< La novella d'inverno
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William Shakespeare - La novella d'inverno (1608-1611)
Traduzione dall'inglese di Carlo Rusconi (1859)
Atto primo
Interlocutori Atto secondo

LA NOVELLA D’INVERNO



ATTO PRIMO


SCENA I.

Sicilia - Un’anticamera nel palazzo di Leonte.

Entrano Camillo e Archidamo.

Arch. Se avvenga, Camillo, che visitiate un dì la Boemia condottovi da qualche ragione simile a quella che qui vi guida, troverete gran differenza, come dissi, fra il nostro paese e questo.

Cam. Credi che nel veniente estate il re di Sicilia intenda di restituire al re di Boemia quella visita che gli deve.

Arch. Se l’impotenza di ricevervi bene come meritate ci umilia, almeno i sentimenti della nostra affezione suppliranno al difetto dello nostre facoltà, perocchè invero...

Cam. Ve ne prego...

Arch. Invero, e parlo con cognizione e franchezza, noi non possiamo usare la medesima magnificenza, ed una così rara... non saprei come appellarla. Ebbene, noi vi apparecchieremo bevande saporifere, onde i vostri sensi addormentati, siano inetti a sentire la nostra pochezza, e perchè, se non possiamo sperare i vostri elogi, non sappiate almeno farci rimproveri.

Cam. Voi pagate troppo caro quello che dato è di buon cuore.

Arch. Credetemi, parlo sapendo bene quello che dico, e dico quello che l’onestà m’ispira.

Cam. La Sicilia non può mai mostrare troppa benevolenza alla Boemia. I loro re sono stati educati insieme, e l’amicizia ha messo in loro così salde radici, ch’ella non può più adesso che accrescersi ed estendersi. Dacchè l’età gli ha resi maturi pel trono, e i doveri del regno han dovuto dividerli, il commercio dell’amistà è continuato fra essi se non colla presenza delle loro persone, almeno con quella dei loro ambasciatori, e per un mutuo cambio di doni, lettere e lieti augurii, talchè lontani sembrano ancora insieme, e pare che si diano lo mano dai loro troni posti ai due angoli del mondo. Il Cielo faccia durare eterna questa loro reciproca affezione.

Arch. Credo che non vi sia malvagio sulla terra, nè avvenimento alcuno che potesse romperla. Voi avete un bel sostegno del trono nel vostro giovine principe Mamilio. Non ho mai conosciuto alcun giovine di più liete speranze.

Cam. Formo anch’io su di lui i presagi più belli. È un generoso giovine, un vero balsamo pel cuore dei suoi sudditi: la sua vista sola rianima gli spiriti dei vecchi; e quelli fra di loro che al nascer suo dovevano sorreggersi colle gruccie, desiderano ancora di vivere per vederlo diventar uomo.

Arch. E senza di ciò sarebbero forse contenti di morire?

Cam. Sì, se non adducessero ancora qualch’altro motivo per escusare il loro desiderio di stare al mondo.

Arch. Se il re non avesse figli, essi desidererebbero di vivere anche decrepiti, sino a che ei ne avesse uno. (escono)

SCENA II.

La stessa. — Una stanza nel palazzo.

Entrano Leonte, Polissene, Ermione, Mamilio, Camillo e seguito.

Pol. Il pastore ha già veduto mutarsi nove volte Tumido astro delle notti, dacchè abbiam lasciato vuoto il nostro trono, e se anche per altrettante lune mi intrattenessi a ringraziarvi, non partirei mai più sdebitato. Così come un numero il di cui valore si accresce dal luogo che occupa, io moltiplico coll’unico ringraziamento che vi esprimo quelle migliaia d’altri ringraziamenti che lo han preceduto.

Leon. Sospendete la vostra riconoscenza; la sconterete partendo.

Pol. È dimani ch’io parto, signore; la mia anima è piena di inquietezza per gli avvenimenti che possono essere accaduti, e pei mali che possono essersi originati durante la mia assenza. Vogliano gli Dei che niun vento malefico soffi sopra i miei Stati, ond’io non sia costretto a dire che veri erano i miei presentimenti. Inoltre ho soggiornato qui abbastanza per stancare Vostra Maestà.

Leon. Siam troppo robusti, fratello, per sentire tale stanchezza.

Pol. Non più a lungo mi fermerò.

Leon. Anche otto giorni.

Pol. Parto dimani.

Leon. Divideremo dunque gli otto giorni, e in ciò non vuo’ essere contraddetto.

Pol. Non mi incalzate così, ve ne supplico. Non vi è voce più eloquente per me nel mondo della vostra, ed ella mi vincerebbe se la mia presenza vi fosse assolutamente necessaria, quando anche il bisogno richiedesse da me un rifiuto. I miei doveri mi richiamano verso i miei Stati; porre ostacolo alla mia partenza, sarebbe punirmi dell’amicizia che mi avete addimostrata, e una più lunga dimora diverrebbe anche per voi infesta: per toglier tanti impacci, addio, fratello.

Leon. Voi restate muta, signora? Parlate.

Er. Volevo tacere fino a che voi l’aveste indotto a dichiarare con giuramento che egli non resterebbe: ma metteste poco calore nella vostra preghiera. Ditegli che siete certo che tutto è quieto in Boemia; che ne abbiamo ricevuto ieri l’assicurazione solenne. Diteglielo, ed egli sarà forzato fino nelle sue ultime trincee.

Leon. A meraviglia, Ermione.

Er. Se rispondesse che arde dal desiderio di rivedere suo figlio, sarebbe una ragione delle più potenti, e ove la dicesse, converrebbe lasciarlo partire; se assicurasse con giuramento che tale è il motivo che l’induce a lasciarci, io e le mie donne lo caccieremmo di qui a colpi di conocchia. — Ma di ciò egli non parla, onde io (a Pol.) mi arrischierò a chiedergli una settimana ancora della sua real presenza. — Allorchè voi riceverete il mio sposo in Boemia, vi raccomando di tenerlo un mese al di là del termine fermato pel suo ritorno; però guardate, Leonte, che allora io non vi ami un po’ meno di quello che le altre donne amano i loro mariti. Volete restare?

Pol. No, signora.

Er. Restate.

Pol. Nol posso veramente.

Er. Veramente? Tale parola è troppo debole per vincere la mia resistenza: ma quand’anche pronunziaste giuramenti tanto forti da scuoter gli astri, anche allora vi direi, signore, non partirete: veramente non partirete; e il veramente di una regina è potente come quello di un re. Volete andarvene? Mi costringerete a ritenervi qual prigioniero, e non come ospite, ed allora pagherete il vostro scotto lasciandoci, e verrete con ciò dispensato da ogni ringraziamento: che ne dite? Siete mio prigioniero, o mio ospite? col vostro terribile veramente, bisogna che vi decidiate all’uno o all’altro.

Pol. Quand’è così, sarò vostro ospite, signora; perocchè esser vostro prigioniero importerebbe un’idea di offesa, e mi è meno facile l’offendervi, che non lo è a voi il punirmi.

Er. Allora dunque non sarò la vostra carceriera, ma l’ospite vostra e la vostra amica. Mi vien voglia d’interrogarvi sulle follìe del mio sposo, e sulle vostre quando eravate giovani. Dovevate comportarvi con molta iattanza.

Pol. Eravamo due storditi, bella regina, e credevamo non aver mai dinanzi che una dimane interamente simile alla vigilia, riputando di dover restare eternamente adolescenti.

Er. Il mio sposo non era il più tristo fra di voi?

Pol. Eravamo come due agnelli inseparabili, che saltellano insieme ai raggi del sole, e belano l’uno dietro all’altro. Ci ricambiavamo innocenza per innocenza; non conoscevamo l’arte di far male, nè credevamo che alcun uomo far ne potesse. Se avessimo continuata quella vita, e se i nostri deboli intelletti non fossero mai stati esaltati dall’effervescenza di un sangue più impetuoso, avremmo potuto rispondere arditamente al giudice celeste: non colpevoli posto a parte il peccato originale.

Er. Con ciò volete significare che dipoi commetteste gravi falli.

Pol. Oh mia degna regina! le tentazioni son venute coll’età; perocchè in quei giorni la mia sposa non era che una fanciulla, e la preziosa vostra bellezza non avrebbe fatta allora impressione sugli occhi del mio giovine compagno.

Er. La grazia spero sarà cresciuta in proporzione delle tentazioni; non tirate conseguenze dal vostro discorso, per tema che esse non vi conducano a dire, che la vostra regina ed io siamo cattivi angeli che vi han soggiogati. Però se vi piacesse di accusarne pei falli che vi abbiamo indotti a commettere, fatelo, che vi risponderemo e sapremo giustificarci.

Leon. E egli alla fine vinto?

Er. Resterà, signore.

Leon. A mia inchiesta non volle. Ermione mia cara, tu non parlasti mai più a proposito.

Er. Mai?

Leon. Mai, fuorchè una volta.

Er. Due volte dunque ho parlato a proposito? Quale fu la prima? Vi prego di dirmelo. Colmatemi di elogi, e alimentate il mio amor proprio come un uccello domestico: una buona azione che si lascia morire nel silenzio, ne impedisce mille che altre l’avrebbero seguita: le lodi sono la mercede del nostro sesso: voi potete con un solo bacio farne avanzare più di cento stadii, intantochè col pungolo non potreste farcene percorrere un solo. Ma ritorniamo al fatto; la mia ultima buona opera è stata di farlo rimaner qui; qual fu la prima? Essa ha una sorella primogenita, s’io ben v’intendo: faccia il Cielo che sia stata un’azione virtuosa! Ho parlato a proposito un’altra volta prima di questa: quando? Vi prego di dirmelo, perocchè bramo vivamente di saperlo.

Leon. Fu allorchè dopo tre mesi di amarezza e di lutto, io vi feci dischiudere la vostra candida mano, e le feci impegnar nella mia la fede del vostro amore; allora voi diceste queste parole: son vostra per sempre.

Er. Nobile infatti e santa fu quell’opera. Perciò ho parlato bene due volte, la prima onde ottenere per sempre le bontà del mio sposo, la seconda per prolungare il soggiorno di un suo diletto amico. (dando la mano a Pol.)

Leon. (a parte) Troppo calore, troppo calore! Quando l’amicizia è così ardente, essa imita un altro affetto. Ho un tremor cordis; il mio cuore batte, ma non di gioia, no. Quest’accoglienza può avere un’apparenza onesta e pura; può ricavare la sua familiarità dalla bontà insita, dall’ingenuità di un cuor sensibile, senza comprometter quella che la dimostra: ciò può, lo consento. Ma lo stringersi così le mani, il sorridersi con tale intelligenza come davanti ad uno specchio, per poi sospirare colla mestizia del corno che annunzia la morte del cervo, è cosa che non piace nè alla mia anima, nè al mio cervello. — Mamilio, sei tu figlio mio?

Mam. Sì, mio buon signore.

Leon. (osservando Pol. e Er.) Sei davvero mio figlio?

Mam. Sì, credetemelo, mio signore.

Leon. Non hai però la ruvidezza della mia pelle, e queste escrescenze ch’io mi sento sulla fronte, per ben rassomigliarmi. Nondimeno si dice, che potremmo essere cambiati come due uovi; son le donne che lo dicono, e le donne dicono tutto quello che vogliono. Ma quand’anche fossero false come i cattivi panni ritinti in nero, come i venti, come le acque; false come vorrebbe i dadi un uomo che non conosce limiti fra il mio e il tuo; nondimeno sarebbe sempre vero che questo garzone mi somiglia. Guardami dunque, mio piccolo paggio, con quel tuo occhio color di cera. Amabile silfo, che tanto mi sei caro; tua madre avrebbe potuto?... Oh immaginazione, tu mi immergi il tuo pugnale nel cuore! Tu rendi possibili cose riputate impossibili; stabilisci un commercio coi sogni, operi sopra di noi col mezzo di quello che non esiste, e ogni cosa mercè tua divien credibile: io ne faccio l’esperienza colle idee contagiose da cui sono ora dominato.

Pol. Che cosa ha il re di Sicilia?

Er. Sembra alquanto commosso.

Pol. Che avete, signore? Come va mio caro fratello?

Er. Voi parete agitato da qualche pensiero, signore?

Leon. No, in verità. — (a parte) Come la natura fa qualche volta trasparire la sua folle tenerezza, e si rende da se stessa ludibrio dei cuori! Contemplando il volto di mio figlio, mi è sembrato ei esser tornato indietro ventitrè anni di vita, e mi vedevo colle vesti dell’infanzia, colla mia spada legata negli elsi, per tema che non facesse male al suo signore, come fanno sovente balocchi troppo perigliosi. Quanto doveva allora somigliare a questo garzone! — Fratello, (a Pol.) siete voi così vago del vostro giovine principe, come noi siamo del nostro?

Pol. Allorchè sono vicino a lui, a lui solo penso. Ora è il mio più caro amico, ora il mio nemico, il mio adulatore, il mio guerriero, il mio uomo di Stato, infine tutto; egli mi fa parere un giorno di luglio così breve, come un giorno di dicembre, e colla varietà del suo umor vivace mi sana da quelle idee che mi renderebbero malinconico.

Leon. Questo garzone opera il medesimo con me. Noi vi lasciamo per passeggiare un istante, intanto che attenderete a più gravi bisogne. — Ermione, mostrate quanto ci amate, coll’accoglienza che farete al fratel nostro: tutto ciò che vi è di più raro in Sicilia, gli venga dato in copia; dopo di voi e del figlio mio, è quegli che ha più diritti sopra il mio cuore.

Er. Se vi vien talento di vederci, saremo nel giardino: volete che vi aspettiamo colà?

Leon. Fate quel che vi piace: vi sapremo trovare finchè resterete sotto la volta dei cieli. — (a parte) Ora tendo la rete senza che tu te ne avvegga: va, continua! Com’essa gli stringe la mano! Come si arma di tutta l’audacia di una donna dinanzi ad uno sposo indulgente. (escono Pol., Er. ed seguito) Eccoli scomparsi! — Va, mio figlio, va ai tuoi sollazzi! — Tua madre pure si ricrea ed io con essa: ma io recito una parte così fatale, che essa mi condurrà al sepolcro in mezzo ai sibili: dispregi e vituperii saranno i miei funerali. — Va, mio figlio, va e ricreati. — Vi son stati, se non erro, altri mariti traditi prima di me, e nel momento stesso in cui parlo, v’è più d’uno sposo che tien con fiducia sua moglie sotto il braccio, nè sa che i suoi diritti son stati violati nella sua assenza dal suo più caro amico. È sempre una consolazione il pensare che vi sono altri sposi, che, in onta loro, rimangono beffati. Se tutti gli uomini che hanno consorti sleali si abbandonassero alla disperazione, una decima parte del genere umano si appiccherebbe. È un male che non ha riparo; è l’influenza di qualche pianeta che domina dall’oriente all’occidente, dal nord al mezzodì. Per conchiudere, non vi è barriera per custodire una donna. È questa una piazza che ogni furfante può assaltare. Migliaia di creature, come me, hanno il male e nol sentono. — Ebbene, fanciullo?

Mam. Si dice ch’io vi rassomiglio.

Leon. Quest’è pure un conforto. — Che! Camillo è qui?

Cam. Sì, mio buon signore.

Leon. Va ad attendere ai tuoi giuochi, Mamilio; tu sei un valentuomo. — (Mam. esce) Camillo, quel gran sire prolunga il suo soggiorno.

Cam. Vi è costata molta fatica il fargli tener l’ancora nel vostro porto; avevate un bel gittarla, ella tornava sempre a voi.

Leon. Notasti tal cosa?

Cam. Ei non voleva cedere alle vostre preghiere; più l’incalzavate, e più allegava importanti bisogne.

Leon. Te ne sei tu avvisto? Ecco dunque altri osservatori che si mormorano all’orecchio, che il re di Sicilia è tradito. — Il male deve aver fatto già grandi progressi, se lo per ultimo me ne accorgo. — Come si è egli determinato di restare, Camillo?

Cam. Per le preghiere della buona regina.

Leon. Ottimamente, e tale idea è ella anche ad altri venuta? Il tuo pensiero è di una natura assorbente, ed abbraccia più cose, che non sia dato ad uno sposo di comprenderne. L’osservazione fu tua soltanto, o vien divisa anche da spiriti più volgari? Parla.

Cam. L’osservazione, signore? Credo che ognuno comprenda abbastanza, che il re di Boemia vuol far qui un soggiorno più lungo.

Leon. Ebbene?

Cam. E che ei fa qui un più lungo soggiorno.

Leon. Ma perchè?

Cam. Per soddisfare Vostra Maestà, ed arrendersi alle istanze della nostra regina.

Leon. Arrendersi alle istanze della vostra regina? Basta così. — Ascolta, Camillo, io ti ho confidati i più cari segreti del mio cuore, siccome quelli dello Stato mio, e come il sacerdote a cui riveliamo le nostre colpe, tu hai purgato il mio seno da amori malefici, e lasciato mi hai sempre qual tuo penitente convertito: ma io ho errato rispetto alla tua integrità, grandemente mi sono ingannato.

Cam. Il Ciel nol voglia, signore.

Leon. Sì, tu non sei onesto, o se inchinato a ciò ti mostri, un vile sei che recidi i talloni all’onestà, e le impedisci di seguire il suo corso naturale: se questo non fosse, bisognerebbe che io ti riguardassi come un ingrato, o un pazzo, che vede rapirmi i miei più ricchi tesori, e ne ride come se nulla fosse.

Cam. Mio nobile sovrano, posso essere negligente, insensato e timido; nessun uomo è così esente da tali difetti, che la sua negligenza, la sua follìa e la sua timidezza non si mostrino qualche volta nell’infinita moltitudine dei negozi di questo mondo. Se mai son stato negligente per voi, signore, senza disegno, fu in me follìa; se fui leggero, se vacillai in qualche opera di cui l’esito mi paresse dubbio e di cui necessaria fosse l’esecuzione, infermità son codeste dalle quali il più savio può essere tocco. Ma scongiuro Vostra Maestà di parlarmi in modo più chiaro, e di farmi conoscere palesemente il mio fallo, che s’io negherò, sarà perchè non l’avrò commesso.

Leon. Non hai tu veduto Camillo, (e veduto certo l’avrai) o inteso dire, (perchè intorno ad una cosa visibile le lingue non possono tacersi) o pensato, (avvegnachè non vi ha facoltà di pensiero nell’uomo, che atta non sia a tali riflessioni) che mia moglie mi è infedele? Se vuoi, confessalo; o altrimenti negalo con impudenza, nega che tu abbia gli occhi, le orecchie e un pensiero. Se infedele ella è dunque, essa merita l’abbominio di tutti i buoni Che mi rispondi?

Cam. Non vorrei udire offuscar la fama della mia regina, senza sguainar la spada. Voi avete proferite indegne parole, cui il ripetere sarebbe un delitto tanto grande, quanto quello che voi sospettate che ella possa aver compiuto.

Leon. E nulla è dunque il favellarsi all’orecchio? Nulla l’avvicinarsi tanto colle teste? Nulla il baciarsi internamente le labbra? Nulla il soffocare uno scoppio di risa con un sospiro? E il cercare le ombre più romite, e il desiderare perpetuamente la notte, e il volere la cecità comune per compiere inavvertita la colpa; nulla sarà tutto ciò? In tal caso il mondo, e quanto nel mondo si racchiude, è nulla del pari! Questa vòlta dei Cieli che ne copre non esiste; la Boemia non esiste; mia moglie non esiste e tutto è vano se ogni cosa non è che nulla.

Cam. Mio caro sovrano, bandite tal pensiero che è dei più funesti.

Leon. Sì funesto, ma vero.

Cam. No, signore, no.

Leon. Sì, ti dico: tu menti. Ti dico che menti, Camillo, e ti abborro. Dichiara che sei un inetto, o un ipocrita che puoi vedere con occhio indifferente il bene o il male, inclinato del pari ad entrambi secondo l’occasione. Se il sangue della mia sposa fosse così corrotto, come lo è il suo onore, ella non vivrebbe neppure il tempo che mette a vuotarsi un orologio da polvere.

Cam. Chi è il suo corruttore?

Leon. Quegli che come una medaglia la porta sempre appesa al collo, il re di Boemia. Se avessi intorno a me servi zelanti e fidi, a cui stesse a cuore l’onor mio come i loro personali interessi, essi farebbero cessar tanta infamia. Tu, suo coppiere, tu, che tratto io ho dall’oscurità, ed innalzato al posto di gran signore;, tu, che veder puoi così chiaramente come il cielo vede la terra e la terra il cielo, quanto sono oltraggiato, tu potresti apprestare una tazza, che chiudesse per sempre gli occchi del mio nemico, e tal pozione sarebbe pel mio cuore un balsamo che il sanerebbe.

Cam. Sì, signore, potrei farlo, e non con una pozione violenta, ma con un liquor mite, i di cui effetti insensibili non tradirebbero la sua malignità come veleno; ma indurmi non so a credere che di tanta perfidia sia stata capace la mia venerata signora.

Leon. Se ne dubiti, esci, e non venirmi più innanzi. Mi credi tu d’immaginazione sì nera, di cervello tanto malato, da cercar di cruciarmi così da me? da lordar la bianchezza del mio talamo, che candido procaccia un dolce sonno, ma che una volta contaminato, si riempie d’acute spine, d’ortiche e di pungoli d’ogni maniera? da far cadere l’ignominia sul sangue del principe mio figlio, che credo esser mio, e che come mio amo? Senza mature ed appaganti ragioni che mi vi forzano, credi tu ch’io volessi sospettare tanta disavventura? Un uomo potrebbe egli trascorrere a tale eccesso di demenza?

Cam. Debbo credervi, signore, e vi libererò dal re di Boemia, purchè quand’egli sarà tolto di mezzo. Vostra Maestà acconsenta a riprender la regina, e a trattarla colla tenerezza di prima, non fosse per altro che per l’interesse di vostro figlio, e per impor silenzio alle lingue che osassero mormorare.

Leon. É la condotta appunto ch’io avrei seguito. Del suo onore non mai le favellerò.

Cam. Ite dunque, signore, e mostrate al re di Boemia e alla vostra sposa tutta la calma e la serenità che l’amicizia sa esprimere. Io, coppiere di Polissene, gli porgerò una bevanda venefica.

Leon. Basta; la metà del mio cuore è tuo: che se poi non m’obbedissi troveresti la morte.

Cam. Obbedirò, signore.

Leon. Ecco che assumo le sembianze d’un amico, come tu mel consigli. (esce)

Cam. Oh sfortunata regina! Ma in quale condizione sono io ridotto! Bisogna ch’io avveleni l’onesto Polissene, e la mia scusa per tale opera è l’obbedienza al signore mio, ad un uomo, che in guerra con se stesso, vorrebbe che tutti quelli che gli stanno intorno del pari lo fossero. — Compiendo tale azione, io accrescerò la mia ricchezza: ma quand’anche potessi trovare l’esempio di mille sudditi che, dopo abbattute le persone sacre dei re, prosperato avessero, non per anche tale opera riempirei; e giacchè alcuno non ne ho, e so che la scelleratezza si rifiuterebbe ad eseguire tal misfatto... bisogna che lasci la Corte: ch’io il faccia o no, la mia rovina è inevitabile. Stelle benefiche, splendete ora sopra di me. Ecco il re di Boemia. (entra Polissene)

Pol. Strano in verità! Parmi che il favore di cui godeva declini assai. Neppur parlarmi?... Buon giorno, Camillo.

Cam. Salute, nobile re.

Pol. Quali novelle alla Corte?

Cam. Nulla di straordinario, signore.

Pol. All’aspetto che ha il re, si direbbe che egli avesse perduta una provincia, qualche porzione de’ suoi Stati che molto gli fosse cara. Gli sono andato incontro ora coll’usata cortesia, ma egli volgendo gli occhi altrove, e movendo le labbra a un atto di disprezzo, mi è sfuggito abbandonandomi in preda alle mie riflessioni sopra ciò che ha potuto così mutare la sua condotta.

Cam. Non oserei argomentare, signore.....

Pol. Non osereste argomentare? Dite piuttosto che non volete dirmi quel che sapete. Voi dovete essere a parte certamente del motivo di tal cambiamento. Caro Camillo, il vostro volto alterato è per me uno specchio, in cui io leggo che qualche novità è occorsa.

Cam. Vi è un male infatti, ma ch’io non posso dirvi: ed un tal male ha preso voi.

Pol. Me? Camillo... per quanto è vero che voi siete un gentiluomo pieno di scienza ed esperienza, che adorna tanto la nostra nobiltà quanto possono farlo i nomi più illustri dei nostri avoli, io vi scongiuro, se sapete qualche cosa che mi riguardi, di dirmene: di non persistere nel silenzio lasciandomi nell’ignoranza.

Cam. Non posso rispondere.

Pol. Rispondetemi, Camillo, ve ne scongiuro in nome di tutto ciò che avete di più sacro. Dichiaratemi il pericolo che mi circonda, e come posso prevenirlo, o in qual guisa affrontarlo.

Cam. Signore, parlerò, poichè tanto insistete. Badate al mio consiglio, che debbo essere seguito, o saremo perduti.

Pol. Continuate.

Cam. A me fu affidato il carico di uccidervi.

Pol. Da chi?

Cam. Dal re.

Pol. Perchè?

Cam. Egli crede e giura, come se l’avesse visto coi suoi occhi, che voi tenete un illecito commercio colla regina.

Pol. Ah! se ciò è vero, il mio sangue si muti in veleno, e il mio nome sia accoppiato con quello del uomo più vile: la mia fama faccia rabbrividire quante creature esistono, e il mio contatto sia evitato con maggior cura della peste più contagiosa di cui l’istoria abbia mai parlato.

Cam. Fate per distoglierlo dalla sua opinione tanti giuramenti quante stelle ha il cielo, e potrete del pari impedire al mare d’obbedire alla luna, come riuscire coi giuramenti vostri a guarirlo dalla sua follia: essa durerà al pari di lui.

Pol. In qual guisa gli venne tale idea?

Cam. Lo ignoro, ma sono sicuro che egli la reputa fondata sopra le più sagaci osservazioni. Se osate dunque fidarvi di me, che vuo’ restarvi ostaggio per quanto io dico, noi partiremo questa notte: io darò gli ordini a quelli del vostro seguito per farli escire a poco a poco dalla città per differenti porte. In quanto a me, io mi consacro al vostro servigio, rinunziando qui ad ogni fortuna. Non indugiate; perocchè per l’onore di quelli che vi han data la vita, io vi ho rivelata la verità: se altre prove cercate, io non oserò di più aspettarvi, e qui non rimarrete in maggior sicurezza che nol sia un uomo proscritto dal re, e di cui egli ha giurata la morte.

Pol. Vi credo: gli ho veduto il cuore nel viso. Dammi la tua mano, sii mia guida, e avrai sempre un posto vicino a me. I miei vascelli son pronti, e già da due giorni molti del mio seguito aspettavano la mia partenza. Codesta gelosia ha per oggetto una creatura inapprezzabile; più l’oggetto è raro, più la passione deve essere estrema: qui il geloso è un personaggio potente, egli crede di essere stato disonorato da un uomo, che si è sempre dichiarato suo amico; la sua vendetta deve quindi essere delle più terribili. Il timore mi invase colle sue ombre; una pronta fuga divenga la mia salute, e valga a salvare questa innocente regina sì ingiustamente sospettata. Vieni, Camillo, io ti riguarderò come padre, se giungi a redimere la mia vita dalla sorte che la minaccia. Fuggiamo.

Cam. Posso fare aprire tutte le porte della città: Vostra Altezza approfitti dell’istante: il tempo incalza; andiamo. (escono)

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