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ATTO I.
SCENA I.
Nepita, Essandro sotto nome e abito di Fioretta fantesca.
Nepita. Non può esser mai pace in una famiglia, quando vi capita qualche fantesca di cattiva condizione. Da che ha posto piede in casa questa maladetta Fioretta, non ci è stata piú ora di bene. È stata mezana tra Cleria mia figliana e uno Essandro suo parente, che l’ha ridotta a divenir pazza e a menar vita da disperata; s’è attaccata a far l’amor col padron vecchio, e ha posto tanta gelosia tra lui e la moglie che stiamo tutti in scompiglio; l’ha tolto a me, che pur qualche voltarella mi recreava, di che mi scoppia il cuor di gelosia. Ma dove mi sei sparita dagli occhi, mona Fioretta? Mi vai tutto il giorno passeggiando con i guanti alle mani come una gentildonna: cosí si serve? cosí si mangia il pan d’altri, eh?
Essandro. Nepita, come tu sei stracca di travagliar te stessa, attendi a travagliar gli altri: giocherei che non sai quel che vogli o non vogli.
Nepita. Voglio che ti scalzi i guanti, vadi a lavar le scudelle, a nettar le pignate, a vôtar i destri e a far gli altri servigi di casa, intendi?
Essandro. Cleria padrona mi ha invitata per i suoi servigi.
Nepita. Son scuse tue. T’arai data la posta con qualche famigliaccio da stalla e or lo vai a trovar cosí mattino.
Essandro. Misuri gli altri con la tua misura. Questa arte dovevi far tu, quando eri giovane.
Nepita. E ti par dunque ch’or sia vecchia?
Essandro. Mi par, no; lo tengo per certo, sí.
Nepita. Dunque hai per certo che sia vecchia?
Essandro. Tu stessa il dici.
Nepita. Menti per la gola: odoro piú io morta che tu non puzzi viva, e a tuo dispetto son piú aggraziata di te.
Essandro. Io non son bella né mi curo d’esserci, e mi contento come mi fece Iddio.
Nepita. Se tu ti contentassi come ti fece Dio, non consumaresti tutto il giorno ad incalcinarti la faccia e a dipingerlati di magra, e col vetro o col fil torto trarti i peli del mustaccio. Or puossi dir peggio che femina barbuta? Poi hai una voce rauca, che par ch’abbi gridato alle cornacchie. Sfacciata che sei!
Essandro. Questa arte m’hai tu forzata a farla, e non devresti ingiuriarmi di cosa di che tu sei stata cagione.
Nepita. Mira con quanta superbia mi favella e mi viene con le dita sugli occhi ancora! Pensi che sia alcuna ricolta dal fango e non si sappi donde mi sia, come tu sei?
Essandro. Nepita, tu hai altro con me e mi vai cosí aggirando il capo.
Nepita. Poiché siam venute su questo, vo’ che il dica: se non, che ci daremo infino a tanto delle pugna che ne sputiamo i denti.
Essandro. Ti duoli di me che t’abbi tolto il padron vecchio Gerasto, che prima era tuo innamorato.
Nepita. Oh, lo dicesti pure!
Essandro. Ma se tu sapessi la cosa come va, non mi porteresti tanto odio, non aresti gelosia di me e m’amaresti come amo io te.
Nepita. Io non ho gelosia di fatti tuoi. Ma se questo fusse... .
Essandro. Se prometti tenermi secreta e aiutarmi, oh quanto seria meglio per te!
Nepita. Che mi vuoi far vedere, che sei vergine?
Essandro. Ti scoprirò cosa che non pensasti mai.
Nepita. Piglia da me ogni sicurezza che vuoi.
Essandro. Ma avèrti che son cose d’importanza, non da pugne ma da pugnali, e importa l’onor di tua figliana.
Nepita. Parla presto, non mi far stare piú sospesa, non mi far consumare.
Essandro. Prestami l’orecchia.
Nepita. Eccole tutt’e due, te siano donate.
Essandro. Tu pensi ch’io sia femina, e io son maschio.
Nepita. E può esser questo vero?
Essandro. Come ascolti, e si può toccar la veritá con la mano.
Nepita. Come non m’hai fatto prima toccar con la mano questa veritá?
Essandro. Non son còlto dal fango o dalla vil feccia del populazzo, come tu dici; ch’io son genovese. E se ben devrei tacer la famiglia per non macchiar lo splendor di tanta nobiltá con la mia mattezza, pur vo’ scoprirlati. Son di Fregosi.
Nepita. Perché in questo abito? che util cavi di questa pazzia?
Essandro. Lo saprai, se m’ascolti. Fuggendo di Roma di casa di mio zio Apollione che, per non esser ito alla scuola, promise battermi, me ne venni qui in Napoli dove, appena giunto, Amor mostrandomi Cleria, la tua figliana, al suo primo apparir ricevei con tanta forza le sue divine bellezze nel cuore, che altro contento non arei potuto desiar in questa vita che vedermi sazi pur una volta gli occhi di mirarla. Prima feci ogni sforzo a me stesso per distormi da tal pensiero, ma tutto fu vano; ché il male era tanto impresso nel vivo che ogni rimedio faceva contrario effetto, piú accresceva la doglia e piú inacerbiva le piaghe. Onde per non morirmi di passione, poiché l’esser sbarbato mi porgeva la comoditá, mi vestii da femina e m’introdussi a servir questa casa. ...
Nepita. Chi ti consigliò questo? chi ti diè tanta audacia?
Essandro. Amor mi fu consigliero, Amor mi diè l’ardimento e di sua mano mi pose questo abito adosso, Amor mi fe’ il sensale e mi condusse a servirla.
Nepita. O Dio, che cosa ascolto!
Essandro. ... Entrato che fui dentro, tu ben sai con quanta diligenza abbi servito la casa, e principalmente la mia divina padrona; sí che in poco spazio di tempo le son divenuto cosí grato che sempre ragiona meco: m’ha scoverto tutti i suoi segreti e postomi tutte le sue cose in mano, non vuole che altri la spogli e la lavi, mi bacia e mi fa tante carezze che, se fossi nella mia forma, non le saprei desiderar maggiori. ...
Nepita. Dunque sei giunto a quanto desiavi, sei felicissimo.
Essandro. ... Ahi, che non fussi mai stato! Ho fatto come l’infermo che sempre appetisce quel che gli nòce. Pensava io miserello che, accostandomi a quello incendio onde tutto brugiava, la mia focosa brama fusse estinta; ma io mi sento piú acceso che mai. Son avampato di sorte che non fu mai fiamma, combattuta da venti, cosí ardente come questa alma. Ardo nel fuoco ch’io medesimo m’ho fatto, e come fenice mi rinuovo nella mia fiamma. Or conosco che di tutti gli umani desidèri solo l’amoroso è insaziabile. Onde, avendo gustato cosí dolcissima donna, mi par impossibile il poter vivere senza lei. ...
Nepita. Dunque l’hai gustata, eh?
Essandro. Dunque non si può gustare senza conoscerla?
Nepita. Come hai potuto contenerti?
Essandro. ... Io, vedendo ch’ella era vergine e che non sentiva ancora di cose di amore, dubitai che, scoprendomele, l’avesse manifestato a suo padre o madre che m’avessero scacciato di casa, e la mia temeritá m’avesse posto a rischio di farmi perdere tanto bene. Mi parve piú sicuro soffrire e godere quanto poteva. Anzi, alcuna volta veggendola star allegra, volli scoprirle ch’io era uomo e l’inganno che aveva usato per servirla; ma delle parole, che prima m’avea preparate attissime a manifestarle il mio stato, parte vituperava e parte mutava; alfin, avampato di rossore, restava mutolo. Ed ella mi pregava che finisse il ragionamento, non pensando dove avesse a riuscire.
Nepita. Sei stato un bel grosso a non manifestarti!
Essandro. Anzi niuna cosa mi fe’ restio se non l’esser stimato da lei per un grosso.
Nepita. Non dubitar che alle donne piacciono piú questi uomini di grosso ingegno che quelli di delicato e sottile, per esser troppo fastidio a trattar con loro che nel piú bel maneggiargli o si torcono o si spezzano. Ma come ponno star insieme due cose contrarie? se tu sei innamorato di Cleria, come sei ruffiano di Essandro, quel tuo parente?
Essandro. Or saprai il tutto. ... Stando in questi dubbi, Amor che non lascia mai perir i suoi seguaci, mi scoverse un modo come avessi potuto sicuramente tentar l’animo e il suo onesto proponimento. Un giorno mi mandò per un suo servigio, tardai molto, mi domandò la cagione. Le dissi che avea incontrato un mio fratello nato meco ad un parto che tutto rassomigliava a me, che l’avea lasciato picciolo in Roma e or servea per paggio al viceré; e glie lo dipinsi tanto grazioso che a lei venne desiderio di vederlo. Come la viddi ben accesa, e me ne pregò molte volte, me n’andai a casa di Panurgo mio servo che trattengo in una osteria; e vestitomi delle mie vesti da maschio, passeggiandole intorno la casa, conobbi chiaramente ch’ella non poco godeva della mia vista. Mi spoglio le vesti da maschio, mi rivesto la gonna e torno a casa. Giunto, mi butta le braccia al collo e mi dá mille baci, dicendo che mentre baciava me, le pareva di baciar mio fratello. ...
Nepita. La povera figlia diceva il vero, non s’ingannava. Alfine?
Essandro. ...Alfin mi scuopre ch’era innamorata di lui e che la sua pena era indicibile, e mi priega che gli porti alcune ambasciate e presentucci; e io, tutte le risposte che piacevano a me, glie le diceva da parte di mio fratello.
Nepita. Io non ho inteso al mondo mai la piú bella istoria: orsú, che pensi di fare?
Essandro. Or io vedendo che la barba tuttavia spunta fuori, come hai tu detto, non posso star piú nascosto in questo abito; e il peggio è che Gerasto, il padron vecchio, è cosí sconciamente innamorato di me che fa le pazzie. Tu lo sai: non mi incontra mai sola per la casa che alla sfuggita non mi tocchi e solletichi. O Dio, a che pericolo mi trovai! che pensiero sarebbe stato il mio, se trovato altro di quel che pensava! ...
Nepita. Ah, ah, ah, con quanto piacere ascolto questo!
Essandro. ... Onde oggi ho proposto venirci da maschio, scoprirle i miei secreti e, se m’accetta per sposo, avisarne mio zio e farla chiedere legitimamente per sposa; ché come Gerasto sará informato ch’io mi sia, me la concederá davantaggio.
Nepita. Certo che mi è caro, ché m’affliggeva il cuore veder patire quella povera figlia. Le vengono alle volte certi svenimenti di cuore, che par che si muoia: ti porta tanto amore che avanza ogni meraviglia. Or credo che sei de’ Fregosi, poiché l’hai posta in tanta frega.
Essandro. Or la fede che ho avuta in te, di averti scoverto quei secreti che fin qui non ho confidato con niuno, ti obliga ad essermi fedele; ché conseguito il matrimonio, farò che le leggi della nobiltá abbino quella forza in me che aver denno. Io ho un servo in casa, che ha gambe sotto cosí robuste ch’è buon per caminare quattro e cinque miglia per ora, come tu proprio vorresti; te lo darò per marito, e serai madre di mia moglie e padrona della casa.
Nepita. Ne vedrai la prova, che d’oggi innanzi m’adoprerò in tuo aiuto con ogni modo possibile.
Essandro. Tuo ufficio sará d’aiutarmi, poiché cosí speranza me ne dái.
Nepita. Ma, per parlarti alla libera, non posso credere che tu sia maschio.
Essandro. Credilo, che è cosí.
Nepita. Giamai credei a parole.
Essandro. Dunque, nol credi?
Nepita. No, ché voi giovani vi dilettate di dar la baia: però bisogna prima chiarirsene e poi credere.
Essandro. Farò che lo vedrai.
Nepita. E questi che fan le bagattelle, pur fan veder molte cose che non sono.
Essandro. Farò che tocchi la veritá con le mani.
Nepita. Or questo è altra cosa.
Essandro. Va’ e dille che si facci su la fenestra, ché vuol ragionarmi, e a questo effetto sono qui fuora.
Nepita. Volentieri.
Essandro. Col fidarmi di costei, ho fatto duo buoni effetti: toltomi dinanzi lei, che era la maggior nemica che avessi in questa casa, e adesso, come consapevole, mi aiutará con la sua figliana.
SCENA II.
Cleria giovane, Essandro.
Cleria. Fioretta mia, fatti piú in qua, che non m’oda mia madre che sta nell’anticamera.
Essandro. Eccomi, signora mia.
Cleria. Dirai primieramente ad Essandro mio che vorrei mandargli mille saluti e consolazioni, ma non posso; che non ho né salute né consolazione, e mal posso partir seco quelle cose che non possedo. E se pur volessi mandargli qualche salute, bisogneria che mandassi se stesso a lui medesimo; perché egli solo è il mio contento e la mia salute, e sempre che son priva di lui, son inferma e scontentissima.
Essandro. Appresso?
Cleria. Che non mi veggio mai sazia d’odiar me stessa per amar lui, e che il fuoco è tanto cresciuto che son tutta di fiamma; son tanto sua che in me non vi è nulla piú del mio, son transformata in lui stesso; e se volesse essere per qualche breve spazio mia, bisogneria che me gli cercasse in presto, avendo locato in lui la somma d’ogni mio desiderio e avendolo eletto per fin d’ogni mio bene.
Essandro. Benissimo.
Cleria. E digli che s’io potessi, vorrei chiamarlo crudele; che sapendo bene che dalla sua vista gli spirti miei prendono l’alimento della lor vita, e mancandomi la sua vista mi mancaria la vita, perché mi fa carestia di cosa che sí poco gli importa, e dandomene molto, a lui non scema nulla? E che quindi fo argomento che non risponde con amore a chi l’ama, né con la fede a chi gli è fedele: e non cercando vedermi, come posso creder che m’ami?
Essandro. Signora, state sicura ch’egli sempre vi vede.
Cleria. Mi vede, eh?
Essandro. Vi vede, vi parla, vi tocca e vi sta sempre appresso.
Cleria. Egli mi tocca e vede? Fioretta, dici da vero?
Essandro. Cosí da vero come vi vedo e tocco io.
Cleria. Egli mi tocca?
Essandro. Ti abbraccia, ti bacia e ti vede sempre, e ha tanto piacer di vederti e di abbracciarti che mai simil ebbe; ed egli si terrebbe felicissimo se in quel punto fusse riconosciuto da voi.
Cleria. Scherzi, eh?
Essandro. Possa morir se scherzo.
Cleria. Perché dunque non mi si scuopre?
Essandro. Perché dubita.
Cleria. Di che dubita?
Essandro. Che avendolo forse a male, lo privaste di tanta gioia; e s’egli stesse un sol giorno senza vedervi, si morrebbe di ambascia.
Cleria. Col pensiero forse mi tocca, ch’altrimente non so come possa esser vero ch’egli mi tocchi.
Essandro. Dico che vi vede con gli occhi.
Cleria. Come con gli occhi?
Essandro. Con gli occhi aperti, e vi tocca con le sue mani proprie.
Cleria. Lo dici per ischerzar meco; né io sarei cosí sciocca o fuori di me medema, che veggendomi innanzi e ragionandomi quello che piú della propria vita amo, io non lo conoscessi.
Essandro. Anzi, or ora vi vede.
Cleria. Forse sta nascosto qui intorno?
Essandro. Dico che vi sta innanzi come io, e vi parla come io.
Cleria. Come può esser questo vero, se qui non veggio niuno altro che te, né altri che tu mi parli? Ma dimmi, Fioretta carissima, sai tu quanto egli m’ami?
Essandro. V’ama quanto io.
Cleria. So che tu m’ami, non ne sto in dubbio; ma tu sei mal cambiata da me, che ti amo quanto si può, perché mi rassomigli tutta a tuo fratello.
Essandro. Anzi piú m’amaresti, se mi conoscessi.
Cleria. Come non ti conosco? cosí tu conoscessi l’amor che porto a tuo fratello, ché trovaresti modo di darmi qualche rimedio.
Essandro. O Dio, che non è cosa che piú desii al mondo, che darti questo rimedio.
Cleria. Se ben tu dici cosí, pur ben m’accorgo non essere amata quanto merita l’amor mio. Perché se pur alcuna volta passa per qua, lo veggio cosí timido e sospettoso, cosí celato il viso nella cappa che par che dubbiti di qualche tradimento; e quanto può piú presto, da qui si parte, il che mi dá tanto dolore quanto è l’amor che li porto.
Essandro. È giovane, signora: questo è il suo primo amore. Vorrei io esser lui, ché conoscendo quella bellezza che in voi singular si scuopre, i divini costumi e l’onestá, sí ricco tesoro di grazie, mi terrei felicissimo; quando una sol volta fussi mirato da voi, saresti osservata e riverita da me, qual si conviene al vostro merito.
Cleria. Mi vergogno non essere come tu dici, solamente per piacergli. Ma se tu fossi lui e t’accorgessi ch’altri ti amassi e si struggesse per te, faresti come gli altri uomini, cominciaresti a star in contegno, far del re e alzaresti la coda.
Essandro. Avete il torto, signora, far questa stima di me, che non alzarei piú la coda di quello che fo al presente o feci per lo passato.
Cleria. Dunque, poiché t’è cosí aperto e nudo il cor mio come la fronte, perché non gli manifesti quanto l’amo?
Essandro. Anzi, egli si duole di me che non gli manifesti il suo amore: alfin, io sarò la cagione d’ogni male.
Cleria. Anzi, la radice e fonte d’ogni bene. Va’ dunque, Fioretta mia, e digli che avendomi comandato che volea ragionarmi, ecco ch’io sono apparecchiata; ...
Essandro. Andrò volontieri.
Cleria. ... ch’io piango e ch’io muoio... .
Essandro. Sará fatto...
Cleria. ... E se m’ama, che venghi presto... .
Essandro. ... quanto comandate... .
Cleria. ... E se mio padre non si contenta darmelo per sposo, digli ch’io vo’ fuggirmene seco nella fin del mondo.
Essandro. ... Volete altro?
Cleria. Non altro; raccomandamegli strettamente.
Essandro. Entratevene, che vostro padre non vi vegga.
Cleria. Fa’ di modo che tu mi porti bone novelle.
Essandro. Bene.
Cleria. E se pur non mi trovasse in fenestra, che fischi, ché verrò subito.
Essandro. Me ne vo.
Cleria. Aspetta, aspetta, ascolta questo.
Essandro. Entrate, ché Gerasto vostro padre vien fuora; che non vi vegga.
SCENA III.
Gerasto vecchio, Essandro.
Gerasto. Non è piú infelice vita al mondo di quella d’un vecchio e innamorato; ché se la vecchiezza porta seco tutte le infirmitá e imperfezioni, amor tutte le doglie e passioni — ch’una di queste non bastano diece persone a sostenerle, — or pensate queste due in un sol uomo quanti travagli gli ponno dare. Io amo una che, se ben la fortuna me la fa serva, la sua bellezza me le fa schiavo; e se ben l’ho in casa, n’ho carestia: se l’ho innanzi, non posso mirarla. Son come colui che sta dentro l’acqua e si muor di sete, gli pendono i frutti sovra la testa e si muor di fame; ché l’arrabbiata cagna di mia moglie n’arde di gelosia, non la lascia un sol passo sola per la casa, e se si parte, la lascia serrata a chiave in camera con mia figlia. E se desio di starmi in casa, a mio dispetto m’è forza di starne fuori. Ma eccola qui. Dove si va, Fioretta mia, mio maggio fiorito?
Essandro. Per un servigio della padrona.
Gerasto. Non ti partir, Fioretta mia: lascia che ti miri un poco, se a te non è discaro l’esser mirata; e lasciami sfogar cosí parlando teco, poiché non posso altro. Tu non sei fiore che nasci a tempo di primavera; ma a suo dispetto la primavera nasce dove tu sei. Niun fiore può paragonarsi con te, che porti i giacinti negli occhi e i gigli nelle carni, e parli rose e spiri gelsomini e fior di naranci.
Essandro. Dove avete lasciati i garofoli?
Gerasto. Perché son troppo palesi in questi tuoi labrucci. E se Dio volesse far un re sovra i fiori, non eleggeria altro che te, tante sono le tue bellezze.
Essandro. Vo’ partirmi.
Gerasto. Férmati un altro poco. Ti ricordo che non senza cagione ti han posto nome Fioretta, accioché tu ti accorga che questa tua bellezza se ne va come un fiore: la mattina è bello, la sera languido e secco. Or che sei nella primavera, sappilo conoscere, ché presto verrá l’autunno, sfronderai, diverrai secco, e non serai buono né per insalata né per salsa.
Essandro. Che vorresti dir per questo?
Gerasto. Ch’io vorrei essere il tuo orto, piantarti nel mio seno, zapparti ben bene, inaffiarti e farti produrre i piú bei frutti che nascessero giamai. Almeno fussi ape che andasse succhiando quel mele che sta dentro cosí bel fiore. Almeno potessi darli quel che li manca.
Essandro. Ne ho soverchio e m’avanza.
Gerasto. Non dico quel che tu pensi.
Essandro. Né tu pensi quel che dico.
Gerasto. Cosí potessi fartene veder l’esperienza!
Essandro. Cosí io potessi farla vedere a tua figlia!
Gerasto. Che dici di mia figlia?
Essandro. Dico che essendo serva di vostra figlia, mi dovreste amar da padre.
Gerasto. T’amo piú di tuo padre assai, e d’altro amor che non farebbe tuo padre o fratello.
Essandro. Voi dite cose triste, mi fate vergognare: mi vo’ partire.
Gerasto. Férmati, che vo’ darti una buona nuova.
Essandro. È qualche veste questa nuova che volete darmi?
Gerasto. Dico, novella la piú lieta che avesti avuto giamai.
Essandro. Ditela, ché mi sentiva prorir l’orecchia per ascoltarne alcuna.
Gerasto. Son certo che te la raspará, perché ti sará grata. Ma vo’ duo baci per mancia, ché mi sento prorir le labra.
Essandro. Ditela, ché poi ve li darò.
Gerasto. Ho maritata la tua padroncina.
Essandro. Con chi?
Gerasto. Con un giovane romano, ricco, dotto e bellissimo.
Essandro. Chi è questo giovane cosí aventuroso?
Gerasto. Cintio, figliuol di Narticoforo, maestro di scola dottissimo. Ci abbiam scritto tante volte che alfin siamo restati d’accordo della dote e d’ogni cosa.
Essandro. Come non n’avete fatto parola mai?
Gerasto. Se lo diceva a Santina mia moglie, che è una cicala, sarebbe andata cicalando per gli parenti, amici e vicini, e n’arebbe pieno Napoli in un’ora; e poi forse non essendo d’accordo, saressimo stati burlati da tutti.
Essandro. Quando dunque verran costoro?
Gerasto. Quanto prima, e forse verran oggi che è giornata del procaccio.
Essandro. Oimè!
Gerasto. Oh, come sei divenuta pallida! che ti duole?
Essandro. Oimè, il cuore!
Gerasto. E come sará maritata, mariterò ancora te.
Essandro. Mi sento morire, mi sento uscir l’anima!
Gerasto. Su, dammi i baci per la buona nuova.
Essandro. Partetivi, di grazia: ho sentito la padrona in fenestra, e credo ne facci la spia.
Gerasto. Io mi parto non cosí mio come tuo; e amami, se ti par che l’amor mio lo meriti. Va’ e da’ questa buona nova a mia figlia, fatti dar la mancia e confortala a far la mia volontá. Oh, come sei tramortita! sará stato l’allegrezza della nuova che ti ho data? Fatti far una fregagione alle gambe, ché non sará nulla.SCENA IV.
Essandro solo.
Essandro. Un poco piú che fusse tardato a partirsi, avrebbe veduto le lacrime ancora, ché non potea piú ritenerle. Fu tanta la doglia che strinse il cuore a questa nuova, che restai tutto conquiso; poi rivenuto e riscaldato, m’andò l’umore agli occhi: sento le lacrime, eccole cader fuora. O Amor, crudelissimo tiranno, prima ch’io conoscessi la libertá, me ne spogliasti; e prima che conoscessi la vita, mi facesti provar le tue morti. Mi vendi le tue brevi gioie, le tue fuggitive dolcezze a mari di lacrime, a milioni di sospiri, a prezzo di lunghi e infiniti affanni. Non mi facesti provar dolcezza mai che non fusse meschiata d’assenzio, né piacere che non vi fusse il veleno sotto. In una sol cosa sei giusto, perché usi sempre ingiustizia. Con false lusinghe ne lievi fin alle stelle, per farci poi conoscere la caduta maggiore: e ché dalla grandezza del bene conoscessi l’infinitá del mio male, dal sommo dell’altezza mi abassi nel fondo de’ fondi della miseria e disperazione. Maladetta sia quella altezza che è sol fatta per precipizio, maladette le tue dolcezze e maladetto sia tu, Amore, che ne le dái! O Cleria, sommo contento dell’anima mia, che farai quando sentirai questa nuova, se pur ami il tuo Essandro quanto dimostri d’amare? Tu meco ti querelerai, meco ti dorrai e da me cercherai consiglio: e io, misero e isconsigliato, che consiglio ti potrò dare? Almeno l’avessi saputo un anno prima, ché a poco a poco mi avessi avezzo a disamarla.
SCENA V.
Panurgo servo, Essandro.
Panurgo. Veggio Essandro di mala voglia. Padron caro, che cosa avete?
Essandro. Oimè, son morto!
Panurgo. Cattivo principio! cada questo augurio sovra chi ci vuol male.
Essandro. È pur caduto sovra di me, ché non è sí misero stato col quale non cambiassi il mio.
Panurgo. Sète forse stato discoverto per maschio?
Essandro. Peggio.
Panurgo. Il vecchio vi ha cacciato di casa?
Essandro. Peggio.
Panurgo. Che cosa vi può accader peggio di questa? Avete confidato in me maggiori secreti, potrete confidar ancor questo.
Essandro. Ho adesso quell’istesso animo, che ho avuto per lo passato, di fidarmi nella tua fede; né mi parrebbe aver compita felicitá, se non ne facesse a te parte.
Panurgo. Dite, che forse ci troveremo rimedio.
Essandro. Gerasto...
Panurgo. Che cosa Gerasto?
Essandro. ... ha pur...
Panurgo. Che cosa ave?
Essandro. ... dato...
Panurgo. Bastonate a voi, forse?
Essandro. Volesselo Iddio!
Panurgo. Che dunque ha dato?
Essandro. ... marito a Cleria mia. Ecco venuto quel giorno che ho temuto e portato tre anni attraversato nel core! ecco la separazione e il fine di nostri amori! Cesseranno i ragionamenti, i baci e la dolcissima conversazione!
Panurgo. Non piangete.
Essandro. La fiamma è cosí ardente nel petto che, se non avessi queste lacrime, abbruggiarebbe il cervello. Ma perché non debbo io piangere? che consolazione arò piú in questa vita? deh, perché non la lascio? perché non m’uccido per disperato?
Panurgo. Padrone, ricordatevi che la disperazione è ruina delle speranze; e il ricorrere che si fa piú tosto alle lacrime che a’ rimedi, è di persona vile e che non vuole che i desidèri si conduchino a fine. Fa’ vela quanto tu vuoi, ché con vento di sospiri mai si condusse nave in porto. Bisogna audacia contro la fortuna. Un buono animo ne’ mali è un mezzo male. Non vi perdete d’animo!
Essandro. L’animo non è possibile che piú lo perda.
Panurgo. Perché?
Essandro. Perché è giá perso.
Panurgo. Richiamatelo a voi.
Essandro. È gito in essiglio, va vagando troppo lontano.
Panurgo. Ed è possibile che siate cosí povero di partiti che non sappiate trovar rimedio al vostro male?
Essandro. Se non ho l’animo meco, come posso trovarlo?
Panurgo. Orsú, lasciate che ritiri me stesso un poco in consiglio secreto; suoni il tamburro e chiami sotto l’insegna le trappole, gl’inganni, le finzioni, le furfantarie; facci la rassegna e metta l’essercito in rassetto, accioché diamo l’assalto a questo vecchio e lo poniamo in tanti travagli che a suo dispetto lo facciamo cadere.
Essandro. So che, disponendoti d’aiutarmi, posso promettermi dal tuo ingegno quanto desidero.
Panurgo. Pensi che sieno finite le stampe di quei Davi e Sosi e di quei Pseudoli delle antiche comedie? Or stammi di buona voglia.
Essandro. Andiamo a casa tua, che vo’ vestirmi da maschio, ché oggi la vo’ finir con Cleria: tentar prima l’animo suo e palesarle il tutto, poi seguane quel che si voglia.
Panurgo. Andiamo, per la strada voi mi narrerete il successo, e pigliaremo qualche partito a disturbar questo matrimonio.