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Traduzione dall'inglese di Carlo Rusconi (1859)
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ATTO QUARTO
Entra il Tempo come coro.
Temp. Sono io che reco piaceri a taluno e che pongo tutto alla prova. Io son la gioia delle persone dabbene e il terrore dei tristi; io maschero e strappo le bende dell’errore, e in virtù del mio nome intendo oggi profittare delle mie ali. Non me ne fate un carico, nè in mala parte guardate il rapido volo con cui trascorro sullo spazio di sedici anni, lasciando sì vasto intervallo nel nulla e nell’oblìo. Poichè è in mia podestà di rovesciare le leggi stabilite e di creare, o d’annientare un uso nello spazio di una delle ore di cui sono il padre, lasciatemi essere ancora quello che era prima che l’ordine e le costumanze antiche e moderne fossero stabilite. Io servo da testimonio ai secoli che le hanno introdotte e, come tale, gioverò agli usi nuovi che ora regnano; farò passare e invecchiare quello che adesso risplende, e lo renderò così antico, come lo sembra questa storia. Se la vostra indulgenza mi concede tale libertà, rivolgo il mio orologio, e fo prendere alla scena un gran corso, come se voi aveste intanto dormito. Lasciando Leonte agli effetti della sua pazza gelosia e del dolore da cui è oppresso, e per cui s’è ridotto alla più austera solitudine, imaginate ora, gentili spettatori, di essere nel bell’impero della Boemia, e rammentate che ho fatto menzione del figlio d’un re, che si chiama Florizel, come menzione debbo farvi di Perdita, le di cui grazie eguagliano le meraviglie dei suoi destini. Io non vi predirò la sua sorte, ma ve la porrò innanzi. La figlia di un pastore e la sua storia, saranno il soggetto di cui il Tempo v'intratterrà. Concedetemi la libertà che vi ho chiesta, se avete talvolta impiegato più male il vostro tempo che nol facciate ora, se no il Tempo stesso vi augura di non mai più male impiegarlo. (esce)
SCENA I.
La stessa. — Una stanza nel palazzo di Polissene.
Entrano Polissene e Camillo.
Pol. Te ne prego, buon Camillo, non infestarmi di più; soffro molto a rifiutarti quel che mi chiedi, ma morirei accordandotelo.
Cam. Son già sedici anni che non ho veduto il mio paese. Desidero di morirvi, quantunque abbia respirata un’aria straniera durante la più gran parte della mia vita. Il re, mio signore, pentito, mi ha mandato a richiedere: io potrei recare qualche sollievo ai suoi mali, o almeno ho la presunzione di crederlo; questo motivo è un secondo pungolo che mi eccita a partire.
Pol. Se mi ami, Camillo, non cancellare tutti i tuoi servigi, lasciandomi, il bisogno che ho di te, è la tua bontà che l’ha fatto nascere; meglio era non possederti mai, che perderti adesso; tu hai cominciato opere, che niuno è in istato fuor di te, di ben condurre; devi dunque restare per portarle ad un termine, o nullo sarà il merito delle tue cure passate. S’io non le ho ricompensate abbastanza (e non posso, lo so, ricompensarle a dovere), il mio studio ormai sarà in provarti meglio la mia riconoscenza, accrescendo quell’amicizia che regna fra noi. Te ne prego, non parlarmi più della Sicilia, di quella fatal contrada il di cui nome solo mi affligge e mi ricorda con dolore la memoria di mio fratello, quel re pentito, come tu lo chiami, di cui si deve anche adesso deplorare la perdita che fece dei figliuoli e della più virtuosa delle regine. Dimmi, quand’hai tu veduto il principe Florizel, mio figlio? È una sventura pei re, l’aver prole indegna, ma meno sventura non è il perderla, allorchè conosciute se ne sono le virtù.
Cam. Signore, tre giorni fa ho veduto il principe, ma quali siano le sue occupazioni, non lo so: solo ho osservato, che da qualche tempo egli vive ritirato dalla Corte, e che si vede meno assiduo agli esercizi degli altri giovani.
Pol. Ho fatto io pure la medesima osservazione, Camillo, e volli fosse più dappresso scandagliato: ho saputo che ei va quasi sempre nella capanna di un pastore dei più rozzi, che da uno stato di miseria è giunto, senza che sappia in qual modo, ad una ricchezza immensa.
Cam. Ho inteso parlar di quell’uomo, signore, egli ha una figlia egregia, la di cui riputazione si estende molto al di là di quello che potrebbe credersi, vedendola uscire da un miserabile tugurio.
Pol. È quello che anche a me fu narrato: ma temo il vezzo che attira colà nostro figlio. Bisogna che tu m’accompagni; andrem sconosciuti a parlar con quel pastore, e dalla sua semplicità rileveremo facilmente la segreta cagione che ivi attira il figliuol mio. Seguimi, te ne prego, e abbandona ogni idea della Sicilia.
Cam. Obbedirò ai vostri comandi.
Pol. Mio caro Camillo, andiamo a travestirci. (escono)
SCENA II.
La stessa. — Una strada vicino alla capanna del Pastore.
Entrano Autolico cantando.
Aut. «Quando i narcisi cominciano a mostrarsi e le fanciulle danzano nelle valli, allora si inizia la più dolce stagione dell’anno. Tutto si colora, rivive e si rinfresca. Gli uccelli cantano e l’appetito aguzza i denti. L’allegra lodala e la passera cianciatrice dicono alla terra ed al cielo mille cose. Tutto fiorisce...»
Ho servito il principe Florizel, e portai un tempo il velluto: oggi son fuor di servizio.
«Ma mi lagnerò io per ciò, mia cara? La pallida luna splende durante la notte, e quando io erro pei sentieri, è allora che vo più dritto: se permesso è ai calderai il vivere e il portar le loro masserizie coperte di pelle di cinghiale, io pur potrò bene legittimare il mio mestiere e inscrivermi nella classe dei mercatanti».
Il mio traffico è fatto di foglie leggere. Quando la cornacchia intesse il suo nido, badate alle vostre biancherie. Mio padre mi ha nominato Autolico, ed essendo, come sono, entrato in questo mondo sotto il pianeta di Mercurio, venni destinato ad occuparmi di cose di poco valore. Io vivo di dadi e di bagascie, e mi è di reddito la piccola furfanteria. I patiboli e gli assalti fatti nelle grandi strade, son cose troppo al disopra di me; esser battuto e appiccato, mi empie di spavento; quanto alla vita futura, la fo dormire nel pensiero del presente. — (vedendo il Clown) Cattura! Cattura! (entra il Clown)
Cl. Esaminiamo. Undici capri dàn ventotto lire di lana, ventotto lire danno cinque ducati; mille e cinquecento velli, quanti ducati danno?
Aut. Se il laccio è forte (a parte) l’uccello è mio.
Cl. Non posso venir a capo di tal calcolo: vediamo. — Che cosa comprerò io per la festa della tonsura dei capri? Tre libbre di zucchero, cinque d’uva e di riso. Che cosa se ne farà mia sorella del riso? Mio padre l’ha creata regina della festa, ed ella deve sapere a che cosa giovi. Mi ha dato ventiquattro mazzetti per i tosatori, tutti eccellenti cantanti, senonchè v’è fra essi un puritano che intuona i salmi sopra le arie pastorali. Bisogna che abbia un po’ di zafferano per colorire i dolci, un po’ di dattili e un po’ di moscato; troverò tutte queste droghe. Quattro libbre ancora di prune mi vogliono e altrettante di sorbi cotti al sole.
Aut. Oh perchè sono io mai nato! (dibattendosi sul terreno)
Cl. In nome di...
Aut. Soccorso, soccorso, toglietemi questi cenci, e datemi poscia la morte.
Cl. Oimè! povera anima, tu avresti bisogno di più cenci ancora per coprirti, piuttosto che questi ti venissero tolti.
Aut. Oh signore, il ribrezzo che questi cenci m’inspirano, mi fa soffrir di più che le percosse che ho ricevute, e nondimeno molte e molto aspre ne ebbi.
Cl. Povero infelice!
Aut. Fui derubato, signore, e battuto: mi fu preso il denaro e gli abiti, e poste mi vennero indosso queste luride vesti.
Cl. Foste assalito da un uomo a cavallo o a piedi?
Aut. Da un uomo a piedi, amico, da un uomo a piedi.
Cl. Infatti dev’essere stato un uomo a piedi, dalle vesti che vi ha lasciate. Dammi la tua mano e ti aiuterò a rialzarti.
Aut. Mio caro signore, quanto siete compassionevole.
Cl. Oimè, povera anima!
Aut. Ahi, io temo d’aver una spalla slogata.
Cl. Puoi tu star dritto?
Aut. Adagio, mio caro signore. (fruga nella saccoccia del Clown) Voi mi avete reso un servigio ben pio.
Cl. Avreste bisogno di un po’ di denaro? Potrei darvene.
Aut. No, mio caro signore, ve ne scongiuro. Ho un parente poco lungi di qui da cui andavo, e da lui troverò quello che mi occorre: non mi offrite denaro perchè il mio cuore ne soffre.
Cl. Che razza d’uomo era quello che vi ha spogliato?
Aut. Un uomo che conobbi altra volta al servizio del principe, e che è stato cacciato poscia dalla sua Corte.
Cl. Pei suoi vizii, certamente. La virtù non vien bandita dalle Corti; essa vi è accarezzata invece onde vi dimori quantunque il soggiorno che vi fa sia sempre breve.
Aut. Ei fu cacciato pei suoi vizii e ha praticato poscia mille mestieri. È stato portatore di scimmie, sollecitatore di processi, fabbricatore di burattini, e per ultimo ha sposata la moglie di un calderaio a un miglio di distanza dalle mie terre. Dopo aver così esercitate mille indegne professioni, si è fermato finalmente a quella di furfante: alcuni lo chiamano Autolico.
Cl. Maledizione su di lui: è uno scaltrito per eccellenza: frequenta le feste dei villaggi, le fiere e i combattimenti degli orsi.
Aut. È quello, è quello; e vedete come mi ha conciato.
Cl. Non v’è maggior codardo in tutta la Boemia. Se gli aveste solo guardato di traverso, se la sarebbe data a gambe.
Aut. Bisogna che vi confessi ch’io ho poco coraggio, ed egli sicuramente doveva saperlo.
Cl. Come state ora?
Aut. Molto meglio; posso camminare, e mi accommiato da voi per andarmene a casa del mio parente.
Cl. Debbo riporvi sulla via?
Aut. No, mio buono ed obbligante amico.
Cl. Addio dunque, state bene; convien ch’io vada a comprar droghe per la nostra festa dei velli.
Aut. Prosperate, prosperate. — (il Cl. esce) La vostra borsa non è ora abbastanza calda per comprar droghe. Verrò io pure alla festa; ve lo prometto. Se non fo succedere a questa prima astuzia un’altra ruberia, e se non cambio i tosatori in montoni, acconsento di essere cancellato dal libro dei malandrini e ad esser posto in quello dei probi, (cantando) Segui il sentiero, segui il sentiero, e corriamo oltre senza più fermarci. Un cuore allegro cammina tutto il dì, ma un cuor tristo si stanca dopo un breve andare. (esce)
SCENA III.
La stessa. — La capanna del Pastore.
Entrano Florizel e Perdita.
Flor. Quegli abiti, quella acconciatura insolita ravvivano tutti i vostri vezzi. Voi non siete una pastorella; siete Flora, seguace della primavera: questa festa dei velli pare un’assemblea di Semidei e si direbbe che voi ne foste la regina.
Per. Mio amabile prìncipe, non mi si addice il biasimare i vostri elogii soverchii: perdonatemi se così li chiamo; voi, oggetto illustre degli sguardi di tutto il paese, voi avete eclissato tutto lo splendore della vostra grandezza, vestendovi da pastore; ed io povera e semplice figlia dei boschi, adorna sono come una Dea. Se non fosse che nelle nostre feste non regna che follia, e che i convitati si abbandonano a tutti i loro talenti, io arrossirei di vedervi così vestito, riguardando me nello specchio.
Flor. Benedico il giorno in cui l’ingegnoso mio falco prese il suo volo traverso ai poderi di vostro padre.
Per. Voglia Giove darvi motivo di benedirlo: l’idea opposta mi empie di terrore. Tremo in questo momento medesimo al solo pensiero, che vostro padre, condottovi dal caso, non passi di qui come voi faceste. Oh fatalità! Con qual occhio potrebbe egli vedere la sua nobile prole, così miseramente addobbata? Che direbbe? o come sosterrei io sotto questo splendore preso in prestito lo sguardo severo della sua augusta presenza?
Flor. Non pensate che alla festa e al piacere. Gli Dei assoggettando le loro divinità all’amore, hanno sovente vestite forme d’animali: Giove s’è mutato in toro e ha mandato muggiti; il ceruleo Nettuno in capro, e ha fatto adire i suoi belati; e il Dio vestito di fuoco, Apollo, di raggi d’oro coronato, si è fatto umile pastore quale io ora sembro, nè mai le loro metamorfosi ebbero per oggetto una bellezza sì rara, nè mai essi furono da intenzioni così pure animati. I miei desiderii non vanno oltre ai limiti dell’onore e i miei sensi non sono più ardenti che nol sia il mio cuore e la mia fede.
Per. Sì, ma oimè, caro principe, la vostra risoluzione non potrà esser salda, allorchè dovrà subire, come è inevitabile, tutta la opposizione della potenza del re: allora diverrà un’alternativa necessaria, o che cessiate di amarmi, o che cessi di vivere.
Flor. Cara Perdita, te ne scongiuro; non disperdere con questi chimerici pensieri la gioia della festa; o tuo sarò, o non sarò più di mio padre, perchè nè mio, nè di alcuno posso essere, se tuo non sono. Quest’è la mia risoluzione immutabile, quand’anche i destini l’avversassero. Sii lieta e dissipa quei pensieri importuni dinanzi allo spettacolo che avrai. Ecco nuovi ospiti che sopragiungono: assumi un’aria contenta come se oggi fosse il giorno della celebrazione delle nostre nozze, che presto o tardi abbiam giurato di compiere.
Per. Oh fortuna, siine propizia! (entra il Pastore con Polissene e Camillo travestiti, il Clown, Mopsa, Dorgas e altri)
Flor. Mirate gli ospiti che si avanzano, preparatevi a ben riceverli, e i nostri volti siano animati dalla gioia.
Past. Su dunque, mia figlia! Allorchè la mia buona moglie viveva, ella era, in un giorno come questo, il coppiere, il cuoco, la dama e la fante insieme; andava incontro a tutti, serviva tutti, cantava e danzava, ora da una parte, ora dall’altra, sulla spalla di questi, sulla spalla di quegli, col volto infiammato dalle fatiche e dal liquore che beveva alla salute di ogni convitato. E voi ve ne rimanete lì in disparte, come se foste la festeggiata e non l’ospite dell’assemblea; io ve ne prego, andate incontro a quegli amici che ne sono sconosciuti e accoglieteli come meritano. Sbandite quei timidi rossori e presentatevi per quel che siete, direttrice dei giuochi: fate loro festa per esser venuti alla vostra solennità dei velli, se volete che prosperi il gregge.
Per. (a Pol.) Siate il benvenuto; è volere di mio padre ch’io m’assuma gli onori di questa festa. Siate voi pure il benvenuto, signore. (a Cam.) Tu, dammi quei fiori, (a Dor.) — Miei nobili ospiti, eccovi rosmarino e ruta; questi fiori conservano la loro apparenza e il loro odore durante tutto l’inverno; la grazia e la rimembranza di cui sono gli emblemi, vi allietino con essi; siate i ben giunti alla nostra festa.
Pol. Pastorella, e siete la più amabile delle pastorelle, avete ben ragione di presentare alla nostra età fiori d’inverno.
Per. Signore, l’anno comincia ad essere vecchio. In questi giorni in cui l’estate non è ancora spirato e il gelido inverno non è ancora nato, i più bei fiori della stagione sono i garofani screziati, che alcuni chiamano spurìi della natura; di così fatti fiori però non ne crescono nel mio giardino, nè mi cale di averne le sementi.
Pol. Perchè mai, bella giovine, li disprezzate?
Per. È che ho inteso dire che v’è un’arte che può screziarli e tingerli di bellissimo colorito, come fa la creatrice sovrana, la natura.
Pol. E se anche tal arte esistesse, sarebbe sempre vero che non vi è modo per perfezionare la natura, senza che tal modo sia l’opera e la creazione della natura istessa. Così al disopra di quell’arte che voi dite in lotta colla natura, v’è un’arte che è tutta intiera di lei sola; voi vedete, amabile fanciulla, che tutti i giorni maritiamo un tenero gambo col tronco più selvaggio, e che fecondar sappiamo la scorza più rozza, con un bottone fiorito sopra più nobile cespo. L’arte dunque può perzionare la natura, ma non è mai che sua discepola e figliuola.
Per. Avete ragione.
Pol. Arricchite dunque il vostro giardino di garofani, e non li chiamate più fiori spurìi.
Per. Non scaverò mai una buca per mettervi un gambo della loro specie, non più ch’io non vorrei, se imbellettata fossi, chi questo giovine mi chiamasse bella, nè desiderasse per ciò che di sposarmi. — Eccovi fiori per voi. La menta, la maggiorana e il fiorrancio che si addormenta col sole e si sveglia con lui bagnato di lagrime sono i fiori dell’estate che si danno agli uomini di mezza età. Siate mille volte il benvenuto.
Cam. Se fossi uno dei vostri montoni, lascerei il pascolo e non vivrei che pel piacere di contemplarvi.
Per. Quale follìa! Voi diverreste in breve sì magro, che il soffio dei venti di gennaio vi forerebbe da una parte all’altra — E per voi, il più bello de’ miei amici, (a Flor.) vorrei ben avere qualche fiore di primavera, che potesse adattarsi alla vostra giovinezza; e per voi anche, leggiadre pastorelle, che vivete nel mondo delle speranze. Oh, Proserpina, perchè non ho io qui i fiori che nel tuo spavento lasciasti cadere dal carro di Pluto! Gli asfodilli che precedono la rondinella e si cattivano i venti di marzo colla loro beltà; le viole meno splendide, ma più dolci che gli occhi azzurri di Giuno, o l’alito di Citerea; i pallidi verbaschi che muoiono vergini prima di aver ricevuti gli ardenti baci di Febo, sventura troppo comune alle giovani bellezze; i vividi giacinti e le rose innamorate, i gigli d’ogni specie e cento altri? Oh, io sono sprovvista di tutti quei fiori di cui vorrei intesservi ghirlande e versarne un nembo su di voi, mio dolce amico.
Flor. Come s’io fossi in un feretro?
Per. Sì, ma come un feretro che sepellito esser dovrebbe fra le mie braccia. Prendete i vostri fiori; parmi di compier qui la parte che ho veduta recitare nelle pastorali della Pentecoste certo, queste vesti che mi cuoprono han cambiato interamente il mio aspetto e il mio contegno.
Flor. Quello che voi fate, supera sempre quello che fatto avete. Quando parlate, mia amica, vorrei udirvi sempre parlare: quando cantate, vorrei intendervi cantar sempre; vorrei vedervi negli atti di pietà, nelle preghiere, nel presiedere alle cose domestiche: allorchè danzate, amerei foste un’onda del mare, e che non faceste mai altra cosa; sempre in moto come lei: le grazie abbelliscono ogni vostra azione; ogni vostro gesto fa stupire e si addirebbe ad una regina.
Per. Oh Doricle! le vostre lodi sono troppe: e se la vostra giovinezza, cui colora un sangue nobile e vero, non vi dichiarasse palesemente un pastore mondo di frodi, avrei ragione di temere, che non mi amoreggiaste che con menzogne.
Flor. Credo che abbiate così poca ragione per temerne, quanto io ne ho poca per pensare ad ingannarvi. Ma incominciamo le danze, ve ne prego. Datemi la vostra mano, mia cara Perdita: così si unisce una coppia di tortori, bramose di mai più separarsi.
Pol. Quest’è la pastorella più leggiadra, che mai camminasse per un prato: ogni suo moto ha in sè qualche cosa di superiore alla sua umile condizione: troppo nobile ella è per questo soggiorno.
Cam. Ei le dice qualche cosa che la fa arrossire: davvero che è la regina del latte e del burro.
Cl. Su, musica, comincia.
Dor. (a parte) Mopsa der’essere la vostra amante: e un poco d’aglio vi sarà di preservativo contro i suoi baci.
Mop. Alla buon’ora!
Cl. Non una parola di più: siam pronti, cominciate. (comincia la musica, e con essa una danza fra i Pastori)
Pol. Buon uomo, ditemi, vi prego, chi è quel pastorello che danza con vostra figlia?
Past. Lo chiamano Doricle, e si vanta di possedere ricchi e vasti pascoli: egli lo dice, ed io gliene credo, perchè ha l’aspetto d’uomo sincero. Dice anche che ama mia figlia, ed è cosa che credo pure, perchè non mai la luna si è specchiata tanto tempo nelle acque, come si vede quel giovine immobile, affissato negli occhi di mia figlia, che penso pure lo adori.
Pol. Ella danza con molta grazia.
Past. Tutto quello che fa, lo fa con grazia, sebbene a me non convenisse il dirlo. Se il giovine Doricle fissasse su di lei la sua scelta, essa gli porterebbe in dote qualche cosa, che egli non imagina. (entra un Garzone del Pastore)
Gar. Oh padrone! se aveste inteso il mercante forestiero che è fuori, non danzereste al suono della cornamusa; no, ella non vi farebbe più alcuna impressione. Colui canta molte arie differenti, con più celerità che voi non contiate il danaro: la sua bocca le adornava come se piena fosse di tali frasche, e che tutte le orecchie stessero ad ascoltarlo.
Cl. Non poteva venir più opportunamente. Bisogna che entri: le ballate mi piacciono quand’è un’istoria lamentevole, messa in tuono gioviale o un’istoria gioviale posta in tuono lamentevole.
Gar. Egli ha canzoni d’ogni fatta: ne ha per le giovinette, per le matrone, per le spose, pei fanciulli, per gli adulti e pei vecchi.
Pol. Quest’è il prodigio dei mercanti.
Cl. Tu parli, in verità, d’un uomo meraviglioso: ha con sè merci fresche?
Gar. Fettuccie d’ogni colore: pizzi, tele, sete d’ogni fatta, e mette tutta la sua valigia in musica, come se racchiudesse altrettanti Dei e Dive; credereste che una camicia fosse un angelo dal modo con cui la descrive.
Cl. Te ne prego, fallo venire, e venga cantando.
Per. Avvertitelo di non usar parole troppo libere. (entra Autolico cantando)
Aut. Tela bianca come la neve, veli neri come le penne dei corvi, guanti profumati come le rose di Damasco, braccialetti di vetro e collane d’ambra, croci e smanigli e quant’altro si addice alle fanciulle io passo vendenvi, venitene ad acquistare.
Cl. Se non fossi innamorato di Mopsa, non avresti un soldo da me: ma essendo prigioniero come sono, acquisterò fettuccie nuove per legarmi.
Mop. Me le avevate promesse per la vigilia della festa, ma anche adesso giungeranno in tempo.
Dor. Egli vi ha promesso qualche cosa di più, se è vero quel che si dice.
Mop. Ma a voi ha pacato tutto quello che aveva promesso, e cose fors’anche che arrossireste a restituirgli.
Cl. Non v’è dunque più pudore fra le nostre fanciulle? Non avete le ore in cui mungete, o in cui vi coricate, o in cui andate al forno, per svelar questi segreti, senza che veniate a favellarne dinanzi a tutti i nostri ospiti? Per fortuna essi si parlano all’orecchio: tacete una volta.
Mop. Tacio, ma voi m’avete fatto sperare bei nastri e un paio dì guanti profumati.
Cl. Non vi ho io detto come mi avevano derubato lungo la strada?
Aut. Oh! sì certo, vi sono furfanti e bisogna star cauti.
Cl. Non temer nulla: non perderai nulla qui.
Aut. Lo spero, perchè ho la mia valigia piena di mercanzie.
Cl. Hai canzoni ancora?
Mop. Comprale, comprale se ne ha: le canzoni mi piacciono tanto.
Aut. Eccovene una molto patetica: è la storia della moglie di un usuraio, che infermò per aver voluto portare venti scrigni pieni d’oro, e per la mania che aveva di mangiar teste di serpente e di rospo arrostite.
Mop. È vero?
Aut. Esattissimo: non è passato che un mese dacchè accadde il fatto.
Dor. Gli Dei mi preservino da sì fatte frenesie.
Aut. Così facciano gli Dei.
Mop. Comprala dunque, te ne prego.
Cl. Mettila a parte e vediamo altre canzoni: farem le altre spese dopo.
Aut. Eccovi un’altra ballata, sopra un pesce maraviglioso che apparve alla spiaggia, il mercoldi dell’ottantesimo aprile, quarantamila braccia al disopra dell’acqua, e cantò queste parole, contro i cuori delle fanciulle crudeli. Si è creduto che fosse una donna trasformata in quel pesce per esser stata inflessibile con un uomo che ne era amoroso; la ballata è commovente e del pari vera.
Dor. È anche vera? Possibile!
Aut. V’è il certificato di cinque giudici di pace e di più testimoni che non ne starebbero nel mio baule.
Cl. Mettetela anch’essa a parte: a un’altra.
Aut. Quest’è un allegra canzone delle più belle.
Mop. Oh! compriamone anche qualcuna da ridere.
Aut. Questa fa per voi; è sull’antica aria di due giovani amavano un vago, e non v’è forse fanciulla della provincia che non la canti: mi vien chiesta continuamente, ve l’assicuro.
Mop. Possiam cantarla tutte e due, se volete far la vostra parte.
Dor. È da un mese che conosciamo quest’aria.
Aut. La mia parte la compirò, che è il mio mestiere; voi pensate a ben riempiere la vostra.
Canzone.
Aut. Escitè di qui perchè bisogna che me ne vada, dove? questo è quel che non dovete sapere.
Dor. Dove?
Mop. Dove?
Dor. Dove?
Mop. Pel giuramento vostro dovete dirmi tutti i vostri segreti.
Dor. Ed a me pure: lasciate ch’io vi segua.
Mop. Tu vai alla fattoria, oppure al mulino.
Dor. Male è per te, che all’uno o all’altra vada.
Aut. Nè all’uno, nè all’altra.
Dor. Nè all’uno, nè all’altra?
Aut. Nè all’uno, nè all’altra.
Dor. Giurasti d’essere il mio amante.
Mop. A me ben più giurasti; dove vai dunque, dove?
Cl. Ci procureremo anche questa canzone. Mio padre e i suoi ospiti s’intrattengono in gravi negozii e non vogliamo sturbarli; su, porta la tua valigia e seguimi. Fanciulle, comprerò per entrambe. Scegliam noi per i primi, mercante: seguitemi, mie belle.
Aut. (a parte) E tu ben per loro pagherai. (cantando) Volete ghirlande, o fettuccie per acconciarvi il capo? Volete una veste di seta, o un paio di calze di filo oltramontano? Venite dal mercante: venite dal mercante, con un po’ di danaro si possono comprare tutte le merci di un mortale. (escono il Cl., Aut., Dor. e Mop.; entra un Garzone)
Gar. Padrone, vi sono alquanti pastori a cui è cresciato il pelo, e che si dicono satiri, che vogliono danzare una danza che le fanciulle assicurano piacerà molto, se non riesce troppo straordinaria.
Post. Lasciaci, non vogliam saperne di danze; se ne son fatte anche troppe. — So, signore, che vi infestiamo.
Pol. Anzi mi ricreate; vediamo anche quest’altro ballo.
Gar. Ve ne son tre di coloro, padrone, che da quel che dicono, han danzato dinanzi al re, e il meno agile di essi salta dodici piedi e mezzo quadrati.
Post. Cessa da tante ciance e falli entrare, poichè a questi buoni ospiti piace: ma fa presto.
Gar. Stanno alla porta, padrone. (esce, poi rientra con dodici pastori vestiti da satiri. Quegli danzano quindi se ne vanno)
Pol. Buon vecchio, ne saprai di più in seguito. — (a parte) Ma troppo lungi vanno, ed è tempo di separarli. Il buon uomo mi ha detto tutto quello che sapeva. — Bel pastorello, (a Flor.) il vostro cuore è pieno di qualche sentimento che distrae la vostra anima dal piacere della festa. Veramente quand’io era giovine e amavo, solevo far doni alla mia bella: io avrei posta a contribuzione la valigia del mercante, ma voi lo lasciaste partire senza curarlo. Se la vostra amata prendesse ciò in mala parte, vi riputasse poco affezionato, o poco generoso, voi non avreste che risponderle.
Flor. Mio degno vecchio, so che la mia bella non cara simili doni: quei doni’che ella da me aspetta, stanno racchiusi in questo cuore ch’io le ho di già offerto, ma di cui ella non ha ancor preso possedimento. — Oh ascolta (a Per.) pronunziare il voto dell’anima mia dinanzi a questo vecchio, che da quel che mi sembra ha un tempo amato: io prendo la tua mano, questa mano morbida come la piuma di una colomba e bianca come lei, o come il dente di un Etiope, o come la pura neve portata vergine sulle ali di qualche uragano.
Pol. E poi? — (a parte) Oh come l’accarezza e come ne sembra preso! — Proseguite, giovine, io vi ho interrotto: qual’è la dichiarazione che volevate fare?
Flor. Uditela e siatene testimonio.
Pol. E il mio compagno ancora?
Flor. Egli ancora e quant’altri qui stanno, e tutti gli uomini del mondo, se qui fossero; la terra pure e il cielo e l’universo: siate tutti testimonii, che fossi io incoronato il più gran monarca del mondo e il più potente; foss’io il più bel giovine che mai avesse fatto languir alcuna donna; avessi io più scienza che acquistar non ne può il mortale, non farei alcun conto di tali beni, senza l’amore della mia donna, e tutti li porrei ai suoi servigi, o li condannerei a perire.
Pol. Codeste son belle parole.
Cam. E mostrano una grande affezione.
Past. Ma voi, mia figlia, ne dite altrettanto per lui?
Per. Non posso esprimermi così bene, nè pensar meglio: giudico della purezza dei suoi sentimenti da quella del mio onore.
Past. Datevi le mani adunque e concludete. Voi, miei amici, sarete presenti: io do mia figlia a questo giovine, e voglio che la sua dote eguagli la fortuna del suo amante.
Flor. La dote di vostra figlia deve essere la sua virtù: dopo la morte di mio padre, avrò più ricchezze, che non possiate imaginarlo: ma uniamoci alla presenza di questi testimonii.
Past. Dategli la mano, e voi, mia figlia, la vostra.
Pol. Aspetta, pastore, un istante, te ne supplico. Hai al mondo tuo padre?
Flor. Sì, ma che per ciò?
Pol. Sa egli di tal nodo?
Flor. Nol sa, e nol saprà mai.
Pol. Farmi che un padre sia l’ospite ohe meglio segga al banchetto del figlio. Ve ne prego, ancora una parola. Vostro padre, è egli divenuto inetto a reggere le cose sue? è impazzito? può parlare, udire, distinguere un uomo da un altro e amministrar le sue cose, o giace nel suo letto incapace di far nulla fuorchè balocchi infantili?
Flor. Mio caro signore, egli è pieno di salute, e serba più forza che non ne hanno la maggior parte dei vecchi della sua età.
Pol. Per la canuta mia barba, se questo è vero, voi gli fate un’ingiuria indegna della tenerezza figliale: è giusto che il figlio si scelga da sè la sposa, ma è anche giusto che il padre, a cui non rimane più altra gioia che quella di vedere una bella posterità, sia consultato in simile negozio.
Flor. Lo consento, ma forti ragioni m’impediscono di partecipare questo nodo a mio padre.
Pol. Ditemi quali sono.
Flor. Non vale.
Pol. Ditele, ve ne prego.
Flor. No, vi dico, no.
Past. Appagalo, mio figlio, egli approverà la tua condotta, allorchè la conoscerà.
Flor. No, ei non deve esserne istrutto. Sia soltanto testimonio della nostra unione.
Pol. (scoprendosi) Del vostro divorzio piuttosto, mio giovine signore che non oso chiamare figlio. Tu sei troppo vile, perchè io per tale ti riconosca; tu erede di uno scettro, che mutato hai nella verga di un pastore. — Vecchio traditore, (al Post.) duolmi di non potere, nel farti appendere, abbreviare i tuoi dì che di una settimana. — E tu, fanciulla astuta e ingannatrice, (a Per.) devi conoscere il mentecatto regio che hai amato.
Past. Oh mio cuore!
Pol. Io farò ludibrio di quella tua beltà, e ti renderò più disprezzevole che non è il tuo stato. — Quanto a te, giovine stolto, se mai m’accorgo che osi soltanto gemere un sospiro per esser privo della presenza di costei, ch’io voglio che tu più non rivegga, ti diserederò e non ti crederò più del mio sangue. Ricorda le mie parole e seguimi alla Corte. Tu, Pastore, quantunque sia incorso in tutto il nostro cruccio, andrai per ora esente dalla punizione che meriti: e tu, incantatrice, degna di un pastore e non d’altri, se mai per l’avvenire lo accogli in questa capanna, ti trovi con lui, ti farò subire la morte più crudele che io possa imaginare. (esce)
Per. Tutto è finito! Ma la sua collera non mi atterrì: stetti più volte per rispondergli, che quel sole medesimo che rischiara il suo palagio non isdegna dì diffondere la sua luce sopra questa capanna che esso vede con occhio egualmente benigno. — Volete or voi andarvene; (a Flor.) io vi avevo ben detto, a che sarebbero riescite le cose. Vi prego, provvedete alla vostra felicità, e rompiamo il sogno che m’aveva inebbriata. Ora muoverò piangendo dietro al mio gregge.
Cam. Buon uomo parlate, che avete da dir voi?
Past. Non posso nè parlare, nè pensare, e non so più dove sono. Ah signore! (a Flor.) voi avete causata la ruina di un ottuagenario, che sperava di scendere in pace nella tomba, che sperava di morire sul letto, sopra di cui suo padre era morto, e di riposare accanto alle virtuose sue ceneri: ma ora il carnefice mi rivestirà d’un drappo mortuario e mi porrà in parte, dove alcun sacerdote non getterà un po’ di polvere sopra il mio corpo. Oh sciagurata! (a Per.) che sapevi che era il principe e volesti avventurarti ad amarlo. Io son perduto, son perduto! Se potessi soccombere in questo momento, avrei finita la mia vita, quando appunto lo desidero.
Flor. Perchè affisi tu così i tuoi sguardi sopra di me? Io sono afflitto, ma non temo. Tutto è differito, ma nulla è mutato nella mia volontà. Quel ch’io era lo sono ancora. Più vengo spinto indietro, e più voglio andare innanzi: non avete fede in me?
Cam. Mio amabile principe, voi conoscete il carattere di vostro padre. In questo momento egli non vi permetterà alcuna rimostranza, e credo che non vorreste fargliene: ei soffrirebbe adesso, io penso, solo vedendovi: fin dunque che il suo furore non sia calmato, non vi presentate a lui.
Flor. Non ne ho il pensiero. Ma voi siete sempre per me quel medesimo Camillo?
Cam. Sempre il medesimo, signore.
Per. Quante volte non aveva io preveduta questa sventura! Quante volte non vi avevo detto che le mie grandezze finirebbero col venir in luce del nostro segreto!
Flor. Esse non possono finire che per la violazione della mia fede; e prima che questa segua, vorrei che la natura facesse inaridir tutti i semi dell’umanità! Alza gli occhi e rassicurati. — Toglietemi la vostra eredità, padre mio: l’eredità mia è il mio amore.
Cam. Udite i consigli?
Flor. Gli ascolto; ma son quelli del mio amore; se la mia ragione vuole obbedirvi, a lei attendo: se no, preferisco ad essa la passione.
Cam. Questa è imprudenza, signore.
Flor. Chiamatela col nome che volete; io la reputo virtù. Camillo, nè per la Boemia e le mille grandezze del suo impero, nè per tutto ciò che il sole rischiara, o che racchiude il seno della terra, o che il mar nasconde nella profondità de’ suoi gorghi inviolati io non romperò i giuramenti che ho fatti a questa fanciulla. Ve ne scongiuro dunque, essendo voi sempre stato l’amico di mio padre, allorchè egli avrà perdute le traccie di suo figlio, perchè mio disegno è di non più rivederlo, di temperar la sua passione coi vostri saggi suggerimenti. Io lotterò colla fortuna per l’avvenire, e m’imbarcherò con l’amante mia sopra un vascello che sta per mettere alla vela, poichè esserle non posso unito su queste sponde. Quanto alla strada che terrò, non vi è d’alcun vantaggio per voi il saperla, come non è d’alcun interesse per me ch’io ve la manifesti.
Cam. Oh signore! vorrei che foste più docile.
Flor. Ascoltatemi, Perdita. (le parla in disparte) Udirò anche voi frappoco. (a Cam.)
Cam. Egli è fermo nell’idea di fuggire. Ora sarei contento se potessi valermi della sua evasione al mio scopo; salvarlo dal pericolo, provargli la mia affezione e il mio rispetto, rivedere un’altra volta la cara Sicilia e quello sfortunato re, mio signore, che tanto ho bramato di riabbracciare.
Flor. Caro Camillo, le molte cose a cui debbo attendere mi vietano d’intrattenermi con voi.
Cam. Signore, io credo che vi sia noto l’affetto che ho sempre portato a vostro padre.
Flor. Voi avete ben meritato da lui coi vostri servigi, ed è un dolce piacere per mio padre il favellarne: egli ve ne ha, credo, ricompensato come meritavate.
Cam. Ebbene, signore, se avete la bontà di credere ch’io ami il re, e con lui quello che gli sta più presso, la vostra illustre persona, degnatevi lasciarvi dirigere da me, se il disegno vostro può soffrire ancora qualche mutamento. Sull’onor mio, io v’indicherò un luogo dove troverete quell’accoglienza che si addice a vostra Altezza e dove potrete liberamente possedere la vostra amante, da cui veggo che non sapreste separarvi che colla vostra ruina, che il Cielo non voglia. Sposatela, ed io farò tutti gli sforzi nella vostra assenza per calmare lo sdegno di vostro padre e condurlo ad approvare la vostra scelta.
Flor. Caro Camillo, come potrebbe seguir ciò? Ditemelo, onde io ammiri in voi un nume, e mi abbandoni poscia con fiducia alle vostre istruzioni.
Cam. Avete fermato il luogo in cui volete andare?
Flor. No; tanto mi stordi l’avvenimento.
Cam. Uditemi dunque: ecco quello che debbo dirvi. Se non volete mutare risoluzione, e siete fermo a questa fuga, fate vela verso la Sicilia e presentatevi colla vostra bella principessa, che tale ella diverrà, dinanzi a Leonte. Ella sarà vestita come si addice alla compagna del vostro letto. Farmi di vedere Leonte ad aprirvi affettuosamente le braccia, esprimendovi l’amor suo colle sue lagrime; e chiedendo perdono a voi che siete il figlio, come lo farebbe a vostro padre, baciare le mani della vostra bella principessa, fieramente combattuto dai rimorsi della sua crudeltà e dal bisogno di diffondere la sua tenerezza, rimproverandosi l’una con maledizioni, e sfogando l’altra con copiosi pianti.
Flor. Caro Camillo, ma come colorirò siffatta visita?
Cam. Direte che siete inviato dal re vostro padre, per salutarlo e consolarlo. Vi scriverò in qual guisa dovete comportarvi con lui, e quel che dovete esporgli come per parte del genitor vostro intorno ai fatti che non son conosciuti che da noi tre. Queste istruzioni faran sì ch’egli crederà che godiate tutta la confidenza del vostro genitore e che gli riveliate i segreti dell’anima sua.
Flor. Quanti obblighi vi ho!
Cam. Questo disegno è meglio ordinato che quello di avventurarvi follemente sopra mari inospiti, verso rive sconosciute, colla certezza d’incontrare molte miserie senza alcuna speranza di soccorso, e certo all’escire d’ogni infortunio d’incontrarne un altro: non avendo altra fidanza che nelle vostre àncore che non possono che farvi rimanere in luoghi in cui vi cruccierete di dover restare. Poi lo sapete, che la prosperità è il pascolo più sicuro dell’amore, e che la sventura ne altera la freschezza e corrompe le anime.
Per. Credo che la freschezza del volto possa alterarsi per l’avversità, ma non quella dell’anima.
Cam. Voi lo credete? Siete un’egregia fanciulla.
Flor. Mio caro Camillo, ella è tanto al disopra della sua educazione, quanto umile fu lo stato in cui la pose la natura.
Cam. Non posso dire che è peccato che manchi d’istruzione, perocchè sembra averne più che la maggior parte di coloro che fanno professione d’istruir gli altri.
Per. Il mio rossore, signore, vi ringrazii per me.
Flor. Amabile Perdita... Ma su quali spine siamo noi posti? — Camillo, redentore di mio padre, ed ora mio, consolazione della nostra casa, come farem noi? Noi non abbiamo il seguito che si addice al figlio di un re, e non potremo mostrarci in Sicilia.
Cam. Non vi date alcun pensiero per questo, signore. Voi sapete, credo, che io posseggo molte ricchezze in quell’isola; sarà mia cura che troviate colà tutto quello che debbe aver un principe. E onde convincervi che non mancherete di nulla, udito una parola. (parlano in disparte; entra Autolico)
Aut. Oh come è facile a restar beffata l’onestà, e quanto la confidenza, di lei sorella, è sciocca! Ho vendute tutte le mie merci; non mi rimane una sol pietra falsa, nè una fettuccia, nè uno specchio, nè una palla di sapone, nè un coltello, nè un guanto, nè un’armilla, tanta fu la pressa de’ compratori, come se quelle mie inezie fossero state benedette e avessero potuto procacciare grandi vantaggi a chi le acquistava. Il mio pastore, a cui manca poco per essere un uomo ragionevole, s’innamorò siffattamente delle canzoni ch’io gli diceva, che lo si sarebbe potuto spogliare, senza che se ne avvedesse. Nè dal suo stupore dissentivano gli altri, cosicchè io profittando di quella general letargia, mi sono impossessato della maggior parte delle loro borse; e se il vecchio non fosse venuto colle sue grida contro sua figlia e il figlio del re, e non avesse dispersi i miei uccelli, non avrei lasciato loro un quattrino da riportare a casa. (Camillo, Florizel e Perdita vengono avanti)
Cam. Sino le mie lettere che con tal mezzo giungeranno in Sicilia, allorchè voi vi arriverete, schiariranno tal dubbio.
Flor. E quelle che ci procurerete dal re Leonte...
Cam. Appagheranno vostro padre.
Per. Siate per sempre felice! Quel che voi dite offre le più belle apparenze.
Cam. Chi è quell’uomo? (vedendo Aut.) Lo impiegheremo: non trascuriamo nulla di quello che può esseme utile.
Aut. (a parte) Se hanno inteso quel che dianzi dissi, il patibolo solo mi attende.
Cam. Venite oltre, amico, non tremate: nessuno vi vuol far male.
Aut. Sono un povero infelice, signore.
Cam. Continua ad esserlo finchè vuoi, non v’è alcuno che t’invidii il titolo; nullameno noi possiamo proporti un cambio coll’esterno della tua povertà. Spogliati tosto, e muta abito con quest’onest’uomo. Quantunque il contratto gli sia dannoso, pure vi sarà per lui qualche compenso nel farlo.
Aut. Sono un infelice, signore. (a parte) Del resto, vi conosco tutti.
Cam. Su via, affrettati; quest’onest’uomo è già a metà svestito.
Aut. Parlate voi da senno, signore? (a parte) Intravedo il mistero che qui cova.
Flor. Fa presto, di grazia.
Aut. Non posso prendere quell’abito, in coscienza, nol posso.
Cam. Via, via, non far l’ipocrita. — (a Per.) Fortunata amante, voglia compiersi per voi la mia profezia. Ritiratevi in qualche parte, prendete il cappello del vostro amatore e calcatelo sui vostri sopraccigli, nascondendo il vostro volto. Deponete gli abiti del vostro sesso, e celate tutto quello che lo dichiara, onde possiate giungere al vascello senz’essere scoperta.
Per. Compirò la mia parte.
Cam. È necesario. — (a Flor.) Avete finito?
Flor. Se anche incontrassi ora mio padre, ei non vorrebbe chiamarmi figlio.
Cam. Gettate via anche il cappello. Venitene tutti e due con me. — Addio, amico. (ad Aut.)
Aut. Addio, signore.
Flor. Oh Perdita, che cosa abbiamo mai dimenticato! Udite, ve ne prego, una parola. (si parlano in disparte)
Cam. (a parte) Quel che prima di tutto farò, sarà di istruire il re di questa evasione e del luogo dove vogliono andare e dove spero poterlo determinare a seguirli: io l’accompagnerò e rivedrò così la Sicilia.
Flor. La fortuna ci secondi! Noi andrem dunque ad imbarcarci, Camillo?
Cam. Quanto più presto sarà, tanto sarà meglio. (escono Flor., Per. e Cam.)
Aut. Vedo che fu. Un orecchio acuto, un occhio panetrante, una mano leggera, son qualità indispensabili per un tagliaborse: ma bisogno v’è ancora d’un buon naso, per sentire dov’è denaro, e dar così campo agli altri sensi di essere impiegati. Quest’è il momento in cui un furfante può percorrere un bel tratto di via. Il principe vuol fuggire da suo padre e condur seco quella fanciulla: se non fosse un’opera onesta l’informarne il re, lo farei; ma credo che vi sia più furfanteria nel tener la cosa segreta e voglio essere fedele alla mia professione. (entrano il Clown e il Pastore) Poniamoci in disparte. Ecco nuova materia per un cervello infiammabile. Ogni strada, ogni chiesa, ogni bottega, ogni corte di giustizia può dar impiego ad un uomo vigilante.
Cl. Vedete, vedete come siete. Non v’è altro partito ora, che di andare a dichiarare al re che è una fanciulla trovata, e non della vostra carne e del vostro sangue.
Past. Ma ascoltami.
Cl. Ma ascoltatemi.
Past. Continua dunque.
Cl. Dichiarato ch’ella non è della vostra carne nè del vostro sangue, la vostra carne e il vostro sangue non hanno offeso il re e non devono per conseguenza essere da lui puniti. Mostrate quegli oggetti che trovaste vicino a lei, quei fogli segreti soltanto; e ciò fatto, non vi curate della legge: io vi sarò cauzione.
Past. Ebbene, andrò a dichiarar tutto al re.
Aut. (in disparte) A meraviglia, automi.
Past. Andiamo; v’è nel piccolo scrigno di che fargli grattar la barba.
Aut. Non veggo quale ostacolo possa mettere tale risoluzione all’evasione del mio principe.
Cl. Preghiamo il Cielo di ritrovarlo.
Aut. Sebbene non sia per natura onesto, lo sono qualche volta per caso: poniamoci questa barba da mercante in saccoccia. (si leva la barba) — Olà, rustici? Dove andate?
Past. Al palazzo, se Vostra Signoria lo permette.
Aut. Per che farvi? Dichiaratemi che cosa avete lì sotto, e quali sono i vostri nomi, le vostre età, la vostra dimora, la vostra educazione, le vostre ricchezze, in una parola, tutto quello che importa che sia conosciuto.
Cl. Noi siam solo buona gente, signore.
Past. Siete voi un cortigiano, messere?
Aut. Forsechè non vedi un’aria di corte in tutto il mio aspetto? Il mio portamento non è in cadenza di corte? Il tuo naso non respira dal mio individuo effluvii di corte? Non rifletto io sulla tua viltà un disprezzo di corte? Chiaro non ti apparisce in me il cortigiano? Cortigiano io sono dai piedi alla testa, e tale da farti progredire, o da toglierti l’accesso alla corte: perciò dichiarami qual è il tuo negozio.
Past. Il mio negozio, signore, concerne il re.
Aut. Quale avvocato hai presso di lui?
Past. Non ne ho alcuno.
Aut. Fortuna è bene il non esser nato così semplice; e nondimeno la natura avrebbe potuto farmi quello che son questi uomini: perciò non vi disprezzerò.
Cl. Costui dev’essere qualche gran principe.
Past. I suoi abiti son ricchi, ma egli non li porta con grazia.
Cl. Sembra a me tanto più nobile, quant’è più bizzarro; è un grand’uomo, ve ne assicuro: lo conosco dal modo con cui si forbisce i denti.
Aut. E in quello scrigno? che v’è in quello scrigno?
Past. Racchiude un segreto che non può essere conosciuto che dal re e ch’ei saprà frappoco, s’io posso parlargli.
Aut. Vecchiardo, hai gettate le tue fatiche.
Past. Perchè, signore?
Aut. Il re non è in casa, si è imbarcato sopra un vascello nuovo per disperdere la sua malinconia con un po’ d’aria aperta. Tu dèi sapere che il re è pieno di tristezza.
Past. Questo dicono, signore, ed è perchè suo figlio voleva sposare la figlia di un pastore.
Aut. Se quel pastore non è in ceppi, ch’ei fugga tosto; le maledizioni che avrà, le torture che gli si faranno soffrire, saranno inaudite e terribili.
Cl. Lo credete davvero, signore?
Aut. E non sarà il solo che patirà tutto quello che l’immaginazione può inventar di tristo, e la vendetta d’amaro: ma i suoi parenti ancora, quand’anche in cinquantesimo grado, cadran tutti sotto la mano del carnefice. Tal esempio, sebbene molto da compiangersi, è necessario. Un vecchio guardiano di pecore consentire che sua figlia s’alzasse alle grandezze del trono? Alcun dicono ch’ei sarà lapidato: ma io dico ch’è una morte troppo dolce per lui. Contaminar la porpora fra gli armenti? Non v’è alcuna morte, no, non ve n’è alcuna abbastanza crudele per tale offesa.
Cl. Quel vecchio pastore ha un figlio; l’avete inteso dire?
Aut. Ha un figlio che sarà scorticato vivo, poscia unto tutto di mele, e messo vicino a un nido di vespe per restar là finch’ei sia in agonia; si riporrà quindi in senno con un po’ d’acquavita, o con qualche altro liquor forte, e nel dì più caldo che segni l’almanacco, verrà legato contro un muro ai raggi ardenti del sole di mezzodì, che lo abbrucierà fin ch’ei sia spirato sotto la puntura delle mosche. Ma perchè intrattenerci di tal canaglia? Non dobbiam che ridere dei loro mali, immensi essendo stati i loro delitti. Ditemi, giacchè mi sembrate onesta gente, quel che volete dal re. Se volete, io vi condurrò al vascello dove sta, e vi presenterò a lui: gli parlerò anche all’orecchio in vostro favore, e se v’è qualcuno vicino al re che possa farvi ottenere la vostra domanda, voi vedete l’uomo che lo potrà.
Cl. Sembra aver molto credito. Accordatevi seco dandogli un po’ d’oro, che quantunque l’autorità sia un orso feroce, pur con un po’ d’oro si conduce spesso pel naso. Mostrate l’interno della vostra borsa all’esteriore della sua mano, e non temete di nulla; ricordatevi delle parole, lapidato, scorticato.
Past. Se voleste, signore, aiutarne, vi darei quest’oro, e ve ne darei poscia altrettanto, lasciandovi questo giovine in pegno della promessa.
Aut. Dopo che avrò fatto quello ch’ho detto di fare?
Post. Sì, signore.
Aut. Così sia. Siete voi pure interessato in questo negozio?
Cl. Un poco; ma sebbene io versi in circostanze infelici, spero però di non essere scorticato vivo.
Aut. È il caso del figlio del pastore, e non d’altri.
Cl. Consolatevi, fatevi coraggio. (al Past.) Andrem dal re in sembianze straniere, ed ei saprà ch’ella non è nè vostra figlia, nè mia sorella, altrimenti ci farebbe appendere. Signore (a Aut.) vi darò anch’io un po’ d’oro allorchè saremo liberi, e resterò intanto vostro ostaggio.
Aut. Confido in voi. Precedetemi verso le sponde seguendo la via diritta. Do uno sguardo intorno e vi vengo dietro.
Cl. Fummo ben fortunati, abbattendoci in quest’uomo.
Past. Andiamo innanzi com’egli dice: la Provvidenza ce l’ha mandato per giovarci. (esce col Cl.)
Aut. Veggo che quand’anche volessi divenir uomo onesto, la fortuna non mel concederebbe: ella mi caccia il bottino fra le mani: mi dà adesso oro e mezzi per render servigi al principe, mio signore: e chi sa fin dove all’occasione potrà farmi giungere? Vado a condurre queste due bestie: s’ei giudica conveniente di rimandarle, e che di nessun interesse siano le loro parole, mi tratti da furfante, se vuole, per essere stato così ufficioso: a prova sono contro tal titolo e contro tutta la vergogna che può esservi congiunta. Andiamogli innanzi coi bifolchi; gran pro se ne potrebbe ricavare. (esce)