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AVVERTIMENTO
Ripubblico la mia Critica Moderna correggendone alcune parti e compiendone alcune altre. Il concetto dominante del libro è quello di «relazione»; la più. vasta e la più feconda scoperta del secolo decimonono, che ornai si fa via per tutte le scienze biologiche, ed è destinata a cangiare i poli del pensiero e del sentimento. Il modo del trattarlo non appartiene che a me.
La natura e la storia non sono che un gruppo di relazioni; ora la relazione non è accidente nei fenomeni ma legge organica; non dimezza l'essere in due mondi opposti, fermandosi in un giro d’allucinazioni che non oltrepassano mai la scorza dei sensi inabili a penetrare il reale trascendente ed impervio. L’essere, per la scienza, è uno, ma non si distende di là dai fenomeni; non è il residuo eterno campato fuori di loro, ma vi si esprime facendoli veri nel cervello. Le profonde energie della natura si dischiudono tutte da essi; il «numeno» del Kant, se ben si guardi, non istà di per se come un termine fìsso, ma si sposta sempre attraverso il tempo e lo spazio; il numeno di ieri si converte nel fenomeno d’oggi.
Il concetto di relazione sul quale punta la mia Critica Moderna, è un concetto scettico, giacche manifesta la totalità dei fenomeni in cui e per cui Y essere migra ascendendo a forme più alte e più idealmente vere di se.
L’unità del mio libro è qui tutta.
Non sarei giusto se mi lamentassi d’averlo scritto or fa cinque anni, gittandolo in mezzo ai bollori filosofici del mio paese. E affermerò colla santa baldanza che sdegna le ipocrisie del sentimento: al mio paese non ispiacque un libro ribelle ad ogni giogo di scuole e di chiese. Io volli aprire una via alla circolazione intellettuale, volli restaurare in Italia quella critica che si fondasse sopra un concetto scientifico, dimostrare la connessione di tutti i problemi storici, educare nella gioventù il senso moderno, e le mie idee non rimasero inefficaci.
I vecchi archimandriti, chiusi nel loro polipaio medievale, continuarono gli anatemi incruenti; ma i migliori intelletti della gioventù contemporanea mi salutarono come fratello, e da ogni parte dell’Italia mi arrivarono le loro voci che a me parevano il concento dell’avvenire.
Fu questa redenzione degli spiriti che m’infiammò il desiderio, mi consolò nella solitudine, mi sostenne contro la guerra impenitente delle sette, e mi fece tetragono ai colpi d’avversari o ignoranti o perfidi o sciocchi.
Nessuno più di me riconosce i difetti del mio libro, e nessuno è più pronto ad accusarsene con una confessione sincera. Ma la gioventù contemporanea comprese che io lo scrissi coll’ardor dello spirito devoto al vero, che io rivelava quel che ciascuno avea confusamente nella propria coscienza; ed in me amò l’intelletto franco, la fede inestinguibile nell’ideale.
Che giova la scienza se non si converte in sentimento il quale rinnovi l’uomo che vi sagrifica la sua miglior parte? che giova ripescare le reliquie disseminate per il passato, se non edifichiamo dentro di noi la coscienza vivente? L’intelletto non partorisce i suoi frutti divini se non si ammoglia ad una volontà che li fecondi in se stessa. Il vero scoperto non dee lasciarmi assiderato ed inerte sulla via della ragione; ei deve entrarmi per tutte le vene, riaccenderne le virtù creatrici, concedermi una lingua possente per annunciarlo nei secoli.
Dirà qualcheduno: «mettiti il piombo ai piedi, o cercatore improvvido, e non fabbricarti le sintesi alate che si spennerebbero ai primi voli, a somiglianza delle reni d’Icaro.» Ben so che all’analisi scientifica conviene andar cauta; e guai se si piacesse nelle scorribande uraniche di là dai fenomeni. Ma se tenesse il piombo eternamente ai piedi, non salirebbe giammai a quella sintesi piena in cui si compendia e s’infutura lo spirito umano.
Ora la creazione scientifica è appunto una sintesi; basta saperla trovare nelle relazioni dei fenomeni stessi. Non di rado la sintesi ha un valore ipotetico, ma che sarebbe la scienza se tu ne rimovessi ogni ipotesi? agglomerazione meccanica di fatti, non organismo di idee che si rispondono insieme in un tutto. Chi non possedè l’intuizione d’un idea, non iscoprirà nulla di grande nel giro della scienza come in quello dell’arte. La rivelazione del vero contiene sempre in se stessa una, direi quasi, polarità ideale.
Perchè dunque le virtù che dormono nel mio cervello, come i raggi di sole negli ipogei fossili del carbone, non si commoveranno a quella rivelazione? perchè la mia coscienza si starà muta all’avvicinarsi del nuovo ospite che la scienza le porge? Non accusiamo la scienza se ci lascia inabili a trasmetterla come salute d’intelletti redenti, accusiamo noi stessi della viltà nostra, ed affrettiamoci a scuoterla dal collo.
Non risposi, ne risponderò, a certe critiche, le quali mostrano in chi le ha fatte quella frivolità petulante che abbonda, pur troppo, da noi. Vi è un pudore scientifico che dee serbarsi inviolato in faccia a coloro che noi comprendono.
Quanto alle critiche di avversari onesti e maturati negli studi, io le domandai sempre e le ridomando; quel diritto che uso liberamente cogli altri, vorrei che si usasse liberamente con me più che non s’è fatto.
Da noi manca la circolazione efficace delle idee, i libri meditati a lungo si sfogliano svogliatamente ma non si riproducono nel cervello come in un vaglio operoso. Il dogmatismo non è per anco diradicato dal campo scientifico, e il danno che ne viene è immenso. Per ciò fra le accuse alle quali fui segno, quella sopra tutte mi pesa di parere dogmatico. Voi, mi si disse, affermate sempre e non provate mai; il concetto del vostro libro è un’ipotesi e voi l’accettate come un assioma; voi seguitate le audacie degli stranieri, avete mutato giogo e barattate le penne, rimanendo sempre apostolo della vostra fede, non interprete della scienza.
Una tale accusa, ripetuta più volte contro di me, non solo dagli avversari ma pur dagli amici che in gran parte consentivano alle mie idee, mi fe’ dubitare di me stesso, e patii qualche ora d’eclissi ben dolorosa. Rifrugai nella mia esperienza intellettuale, cercando se qualche avanzo del vecchio Adamo si nascondesse per entro le pieghe del mio cervello.
Io era pronto a strapparmelo se l’avessi cólto. Chi sa? potrebbe ritrovarsi anche in me quel dogmatismo inconscio di cui tutti, più o meno, siamo rei. Ciascuna setta filosofica scomunica fieramente le altre avverse, ciascuna afferma ciò che le par vero, e lo afferma con quel fanatismo atroce che non vede altre vie di salute fuor dalla sua. Chi è dunque senza peccato scagli, se può, la pietra omicida. V’è un, direi quasi, stillicidio d’intolleranza che si trafora da ogni libro, da ogni discorso. Ci manca la maturità serena dell’intelletto che interroga il vero e lo porge agli altri, non fra i tuoni procellosi del Sinai ma fra gli splendori quieti dell’Olimpo. Anche in me riconosco i segni della colpa comune e li condanno.
Ma se affermando la grande dottrina dell’evoluzione, avvalorata da tante prove dedotte dalle scienze biologiche, si sdrucciola nel dogmatismo, allora io non comprendo più nulla di ciò che noi sia. L’evoluzione è un’ipotesi come la gravitazione che nessuno provò direttamente, quantunque nessuno dubiti della sua verità scientifica, perchè con essa tu intendi que’ fatti che fuori da lei sarebbero enigmi; al modo stesso l’evoluzione è vera perchè con essa si comprende la natura e la storia, senza interporvi quelle cause trascendenti che sono la parte impossibile della scienza moderna.
Ma altro è il dogmatismo altro la fede ardente e piena nel vero. A questa fede, superstite sola ai tanti naufragi patiti, io mi serberò devoto, portandola come un viatico santo nel mio pellegrinaggio terrestre.
Bettolle, 25 Ottobre 1879 (Toscana).