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XVI.
La povera maestra passò la notte con la febbre, cercando quale fosse la miglior via per ricorrere alla giustizia, poichè vedeva oramai la cosa necessaria: se riferire il fatto al maestro Garallo, come direttore, perchè scacciasse il Muroni dalla scuola e lo denunciasse ai carabinieri, o andar senz’altro dal cavalier Sanis, ch’era il personaggio più autorevole del sobborgo, perchè provvedesse lui nel modo che avrebbe stimato più opportuno. A fare un passo, comunque fosse, era risoluta, non reggendole l’animo all’idea che le potesse toccare un’altra volta un affronto e uno spavento come quelli che aveva avuti, e al cui pensiero tremava ancora. Si levò la mattina dopo, decisa d’andar dal soprintendente, dopo averne avvertito, per dovere di delicatezza, il maestro. Era domenica: essa contava d’andar prima alla messa e poi alla fabbrica del cavalier Sanis.
Ma mentre stava terminando di vestirsi, eccoti lì la maestra Mazzara, ansante e affaccendata, come sempre, col sorriso sulla bocca e un pacco di carte fra le mani. Era già stata dalla Baroffi a chiedere un articolo per una Strenna che volevan pubblicare varie maestre a benefizio d’una loro collega, vedova d’una guardia daziaria. Non poteva trattenersi che pochi minuti. Aveva da galoppare tutto il giorno a Torino per preparare una recita di dilettanti al teatro. Scribe, per la fondazione d’un asilo infantile alla Crocetta; doveva fare una visita alla scuola d’Orticoltura in via Garibaldi, dove una sua compagna insegnava a scrivere a quaranta giardinieri; voleva andare ancora all’istituto del Buon Pastore a vedere che cosa ci fosse di vero in una voce messa in giro da un giornale, che le maestre monache facessero apparire il diavolo di notte per spaventare le ragazze riottose. Quand’ebbe detto tutto questo, riprese fiato; poi domandò notizie della scuola serale all’amica, e si mostrò addolorata di vederla triste. — Cos’hai? Che c’è stato? Perchè sei pallida? Che t’hanno fatto?
Veramente, essa non pareva alla Varetti la confidente più opportuna per le cose che le aveva da dire; ma, non avendone altra, raccontò tutto a lei, fino alla scena della sera avanti.
— Ma dunque l’hai innamorato! — esclamò quella con grande vivacità. — .... Per questo non s’è più veduto alle scuole festive!
E stette un po’ pensando, come per gustare quello che vi era di romanzesco nell’avventura. — E cos’hai deciso di fare? — domandò poi.
La Varetti le disse risolutamente la sua intenzione.
L’amica rimase assorta qualche momento. Poi rispose con gravità, tentennando il capo: — Io non ti darei questo consiglio. — E richiesta del perchè, spiegò il suo pensiero.
— Perchè tu non conosci l’animo di quella gente. Tu provocherai una vendetta.
— Ma che vendetta vuoi ch’io provochi? — domandò la Varetti, scrollando una spalla. — Che cosa mi può far di peggio di quello che ha fatto?... Ammazzarmi?
— Eh, a te non farà nulla, — rispose l’altra, — si capisce. Ma se non si vendicherà su di te, si vendicherà su quelli che lo puniranno, di questo puoi star sicura, come se fosse già fatto. No, non ti metter sulla coscienza questo rimorso.
— Ma dunque, — esclamò la Varetti con risentimento, — io devo ingoiarmi raffronto e starne ad aspettare degli altri?
L’amica tacque un mezzo minuto. — Ma, insomma, — disse, — non t’ha neppure baciata!
La Varetti fece un atto di
maraviglia e di sdegno. Ma quella non la lasciò parlare. — Capisco, l’affronto c’è stato egualmente. Però.... dici che t’ha chiesto scusa.... Infine, devi anche considerare che uomo è, od era, piuttosto. È già una bella vittoria d’averlo ridotto a quel modo, d’avergli ispirato un sentimento.... Che t’ho da dire? Nei tuoi piedi, io starei ancora a vedere. Vorrei compir l’opera, finire di convertirlo.... È un caso raro, davvero. — E dopo aver fissato un po’ la sua amica: — Ah! la mia povera Enrichetta, — le disse sorridendo e pigliandole il mento con due dita, — con quel visetto di principessina!
La Varetti si asciugò due lacrime.
— Segui il mio consiglio, — riprese l’altra, — perdona ancora una volta. Io son certa che non accadrà più nulla. Tu non conosci questi giovani del popolo. Basta non irritarli o avvilirli, se ne fa quello che si vuole, anche dei peggiori. Quello lì, vedrai, diventerà un agnello! T’ha fatto la strada coi piedi, te la farà coi ginocchi.
La Varetti rimase perplessa.
— Ah! il popolo! — continuò l’amica. — Credi, il popolo è mal conosciuto. Per questo non è amato. E se par malvagio qualche volta, è appunto perchè non è amato. Basta. Ti verrò presto a rivedere. Son curiosa di sapere come andrà a finire. Cos’hai deciso?
— Non so, — rispose la Varetti, fissando per la finestra i camini delle fabbriche, come se fossero un lato del problema che la teneva in dubbio.
La Mazzara, andandosene, le diede ancora in fretta in fretta un sacco di notizie torinesi: c’era un matrimonio nella Scuola Sclopis; la contessa Di Rosa aveva invitato a uno dei suoi magnifici balli le due maestre delle sue figliuole; nel ritiro della Visitazione aveva tentato di avvelenarsi una ragazza perchè le era stata sequestrata una lettera amorosa; a San Filippo, nella prossima quaresima, avrebbe predicato don Calandra. E glien’aggiunse ancor una sull’uscio: il Malon, quel famoso socialista francese, doveva tenere una conferenza agli operai di Torino: essa sperava di potervi andare.
— Animo, — le disse infine sulla via, con un sorriso adulatorio, — bella domatrice!