flagellare di nuovo. In nome di Dio, mandateci qualcun altro.

Adr. Vuoi tu obbedirmi, o debbo romperti il capo?

Drom. Che egli mi guarirà, doppiandomi le percosse: talchè fra voi due sarò bene acconciato.

Adr. Parti, cianciatore, e riconduci a casa il tuo padrone.

Drom. Fu mai uomo egualmente posto fra tale incudine e tal martello? (esce)

Luc. Su via, non vedete come la collera altera il vostro viso?

Ant. Ei se ne starà dunque colle sue nuove amanti, intantochè io derelitta anelerò ad uno dei suol sguardi? Il tempo distruttore ha egli rapito qualche vezzo alle mie guancie? Il mio consorzio è meno piacevole? Il mio spirito è fatto più arido? Ah! s’io non ho più la mia allegria, è la sua insensibilità più dura del marmo che ha appasita la mia imaginazione. Se quelle doti io non ho più, furono le sue durezze che me le tolsero. Sì, fu esso solo che fe’ cangiare i miei lineamenti. Un solo dolce raggio dei suoi occhi rianimerebbe la mia bellezza e la farebbe rifiorire. Ma indocile e bollente come il cervo in amore, egli varca i suoi ripari, e corre lungi in traccia di nuovi pascoli. Io, sfortunata! io non son più che il mantello che servo a cuoprire le sue infedeltà.

Luc. Oh gelosia! passione che offende e altri e sè. Sorella, sbanditela dal vostro cuore.

Adr. Non vi sono che le donne insensate che possano perdonare sì fatti oltraggi. Io so che i suoi occhi recano altrove l’omaggio della sua tenerezza; sè ciò non fosse qual cagione gl’impedirebbe di starsene al fianco della sua sposa? Il gioiello meglio legato smarrisce alla fine il suo splendore: l’oro col tempo si macchia e si logora, sebben dicasi di no: non v’è uomo, per quanto nobile, che non commetta infedeltà. Poichè la mia bellezza non ha più alcun incantò a’ suoi occhi, offuscherò colle lagrime quel che me ne rimane, e morirò piangendo.

Luc. Di quali propositi insensati non è capace una smania gelosa! escono)

SCENA II.

La stessa.

Entrano Antifolo di Siracusa.

Ant. L’oro ohe affidai a Dromio è deposto in sicurezza nell’albergo del Centauro, e il compiacente mio servo è andato ad errare per la città in traccia del suo signore. Eccolo che ritorna. (entra Dromio di Siracusa) Ebbene, che ne dici ora? Hai lasciata la mania delle tue beffe? Se ti piacciono le percosse, non devi che riprender le tue celie con me. Conosci ora il Centauro? Confessi di aver ricevuto dell’oro? La tua padrona ti manda in traccia di ma pel pranzo? L’albergo mio è anche alla Fenice? Avevi smarrita la ragione per farmi risposte così stravaganti?

Drom. Quali risposte, signore, di grazia? Quando mai vi parlai io in tal modo?

Ant. Un momento fa, in questo medesimo luogo.

Drom. Io non v’aveva più riveduto, dacchè mi mandaste al Centauro colla somma affidatami.

Ant. Come, furfante? Tu mi negasti d’aver ricevuto quel deposito, e mi parlasti di non so qual signora, di non so qual pranzo, e d’altre follie di cui t’ho, spero, assai bene guarito.

Drom. Mi piace di vedervi di così lieto umore: ma a che tende questo scherzo? Vi prego, signor mio, di spiegarvi.

Ant. Tu vuoi schernirmi ancora? Tu credi ch’io celii? Guarda s’io fo da senno.

Drom. Fermatevi, signore, in nome di Dio! In verità, la vostra beffa diviene ora una cosa assai grave. Qual ragione avete per battermi così?

Ant. Perchè io qualche volta ho la bontà d’intrattenermi teco famigliarmente di cianciare con te, la tua insolenza dovrà prendersi di me tal sollazzo? Giusto è quando il sole splende che gli insetti aleggino ne’ suoi raggi, ma essi si debbono ascondere allorohè egli ritira la sua luce. Quando tu vorrai ricrearti con me, esamina il mio volto, interroga la mia fisonomia, e conforma la tua condotta a’ miei sguardi, o io ti farò entrare per forza la mia lezione nella testa.

Drom. Ma di grazia, signore, perchè mi battete?

Ant. Non lo sai ancora?

Drom. No, veramente, signore.

Ant. no, veramente, signore.

Ant. Debbo io dirti perchè?

Drom. Sì, avvegnachè ogni cosa ha il suo perchè.

Ant. Prima di tutto, per esserti beffato di me: poi, per esser tornato con quella faccia asciutta.

Drom. Fu mai alcun innocente manomesso più di me?

Ant. Bando alle celie, e dimmi se è ora di pranzo. Ma aspetta; chi è che ne fa cenno di là in fondo? (entrano Adriana e Luciana)

Adr. Sì, sì, Antifolo, prendi un aspetto feroce e malcontento: tu riserbi i tuoi dolci sguardi per qualch’altra amante: io non sono più la tua Adriana, la tua cara sposa. Vi fu un tempo in cui da te stesso, e senz’esservi eccitato, tu giuravi che non vi era musica più gradita al tuo orecchio della mia voce, che non v’era oggetto più caro ai tuoi occhi di me che l’immagine mia ti stava ognora scolpita nel cuore. Come avviene dunque ora che tu ti sia tanto mutato? Come ti sei così diviso da me? Ah! non abbandonarmi, perchè, sii certo che ti sarebbe più facile il lasciar cadere una goccia d’acqua nell’Oceano, e il ritramela pura ed intatta, che il separarti da me, senza rapirmi la vita. Oh quanto il tuo cuore gemerebbe, se tu udissi soltanto dire ch’io fossi infedele, e che questo corpo che t’è consacrato, contaminato fosse da impure voluttà! Non mi opprimeresti tu allora col tuo disprezzo, non mi schiaccieresti sotto i tuoi piedi, non faresti valere il nome di marito, non strapperesti l’anello nuziale dalla mia perfida mano, operando un eterno divorzio con me? Io so che tu lo puoi: ebbene, fallo dunque fin d’ora, perchè io sono lorda d’una macchia adultera, il mio sangne è corrotto, avvegnachè se noi non formiamo che un solo essere, e che tu mi sia infedele, io partecipo al veleno che scorre per le tue vene, e divengo disonorata per contagio del tuo delitto. Che se tu mantieni il tuo giuramento e fedele rimani al tuo letto legittimo, allora solo io vivo senza macchia, e tu senza disonore.

Ant. È egli a me che s’indirizza tal discorso, bella dama? Io non vi conosco. Non son due ore dacchè giunsi in Efeso, e sono straniero alla vostra città come alle vostre parole. Per quanto mi sforzi, non giungo a comprendere una sola delle cose che avete proferite.

Luc. Via, fratello; tacete! Perchè trattate così mia sorella? Ella v’ha mandato a cercare col mezzo di Dromio, per desinare.

Ant. Col mezzo di Dromio?

Drom. Di me?

Adr. Di te; che per risposta mi portasti, ch’ei t’aveva battuto, ripudiando la sua casa e sua moglie.

Adr. Avesti qualche conferenza con questa signora? Come si scioglie tutto questo sviluppo?

Drom. Io, signore, non l’ho mai vista fuorchè in questo momento.

Ant. Tu menti, furfante, perchè mi recasti in verità quell’ambasciata ch’ella ha detto.

Drom. Io non aveva mai parlato con lei in vita mia.

Ant. Come può ella dunque così sapere i nostri nomi?

Adr. Quanto s’addice male alla vostra gravità un tal giuoco! Sia pure mia colpa se voi vi dividete da me. Ma almeno non aggravate tale offesa col disprezzo. Io mi stringerò al tuo braccio: tu sei l’olmo, mio caro sposo, ed io la vite, la di cui debolezza è sostenuta dal tuo vigore: se qualche oggetto giunge a staccarti da me, non può essere che un selvaggio aborto, che una pianta sterile e maledetta che infetterà la tua esistenza, e ti cuoprirà d’obbrobrio.

Ant. È a me ch’ella parla, e io son commosso dai suoi discorsi! Mi sarei dunque ammogliato in sogno, o dormirei adesso? Quale errore mi affascina e mi toglie l’intelletto? Fino a che non ne venga in chiaro, vuo’ piacermi dell’errore in cui verso.

Luc. Dromio, va a dire ai domestici di mettere in tavola.

Drom. Oh il mio rosario! ch’io mi munisca del segno dei peccatori, perchè questo è un paese d’incantesimi. Dio sia con noi! Noi parliamo a spettri, a genii maligni. Se non obbediamo ad essi, ci trasformeranno chi sa in quali belve.

Luc. Che mormori tu invece di rispondere, sciocco, lumaca, testugine?

Drom. Ecco fatta la mia metamorfosi. Son io divenuto una bestia, signori?

Ant. Credo che la tua anima sia mutata come la mia.

Drom. In verità, signore, anima e corpo tutto è trasformato.

Ant. Tu conservi la tua figura e la tua prima forma.

Drom. No, io son divenuto una scimmia.

Luc. Se sei cambiato in qualche cosa, è in ciuco che ti sei mutato.

Drom. È vero: essa mi guida, ed io anelo di pascere pei prati. Sì, io sono un ciuco, altrimenti non potrebb’essere che non la conoscessi così bene com’ella conosce me.

Adr. Oh! io non sarò più così pazza da piangere, allorchè il valletto e il padrone ridono dei miei mali, e mi dìsprezzano. Su via, signore, venite a pranzo: Dromio, pensa a custodire la porta. Marito, io desinerò oggi da sola a solo con te, e ti costringerò a confessarmi tutte le tue infedeltà. — Se qualcuno viene a chiedere il tuo signore, digli ch’egli desina fuori, e non lasciar entrare nessuno. Venite, sorella. Dromio, sii vigilante.

Ant. Sono io in terra, in cielo, o in inferno? Dormo, o veglio? Son pazzo o in senno? Mi conoscono esse, o sono sconosciuto a me medesimo? — Su via; dirò come loro, e li seconderò; sarà lieta la ventura che m’aspetta fra queste tenebre.

Drom. Padrone, farò da portiere?

Ant. Sì; nè lasciare entrare alcuno, se non vuoi ch’io ti rompa le ossa.

Luc. Andiamo, Antifolo, desineremo ancora troppo tardi. (escono)

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