< La giraffa bianca
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6. Un vicino pericoloso
5. In fondo ad una trappola 7. In cerca del dottore

6.

UN VICINO PERICOLOSO


Il giovane cacciatore, che era tranquillo come se si trovasse in casa propria, estrasse il coltello e cominciò a tagliare la povera bestia per procurarsi un pezzo di carne di suo gusto.

Il leopardo, sentendo l'odore del sangue, mandò un brontolìo minaccioso e si alzò guardando ferocemente i due uomini.

— Padrone, — disse il negro con voce tremante — la bestia sente risvegliarsi i suoi istinti feroci. Si prepara ad assalirci.

William si volse precipitosamente e vide che il leopardo aveva già aperto le mascelle, mostrando i denti acutissimi e bianchi come l'avorio.

— Alto là! — gridò, impugnando il coltello.

Poi, con una pazza temerità, fece due passi innanzi. Il leopardo brontolò, quindi indietreggiò fino all'altra parte della buca, aggomitolandosi su se stesso.

— Non si muoverà più — disse William. — Deve aver capito che noi non siamo uomini da lasciarsi intimorire e tanto meno mangiare.

Staccò un pezzo di carne e la porse al negro, poi ne prese un pezzo per sé.

Il leopardo, vedendoli mangiare, tornò a far udire il suo mugolìo minaccioso, senza osare di muoversi.

— Dopo avrai il resto — disse William.

Mentre mangiava, il giovane cacciatore non cessava di pensare e si interrompeva spesso per grattarsi la testa rabbiosamente, come se quelle energiche frizioni dovessero fargli germogliare qualche buona idea.

Era una fatica inutile. I progetti più audaci, i mezzi più eroici urtavano sempre contro quelle quattro pareti inclinate, rappresentanti i quattro lati della piramide tronca.

Aveva dapprima pensato di lacerarsi gli abiti in listelle per fare una corda atta a sostenere il suo corpo e di gettarla attraverso le pertiche che attraversavano l'apertura; poi vi aveva rinunciato. Quei legni, che avevano prima sostenuto le canne e i rami che servivano da coperchio per meglio ingannare gli animali, non erano così solidi da poter reggere il peso d'un uomo. Aveva poi pensato di salire sulle spalle del negro e cercare d'aggrapparsi al margine superiore della buca; ma si era accorto che, anche salendo l'uno sull'altro, non avrebbe potuto toccare la cima. Ad un tratto si battè la fronte.

— Ho trovato! — esclamò.

— Che cosa? — chiese Kambusi.

— Il modo di uscire da questa prigione.

— Spiegati meglio!

— Siamo stati due stupidi, Kambusi; eppur non era difficile trovare un mezzo di salvezza.

— Non ti comprendo.

— Non abbiamo i nostri coltelli?

— Sì.

— Chi ci impedisce di scavare una galleria in questo piano inclinato e di raggiungere il suolo?

— Ed il leopardo ci permetterà di eseguire il lavoro?

— Uno veglierà, mentre l'altro lavorerà.

— Son pronto.

— Tu sta' in guardia ed io mi accingerò al lavoro.

William prese il coltello e tracciò un circolo.

— Qui — disse.

Per una fortunata combinazione il suolo era esternamente friabile, perché composto esclusivamente di sabbia e di avanzi di vegetali decomposti. Il lavoro, quantunque faticoso, procedeva rapidamente. Il pesante coltello, maneggiato da un braccio robusto, penetrava senza posa nella terra, che cadeva da sé in fondo alla buca, senza che vi fosse bisogno di spazzarla via. A poco a poco la galleria giunse a una tale altezza che William vi entrava interamente.

— A te, ora — disse a Kambusi, discendendo. — Ed il leopardo?

— Non si e mosso.

— Avanti, Kambusi. C'è da fare per tutti e due.

Mentre il cacciatore si sedeva sul gnu per sorvegliare il leopardo, il negro s'introduceva nella galleria, manovrando il coltello con accanimento. Aveva gli occhi pieni di terra, ma non ne faceva caso e continuava a scavare con rabbia, proseguendo il lavoro cominciato dal suo padrone. Ogni quarto d'ora ridiscendeva per sbarazzare la galleria dalla terra che la ingombrava e per respirare una boccata d'aria, poi tornava a lavorare. Intanto William non perdeva di vista il leopardo, il quale d'altronde, come se avesse compreso che quei due uomini lavoravano per la liberazione di tutti, se ne stava quieto quieto, accontentandosi di guardarli.

Il giorno intanto era spuntato e la galleria non ancora finita. William aveva dovuto surrogare più volte il negro e questi il padrone. Erano già giunti ad un'altezza considerevole ed il momento di toccare la superficie del suolo non doveva essere lontano. Già avevano incominciato ad incontrare degli strati di foglie in parte decomposte.

— Fra poco saremo liberi — disse Kambusi, che era ridisceso per riposarsi un po'.

— Non posso proprio più sopportare questa prigionia — disse William.

— Troveremo il dottore?

— Avrà continuato la marcia verso il villaggio dei negri che ci rubarono i buoi.

— Che lo abbiano catturato? Due soli uomini non possono affrontare tutti quei predoni.

— Non ci mancherebbe altro!

— Eppure sono molto inquieto sulla sorte dei nostri compagni.

— Anch'io non sono tranquillo. Non avendoci trovati, possono aver creduto d'incontrarci presso il villaggio ed aver continuato a marciare.

— Avrebbero commesso una grave imprudenza. Che siano invece tornati al carro?

— Ce ne accerteremo, Kambusi. Su via, riprendiamo il lavoro. Quando saremo fuori da questa trappola penseremo al dottore ed al tuo compagno.

Kambusi tornò a cacciarsi nella galleria e, quantunque mancasse quasi l'aria in quella specie di condotto, lavorò così bene da sfondare finalmente lo strato di foglie e di terriccio che copriva la superficie del suolo.

Con una spinta furiosa allargò il foro e balzò fuori. Finalmente era libero!

— Avanti, padrone! — gridò.

William, senza più occuparsi del leopardo, si cacciò nella galleria e raggiunse Kambusi.

— Siamo salvi! — esclamò, respirando a pieni polmoni. — Ed i nostri fucili?

— Eccoli — disse il negro. — Erano rimasti sull'orlo della trappola.

— Carichiamoli subito.

— Chi ci minaccia?

— Hai dimenticato il leopardo?

— Che ci segua?

Un brontolìo minaccioso fu la risposta. La fiera, vedendo i due uomini uscire dalla galleria, vi si era pure cacciata dentro, ed ora mostrava la testa fuori del foro. Non era più la bestia paurosa di prima, domata dalla fame e dalla prigionia. Rivedendo la foresta era ridiventata feroce.

I suoi sguardi, ardenti come carboni, si erano fissati sul giovane cacciatore e la bocca aperta mostrava gli acuti denti: si preparava all'assalto. William non era uomo da lasciarsi cogliere di sorpresa. Girò lentamente su se stesso e puntò il fucile contro la belva, che stava per uscire dall'apertura. Un momento dopo, uno sparo rimbombava e la belva, col cranio fracassato da una palla conica, ripiombava nella galleria, rotolando giù nella trappola.

— Se fosse stata riconoscente — disse William — a quest'ora sarebbe libera.

— Andiamo — soggiunse Kambusi.

— Dove?

— Al carro. Forse il dottore e Flok, non avendoci trovati nella foresta, sono tornati nella gola.

— Non lo credo. Ti assicuro che essi hanno continuato ad avanzarsi attraverso il bosco, convinti di trovarci più innanzi.

— Allora cerchiamo le loro orme.

— È quello che volevo proporti. Innanzi tutto torniamo verso il margine della foresta.

— Che abbiano condotto con loro i cavalli?

— Non avranno commesso l'imprudenza di lasciarli legati a qualche albero. Gli animali feroci non li risparmierebbero.

— In cammino, dunque.

Mangiarono alcuni banani che si trovavano a pochi passi dalla trappola, si dissetarono ad un torrentello, poi si misero in cammino, dirigendosi verso la pianura, che avevano attraversata il giorno innanzi.

Avendo percorso poco cammino, poiché erano stati fermati nella corsa dalla trappola, in meno di un'ora giunsero sul luogo dove avevano ferito gravemente il negro. Quel povero diavolo era già morto ed il cadavere era stato quasi divorato dalle jene e dagli sciacalli.

— Abbiamo avuto torto a non soccorrerlo — disse William.

— E se l'avessimo portato con noi sarebbe sopravvissuto alle sue ferite?

— È vero, Kambusi. Sarebbe morto egualmente. Andiamo a cercare le orme dei nostri compagni. Il bosco qui è meno folto e può aver permesso ai cavalli d'inoltrarsi.


— Devono esser passati di là — disse il negro, mostrando un sentiero che serpeggiava per la boscaglia.

Il tedesco o il suo servo in pochi minuti lo raggiunsero e videro impresse sull'umido terreno le orme di due cavalli.

— Sì, sono passati di qui — disse William.

— Saranno già molto lontani?

— Hanno molte ore di vantaggio, ammesso pure che la scorsa notte si siano fermati per riposare.

— Temo che si siano spinti troppo avanti e che i negri li abbiano sorpresi. Il dottore non è molto scaltro, né svelto.

— Flok però non è un minchione — disse il cacciatore.

— Da solo non può aver fatto prodigi.

— Seguiamo per ora le orme e vediamo dove sono andati a finire i nostri compagni.

Si riposarono un momento, essendo molto stanchi; poi si misero a seguire le tracce visibilissime dei due cavalli, avanzandosi sul sentiero che serpeggiava per la foresta, con varia larghezza.

Per quattro ore continuarono a marciare, attraversando di frequente ruscelli dalle acque nerastre ed ingombri di foglie in decomposizione; poi giunsero sulle rive di una palude coperta di canne immense, che sostenevano mazzi colossali. Stavano per piegare a destra, a fine di girare quell'ostacolo, quando udirono nitrire.

— Hai udito? — chiese William.

— Che il dottore e Flok si siano accampati in mezzo a quei banani selvatici?

— Andiamo a vedere.

A cento metri da loro si trovava una immensa macchia di banani colle foglie grandissime; in quella direzione si erano uditi i nitriti.

Il giovane cacciatore ed il negro armarono i fucili, non sapendo se colà si trovassero veramente il dottore e Flok, e si avvicinarono con precauzione. Con molta sorpresa trovarono i cavalli legati ad un albero; ma i cavalieri non c'erano!

— Dove saranno andati i nostri compagni? — domandò William con inquietudine.

— Qui non ci sono — disse Kambusi, dopo aver guardato sotto le piante. — Che abbiano continuato a piedi?

— O che siano caduti in qualche imboscata? Cerchiamo le loro orme.

— Eccole qui. Sul suolo umido vedo impressi gli stivali del dottore.

— E la pianta del negro — soggiunse William, che si era curvato a terra.

— Seguiamo queste tracce.

Si avanzarono, seguendo le tracce segnate verso la palude, attraverso folte macchie.

Ad un certo punto videro distesi al suolo i cadaveri di due negri, fra alcune lance ed alcuni archi spezzati. Pareva che sul luogo fosse avvenuta un'aspra lotta.

Le erbe erano calpestate, i rami dei cespugli spezzati e si vedevano all'ingiro brandelli di stoffa e collane e braccialetti di filo di ferro, come li portano i negri

— Qui vi è stata battaglia — disse William. — I nostri compagni sono stati forse sorpresi.

— Lo temo — replicò Kambusi. — Cerchiamo.

Osservando i tronchi degli alberi, William vide un buco che pareva fosse stato prodotto da una palla di fucile.

Col coltello levò la corteccia della pianta e sotto trovò infissa una palla conica. La prese e la guardò.

— Una palla dei nostri fucili! — esclamò diventando pallido.

— Come la riconosci? — chiese Kambusi.

— Tutti i miei proiettili portano un W impresso nella calotta. Guarda: lo vedi?

— Sì, lo vedo.

— I nostri compagni sono stati presi.

— E da chi?

— Dai negri che ci hanno rubato i buoi. Quei birbaccioni devono essersi nascosti in queste macchie, immaginandosi che noi non li avremmo lasciati tranquilli.

— Ed ora che faremo?

— Andremo a liberare i nostri amici.

— Siamo due soli.

— Ma abbiamo coraggio.

— E il nostro carro?

— È nella gola e nessuno lo troverà. Il paese non è molto abitato e difficilmente i negri lasciano i loro villaggi. Ritorniamo ai cavalli.

— A proposito dei cavalli, mi stupisce come non siano caduti nelle mani dei negri.

— Non li avranno veduti. I nostri compagni devono essersi spinti fin qui a piedi, forse per studiare i dintorni.

— Povero dottore! Lo uccideranno?

— Rispettano troppo gli uomini di razza bianca per assassinarli. D'altronde sanno che il governo del Capo non esita a vendicarli. Quanto saremo lontani dal villaggio dei predoni?

— Forse tre ore.

— Montiamo a cavallo e facciamo il giro della palude.

— Andiamo.

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