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XVIII.
Finalmente, il disordine andò tant’oltre una sera che la maestra decise di ricorrere al maestro Garallo. Dieci minuti dopo la lezione, mentre si sentivano ancora sul viale i fischi e i canti sgangherati degli alunni, piena di tristezza e fremente di collera, andò a picchiare all’uscio del suo quartierino. Le risposero insieme: — Avanti! — due voci gravi. Ella trovò marito e moglie seduti dalle due parti d’una tavola coperta di fogli, tutti e due con le grosse teste arruffate, piccoli e corpulenti, che parevan fratello e sorella. Il salottino, repubblicanamente austero, non aveva altro ornamento che i ritratti in stampa del Mazzini, del Saffi e di Alberto Mario, appesi a una parete; dall’altra pendeva un gran quadro calligrafico, diviso in scompartimenti colorati, nei quali erano segnati gli stipendi dei maestri elementari di tutti gli Stati civili; la tavola era rischiarata da un lumino da cucina, posto sopra una scatola di zucchero, vuota.
— Ah! lei è qui! — disse il maestro, ed entrò senz’altro nel suo discorso prediletto, a proposito d’un memoriale che stava scrivendo, perchè il municipio di Torino accettasse come validi, pei diritti alla pensione, gli anni di servizio prestati dai maestri negli altri comuni. — Perchè è una sacrosanta giustizia! — esclamò.
Ma la Varetti lo interruppe e, con voce concitata, gli espose i casi suoi. Aveva pazientato fin allora, per non dargli noia; ma non poteva più andare avanti con quella classe indisciplinata, che le mancava di rispetto in tutte le maniere, e faceva della scuola un mercato. Era assolutamente necessario che il maestro andasse la sera dopo a dare un ammonimento solenne a tutti, e una lezione particolare ai più tristi.
Il maestro si grattò un orecchio; parve seccato da quella domanda.
— Verrò, — rispose; — ma.... gliel’avevo detto che in quella scuola ci vuole energia.
— Ma che energia vuol che abbia una ragazza sola davanti a quaranta uomini? — domandò la Varetti.
— Io li tenevo, — disse con una nota di trombone la signora Garallo.
— Io non ho la sua virtù, — rispose piccata la signorina. — Lei ne imponeva di più, anche con l’aspetto....
La Garallo la fissò.
— Io non riesco a farmi temere, — continuò l’altra, — non so come fare, ai miei rimproveri non badano, faccio tutto quello che posso, mi riducono alla disperazione. È un supplizio a cui non posso più reggere.
— È inutile, — disse il maestro, impazientito, — il popolo vuol esser trattato in un modo particolare, bisogna saperlo prendere.... Non bisogna presentarglisi con maniere, non dico aristocratiche, non è il caso, ma nemmeno, che so io? troppo signorili; non bisogna lasciargli vedere che si ha quasi.... orrore di lui.
La Varetti si scosse a quelle parole. — Chi le ha detto che io usi dei modi aristocratici? — domandò con risentimento. — Chi le ha detto che io abbia orrore del popolo?
— Il popolo vuol essere amato! — sentenziò la maestra Garallo.
— E io l’amo! — esclamò la ragazza, con uno slancio vigoroso d’affetto e di sdegno. — Che cosa le può far pensare il contrario?
— Andiamo, — concluse il Garallo, in tuono conciliante, — faremo così. Per ora darò ordine al cantoniere di assistere alle lezioni. La sua presenza basterà a tenere a segno i ragazzi. Lei, dal canto suo, mi darà sera per sera i nomi dei disturbatori. Se poi seguirà qualche cosa di grave, il cantoniere mi verrà a chiamare, e allora.... non avrò che da farmi vedere. Intanto, si faccia coraggio.
La maestra, indispettita, stava per rispondergli: — Se lo faccia lei! — ma rattenne la parola sulla punta delle labbra. Si contentò di fare un saluto asciutto, e se n’andò.
Uscendo, udì la voce del maestro che diceva piano: — Non capisce il popolo; non sa star col popolo — e la curiosità la ritenne un momento con l’orecchio teso. Ma quegli parlava già dei maestri del Brasile, i quali, oltre alla casa e al giardino, hanno un tanto di guadagno per ciascun alunno promosso.