< La novella d'inverno
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William Shakespeare - La novella d'inverno (1608-1611)
Traduzione dall'inglese di Carlo Rusconi (1859)
Atto secondo
Atto primo Atto terzo

ATTO SECONDO


SCENA I.

La stessa.

Entrano Ermione, Mamilio, e alcune Dame.

Erm. Prendete cura di questo fanciullo; egli mi è grave più ch’io non possa sopportarlo.

Dama. Venite, leggiadro principe: giuocherò con voi, se volete.

Mam. No, non vi voglio.

Dama. Perchè, caro fanciullo?

Mam. Voi mi baciate troppo, e mi parlate sempre come se fossi un infante. Verrò piuttosto con voi. (a un’altra dama)

Dama. Per qual ragione?

Mam. Non è già perchè i vostri sopraccigli siano più neri, quantunque i sopraccigli neri, da quello che si dice, stian bene ad alcune donne, purchè non riescano troppo folti, e segnino un mezzo cìrcolo come la luna.

Dama. Chi vi ha insegnato queste cose?

Mam. Le ho imparate dal volto delle donne. — Ditemi di grazia, di qual colore sono i vostri sopraccigli?

Dama. Turchini, signore.

Mam. Celiate: ho ben veduto una donna che aveva il naso turchino, ma non le ciglia.

Dama. Ascoltatemi. La regina vostra madre è incinta, e noi offriremo uno di questi giorni i nostri servigi a un altro principe: allora ci accarezzerete, perchè abbiamo cura anche di voi.

Dama. Possa ella aver un parto felice.

Erm. E di che favellate? Torna da me, fanciullo, e raccontami una novella.

Mam. Gaia, o mesta?

Erm. Gaia, finchè puoi.

Mam. Un racconto tristo è più adatto in inverno: ne so uno di spiriti e folletti.

Erm. Narralo, figliuol mio: assiditi, poni tutta la tua arte nell’atterrirmi con codesti spiriti; saprai farlo a meraviglia.

Mam. Vi era una volta un uomo...

Erm. Prima assiditi. Ora continua.

Mam. Che abitava vicino ad un cimitero. Ma vuo’ raccontarlo a voce sommessa, perchè niuno fuori di voi l’intenda.

Erm. Avvicinati dunque, e dimmelo all’orecchio. (entrano Leonte, Antigono, Signori ed altri)

Leon. Là l’incontraste? col suo seguito? e Camillo era con lui?

Sign. Dietro al bosco dei pini li vidi, e non vidi mai gente che corresse tanto: li seguii cogli occhi fino ai loro vascelli.

Leon. Quanto son sagace nelle mie congetture, e giusto nei miei sospetti! Oimè, piacesse al cielo che avessi meno penetrazione! Come infelice mi rende il possedimento di tal virtù! Può esservi un ragno annegato nel fondo di una tazza, e un uomo può bere in quella tazza senza restare avvelenato, perchè la sua immaginazione è serena; ma se si raffigura l’odioso insetto che ha inghiottito, egli allora si agita, e commuove la sua gola, e i suoi fianchi con orrende scosse affine di recerlo. — Io ho bevuto, ed ho veduto il ragno. — Era Camillo che gli teneva mano; era egli che tramava contro la mia vita e la mia corona: tutto quello ch’io sospettavo, era vero. Quello scellerato di cui mi servivo, era già impiegato da colui; ei gli ha scoperto il mio disegno, e ora si faranno beffe di me. — Come mai le porte vennero aperte così facilmente?

Sign. Fu per la sua grande autorità; egli si fece obbedire in simigliante guisa più di una volta.

Leon. Purtroppo lo so. — Date a me quel fanciullo, (a Erm.) Son ben lieto che non l’abbiate allattato: sebbene rassomigli un po’ anche a me, voi gli avete nondimeno troppo comunicato del vostro sangue.

Erm. Che volete dire? È questa una beffa?

Leon. Sia condotto qui quel fanciullo, non vuo’ ch’ei le stia vicino: sia condotto qui tosto. Ella potrà intrattenersi così con quello di cui è incinta, che è opera di Polissene.

Erm. Non risponderò altro senonchè è una menzogna; e mi dovrete credere quand’anche fingeste il contrario.

Leon. Signori, esaminatela, esaminatela bene, e dite, se volete, che è una bella principessa; ma la giustizia che è nei vostri cuori vi faccia anche aggiunger tosto che è ben peccato che ella non sia del pari virtuosa. Non lodate in lei che la beltà esterna che sull’onor mio merita i maggiori encomii, e fate udir poscia quel sordo mormorio che esprime disapprovazione. Se ella è bella, e se per ciò dovrebbe esser amata, abborrita esser poi deve, perchè è un’adultera.

Er. Se lo scellerato più consumato, se lo scellerato più grande del mondo, mi facesse tale rimprovero, tutte le sue colpe con ciò solo raddoppierebbero: voi, signore, vi ingannate.

Leon. Voi pure vi siete ingannata, signora, cambiando Polissene in Leonte. Oh tu creatura... non vuo’ chiamarti col nome che ti si addice, per tema che il grossolano vulgo, autorizzandosi del mio esempio, non adoprasse simile linguaggio senza riguardo al grado, e non dimenticasse la differenza che il buon costume deve porre fra le parole di un principe e quelle di un mendico. — Ho detto che ella è adultera, ed ho anche detto con chi; di più ancora, ella ha tradito il suo re, e Camillo è suo complice: colui sa quel ch’ella dovrebbe arrossire di conoscere, quand’anche il segreto non fosse posseduto che da lei e dal suo vile amante, che in lei riguardar debbe come in una profanatrice del letto nuziale, corrotta al par di quelle femmine a cui il minuto popolo prodiga gli epiteti più ingiuriosi. Sì, di quanto dissi, ella è colpevole, e colpevole è ancora della loro recente evasione.

Er. No, sulla mia vita, non ho alcuna parte in tal opera. Come vi addolorerà, fatto conscio della mia innocenza, l’avermi così oltraggiata! Mio caro sposo, temo che non sarà allora riparazione sufficiente il dire che erraste.

Leon. Le prove ch’io ho sono irrefragabili: saldo di più non è il centro dell’universo. — Conducetela prigione; quegli che innalzerà la voce in suo favore, sarà dichiarato colpevole di tradimento.

Er. Bisogna dire che qualche astro malefico domini nel cielo: aspetterò tempi più propizii. — Cari signori, io son poco inclinata a piangere, come suol fare il nostro sesso; forse la mancanza di vane lagrime farà inaridire la vostra pietà, ma il dolore dell’onor offeso alberga qui, (additando il suo cuore) e mi farà sentire un fuoco troppo cocente, perchè estinguersi possa colle lagrime. Vi scongiuro, signori, di giudicarmi con dolcezza; la volontà del re sia compita.

Leon. Mi si obbedisca. (alle guardie)

Er. Chi di voi vien con me? Chieggo in grazia a Vostra Maestà che le mie donne m’accompagnino, perocchè voi vedete che il mio stato esige le loro cure. Non piangete, (al suo seguito) semplici che siete; non ve n’è motivo: se sapeste che la vostra signora avesse meritata la prigione allora dovreste abbandonarvi al pianto; ma quest’accusa non volgerà che al mio massimo onore. — Addio, signore; non mai avevo desiderato che provaste dolori, ma oggi sono costretta a credere che un dì vi vedrò tristo. — Venite meco, mie donzelle; voi ne avete licenza.

Leon. Eseguite i nostri ordini andate. (esce la regina colle dame fra le guardie)

Sign. Supplico Vostra Altezza di richiamarla.

Ant. Assicuratevi bene di ciò che fate, signore, per tema che la vostra giustizia non degeneri in violenza. Tre grandi personaggi sono qui compromessi; voi, la regina, e vostro figlio.

Sign. Ed ella, signore... Lo sosterrò colla mia vita quando lo vorrete... ella è pura verso il Cielo e verso di voi: innocente è del delitto di cui l’accusate.

Ant. Se infida fosse, non si potrebbe credere a nessuna donna di questo mondo.

Leon. Cessate da tali discorsi.

Sign. Mio caro signore...

Ant. È per voi che parliamo, non per noi. Voi siete ingannato da qualche vile subornatore, che l’inferno punirà di questo misfatto: se quel vile conoscessi, vorrei punirlo anche in questo mondo. — Ella macchiata nell’onore! — Ho tre figlie: la maggiore ha undici anni, la seconda nove, e la terza cinque. Se quest’accusa fosse vera, io le castigherei; io le mutilerei tutte tre, per renderle sterili, e non vedrebbero l’età dei tre lustri, per dare al mondo prole bastarda; elle sono mie eredi, e le mutilerei io stesso piuttosto che permettere che producessero una razza illegittima.

Leon. Tacete una volta; voi non risentite il mio oltraggio che con indifferenza; ma io lo misuro tutto, e ne provo gli strazi nel cuore.

Ant. Se ciò è vero, non ci occorrerà sepolcro per dar tomba alla virtù; virtù non esisterà per purificare un po’ questa creta odiosa.

Leon. A me non si crederà?

Sign. Ben meglio vorrei che a voi si rifiutasse credenza piuttosto che a me, e più mi piacerebbe di veder fatta ragione al suo onore, che al vostro sospetto, qual che si fosse il biasimo che allora ricadrebbe su di voi.

Leon. E qual bisogno abbiam noi di consultarvi sopra tali materie? Perchè non seguitiam piuttosto l’impulso della nostra idea. La prerogativa della nostra dignità non esige i vostri consigli, ed è la nostra bontà sola che a tali confidenze con voi ci fa discendere. Se (sia per stoltezza, o per ostentazione) voi non volete, non potete sentire come noi la verità di quanto diciamo, tenetevi i vostri consigli; a noi non valgono. La perdita, o il guadagno di questo negozio è tutta per noi.

Ant. E desidererei, mio sovrano, che di questa cosa aveste fatto l’esame in silenzio, senza comunicarla ad altri.

Leon. In qual guisa lo potevo io? l’età ha fatto fiorire la vostra ignoranza, o siete nato imbelle. La fuga di Camillo insieme colla loro famigliarità (la quale era così parvente come qualunque altra che abbia mai svegliato sospetti, e che non chiedeva che un istante per essere veduta) addimandavano tal condotta. Nondimeno per maggior sicurezza (perocchè in bisogna di tanta importanza, ogni precipitazione sarebbe odiosa) ho mandato sollecitamente alla sacra città di Delfo, al tempio di Apollo, Dione e Cleomene di cui voi conoscete tutto il merito. Da quello ch’essi mi riporteranno dell’oracolo, mi deciderò: e la risposta del Dio fermerà o guiderà il mio braccio. Ho io ben fatto?

Sign. Ottimamente, signore.

Leon. Sebbene io sia convinto, e bisogno non abbia di saperne più di quel che so, pure l’oracolo gioverà a calmare gli spiriti degli altri, e di quelli la di cui ignorante credulità niega di veder il vero. Stimammo poi bene ch’ella fosse divisa da noi, e imprigionata per tema che non avesse modo di compiere il tradimento commesso dai suoi due complici che han presa la fuga. Venite, noi dobbiamo parlare al popolo, perchè questa sventura ci terrà tatti sossopra.

Ant. (a parte) Ogni cosa finirà in riso, se la santa verità prevale. (escono)

SCENA II.

La stessa. — Stanza esterna d’una prigione.

Entra Paolina con seguito.

Paol. Il Custode delle carceri! Fatelo venire, (esce uno del seguito) Ditegli chi sono. — Virtuosa regina, non v’è Corte al mondo degna di te, e tu sei prigione? (rientra quello del seguito col Custode) Voi mi conoscete, non è vero?

Cust. Sì, per una degna signora che io onoro assai.

Paol. Vi prego, conducetemi dalla regina.

Cust. È impossibile, signora: ho ordini severissimi.

Paol. Quante pene per far soffrir la virtù, e toglierle anche le consolazioni dell’amicizia! Si possono almeno vedere le di lei donne? Emilia, per esempio?

Cust. Se voleste licenziare quel vostro seguito, farei venire Emilia.

Paol. Fatelo, ve ne prego... Voi altri, allontanatevi. (il seg. esce)

Cust. E bisogna, signora, ch’io sia presente alla vostra conferenza.

Paol. Sia pure. (esce il Cust.) Quanta crudeltà! Quante barbare durezze! (rientra il Custode con Emilia) Cara donzella, come sta la nostra graziosa regina?

Em. Tanto bene, quanto può stare una donna di così alto grado, venuta in simile infortunio. Fra gli spaventi e i dolori che l’hanno assalita, ella si è sgravata un po’ prima del tempo.

Paol. Di un fanciullo?

Em. Di una figliuoletta vigorosa e bella. Quella bambina è di gran consolazione alla misera madre. Essa le dice: mia povera prigionierina, io sono innocente come te.

Paol. Lo giurerei. Oh pericolosi e funesti impeti della pazzia di un monarca! Maledizione alle sue stravaganze! Bisogna recargli la novella, e tal ufficio si addice ad una donna: l’assumo sopra di me. Se parole melate usciranno dalla mia bocca, si inaridisca la mia lingua sì ch’io non possa mai più usarne. — Vi prego, Emilia, offrite l’omaggio della mia rispettosa obbedienza alla regina: se ella vuole affidarmi la sua pargoletta, io andrò a mostrarla al re, e gli parlerò col maggior calore. Noi non sappiamo fino a qual segno la vista di quella bambina possa addolcirlo: spesso il silenzio dell’innocenza persuade, laddove la parola verrebbe meno.

Em. Nobile e virtuosa dama, il vostro onorato carattere, la vostra beneficenza e la vostra onestà sono così manifeste, che questa intrapresa così volontaria per parte vostra, non può mancare d’avere un esito fortunato: non vi è altra dama alla Corte che potesse riempiere meglio di voi così importante ufficio. Degnatevi di entrare in quella camera: andrò tosto ad istruirla regina della vostra offerta generosa. A lei pure stamane era venuta questa idea, ma non aveva osato proporre a nessuna il nobile incarico, per tema che non venisse rifiutato.

Paol. Ditele, Emilia, che ne uscirà dalla mia lingua tanta eloquenza, quanta arditezza ho nel cuore, avrò trionfato.

Em. Il Cielo vi ricompensi della vostra bontà. Venite.

Cust. Signora, se anche la regina volesse affidarvi la fanciulla, io non so a qual pericolo mi esponessi lasciandola escire senza averne alcun ordine.

Paol. Voi non avete nulla a temere; la fanciulla era prigioniera nel seno della madre, ed è stata posta in libertà dalle leggi sovrane della natura. Non è quella una nemica su di cui possa rovesclarsi lo sdegno del re, e colpevole non è dei falli della sua genitrice, se pure questa ne ha commesso qualcuno.

Cust. Io ancora lo credo.

Paol. Non abbiate dunque alcun timore; sull’onor mio, io mi porrò fra la sua collera e voi. (escono)

SCENA III.

La stessa. — Una stanza nel palazzo.

Entrano Leonte, Antigono, Signori ed altri del seguito.

Leon. Non riposo il dì, non la notte! È una vera debolezza il non sopportar meglio questa sciagura. Sarebbe anche debolezza, se la cagione e gli oggetti dei mali miei non fossero più al mondo. Ella... oh, ella è un’adultera! — Il suo seduttore è lungi dalla mia vendetta: ma su di lei aggraverò la mano: mi si dica che è morta, e troverò allora la pace perduta. — Olà.

Sig. Signore?

Leon. Come sta il fanciullo?

Sig. Ha dormito bene tutta la notte, e speriamo che sia finita la sua indisposizione.

Leon. Quanto nobile è l’istinto di quel bambino! Sentendo il disonore di sua madre, è stato veduto a poco a poco languire, e rimanere profondamente afflitto; egli si è come appropriato la vergogna del delitto della sua genitrice, ed ha perdute le forze, il sonno, la volontà di mangiare. — Tornate a veder come sta. (esce quello del seguito) Vergogna, vergogna! Non pensiamo a lui: quando a lui penso, le mie idee di vendetta svaniscono. — E colui? Egli è troppo potente di partigiani e di confederati: viva dunque finchè venga un’occasione propizia. La mia vendetta d’ora sia rivolta sopra la sua complice. Camillo e Polissene ridono di me; prendono a scherno i miei dolori, ma non riderebbero se io fossi presso a loro, come non riderà costei. (entra Paolina colla bambina)

Sign. Voi non potete entrare.

Paol. Ah! secondatemi tutti piuttosto, nobili e cari signori: temete voi più la sua tirannica passione, che tremar non dobbiate per i giorni della regina? Quell’anima pura è più innocente ch’ei non sia geloso.

Ant. Basta, signora.

Sig. Signora, il re non ha dormito questa notte, ed ha dato ordine che nessuno gli si avvicini.

Paol. Non tanto calore; io gli reco il sonno. Siete voi e i simili vostri che scorrete come ombre accanto a lui, e gemete ad oggi vano sospiro ch’ei tramanda: siete voi che date pascolo alla sua insonnia: io vengo a guarirnelo colla verità, col linguaggio della franchezza e della virtù; io vengo a sanarlo d’ogni umor malefico.

Leon. Che romore è questo ch’io odo?

Paol. Nessun romore, signore; sollecito da Vostra Maestà una udienza necessaria per sapere chi saranno i patrini di questa fanciulla.

Leon. Come?... Mandate fuori quell’audace donna. Antigono, io ti avevo commesso di impedirle di venirmi ad infestare, come avevo ben immaginato che avrebbe fatto.

Ant. Proibito gliel avea, signore, sotto pena della disgrazia vostra e della mia.

Leon. E non avete alcuna autorità sopra di lei?

Paol. Sì, per vietarmi tutto ciò che non è onesto; ma in questa cosa (a meno che non mi imprigioni, come avete fatto voi colla vostra sposa, per punirmi di un’azione onorevole) credetemi, signore, che egli non avea sopra di me alcun potere.

Ant. Voi l’udite? Allorchè ella vuol prender le redini, niuno può impedirglielo.

Paol. Mio caro sovrano, vi scongiuro di ascoltarmi; io vi son fida e leal suddita; io sanerò i vostri mali, e vi consigllerò col maggiore affetto: credetemi, perchè vi parlo sincera. — Vengo per parte della nostra buona regina.

Leon. Buona regina?

Paol. Sì, buona regina, signore; buona regina, ve lo ripeto, degna e virtuosa regina, di cui sosterrò la virtù a rischio della vita.

Leon. Fatela uscire dalla mia presenza.

Paol. Quegli che ha cari i suoi occhi, si astenga dal venirmi presso: escirò di mio senno; ma prima debbo compiere il messaggio. — L’onesta regina ha messo al mondo una fanciulla; eccola: ella la raccomanda alla vostra benedizione. (deponendo la bambina ai piedi del re)

Leon. Via da me, malvagia femmina! Conducetela lungi di qui fuor delle porte. Ella è una vil mezzana.

Paol. Voi mi oltraggiate, signore; io sono onesta quanto voi siete insensato: parmi che sia esserlo abbastanza in un secolo come il nostro.

Leon. Non la caccierete dunque lungi dì qui, traditori? Datele la sua bastarda. Tu, imbelle, (a Ant.) donna e non uomo nel tuo matrimonio, prendi su quella fanciulla, e portala via.

Paol. Le tue mani siano per sempre disonorate, se sollevi la principessa, dopo il nome falso e vile con cui l’ha oltraggiata.

Leon. Egli ha paura di sua moglie.

Paol. Vorrei vedervi del pari dividere i suoi timori: allora non esitereste a chiamar i vostri figli, figli vostri.

Leon. Schiatta di traditori.

Ant. Non sono un traditore, ne attesto questa santa luce.

Paol. Nè io, nè alcun altro di quelli che stan qui lo sono, un solo tranne, voi stesso. Voi che abbandonate il vostro onore, e quello della vostra sposa e di vostro figlio, di tante liete speranze, e quello di questa fanciulla che vi appartiene, all’infamia più tremenda; voi che non volete (e in tal circostanza è una fatale sventura, il non poter sforzare la vostra volontà) sradicar dal cuor vostro la ingiusta opinione che avete concetta e che è più falsa dell’onde, o del vento.

Leon. È una creatura di una lingua sfrenata che dianzi abbaiava contro il suo sposo, ed ora latra contro di me! Quella fanciulla non è mia; è della razza di Polissene. Toglietela dalla mia vista, e datela alle fiamme insieme con sua madre.

Paol. Essa è vostra, e noi potremmo per rimproverarvi, ripetere l’antico adagio: vi somiglia tanto che è una vera disgrazia. — Guardate, signori, se non è una copia fedele del padre: i suoi occhi, il suo naso, le sue labbra, l’espressione dei suoi sopraccigli, la sua fronte, e le pozzette delle sue gote, e tutto il suo sorriso; la forma perfetta delle sue mani, delle sue unghie, delle sue dita. — E tu natura, buona Dea, che l’hai formata sì simile a quegli che la generò...

Leon. Diabolica strega... e tu vile idiota, meriteresti di essere appeso per non volerle chiudere la bocca.

Ant. Se faceste appendere tutti i mariti che non possono contener le lingue delle loro spose, vi rimarrebbe appena un suddito.

Leon. Ancor una volta, trascinatela lungi di qui.

Paol. Il più malvagio e il più snaturato degli uomini non può far di peggio.

Leon. Ti farò gettare nelle fiamme.

Paol. Non me ne cale; è quegli che accende il rogo, che è l’eretico, e non quegli che vi viene abbruciato. Non vi chiamo tiranno, ma il trattamento crudele che fate subire alla vostra sposa, senza poter dare altre prove dell’accusa, che le chimere della vostra imaginazione, si risente di tirannide, e vi renderà oggetto d’abbominio per tutti gli uomini.

Leon. Sul vostro giuramento di fedeltà, vi comando di cacciarla da questa stanza. Se fossi un tiranno, dove sarebbe la sua vita? Ella non avrebbe osato chiamarmi con tal nome, se tale mi credesse. Trascinatela altrove.

Paol. Non mi usate violenza, escirò da me. Vegliate sulla vostra fanciulla, signore; ella è vostra. Il Cielo le accordi protezione. Perchè mi spingete voi? (ai Cortigiani) Voi che piaggiate tanto le sue stravaganze, non gli farete mai alcun bene: addio, addio, io parto. (esce)

Leon. Fosti tu, traditore, che inducesti tua moglie a commetter questo scandalo! Figlia mìa? Sia tolta dai miei occhi. Tu, che ti mostri così pietoso per lei, portala lungi di qui, e falla abbruciare; voglio che sii tu, e niun altro che abbia tal incarico. Prendila senza indugii, e innanzi al termine di un’ora pensa a venirmi ad annunziare sopra sicure prove l’esecuzione dei miei ordini, o ti toglierò la vita con tutto quello che possiedi: se rifiuti di obbedirmi, e vuoi lottare contro la mia collera, dillo, e colle mie stesse mani frangerò il capo a quel frutto della colpa. Affrettati a darla alle fiamme, poichè fosti tu che consigliasti tua moglie a venir qui.

Ant. Non vi ebbi alcuna parte, mio sovrano: tutti i miei nobili colleghi possono, se lo vogliono, giustificarmi.

Sign. Sì; questo possiamo, mio degno sovrano, egli non è colpevole della condotta di sua moglie.

Leon. Siete tutti mendaci.

Sign. Io supplico Vostra Maestà di accordarci più confidenza: noi vi abbiamo fedelmente servito e vi scongiuriamo di renderci questa giustizia; cadendo ai vostri piedi, vi chiediamo in grazia, come una ricompensa del nostro zelo e dei nostri servigli passati e futuri, di mutar questa risoluzione; ella è troppo atroce, troppo sanguinaria, per non condurre a qualche grande sventura. Eccoci ai vostri ginocchi.

Leon. Io sono una piuma, scherno d’ogni vento. — Vivrò dunque per udir quella fanciulla odiosa chiamarmi padre? Meglio è che le fiamme la distruggano ora, che serbarla per essere oggetto delle mie maledizioni. Ma sia; che ella viva... no, no viver non debbe. — Voi, (a Ant.) avvicinatevi, voi che vi mostraste così officioso insieme colla vostra consorte, per salvare la vita di questa spuria, (perchè tale ell’è quanto è vero che questa barba è grigia) che cosa vorrete voi fare per riscattarla?

Ant. Tutto quello, signore, che le mie forze e il mio onore possono comportare: offro il po’ di sangue che mi resta nelle vene, per redimere l’innocenza, ed ogni altra cosa che sia in poter mio.

Leon. Quello ch’io chieggo è in tuo potere; giura su questa spada che eseguirai quello che ti comanderò.

Ant. Lo giuro, signore.

Leon. Ascolta, ed obbedisci; pensaci bene, perchè la più piccola omissione segnerà non solo la tua condanna di morte, ma quella di tua moglie dall’infernal lingua, a cui per ora perdoneremo. Noi t’ingiungiamo sul dover tuo di vassallo, di portar lungi di qui questa fanciulla, e di recarla in qualche lontano deserto fuori dei nostri dominii, per abbandonarla là senz’altra pietà alla protezione del suo destino ed al favore del clima. Siccome ella per caso ne è venuta, giusto è che al caso sia abbandonata; toglila di qui.

Ant. Giuro d’eseguir quest’ordine, quantunque una morte subitanea mi fosse stata più accetta di tal clemenza. Su, vieni, povera fanciulla; un qualche genio benefico ispiri ai corvi e agli avvoltoi di alimentarti. Si dice, che i lupi e gli orsi si son qualche volta spogliati della loro ferocia, per adempiere tali ufficii di pietà. Signore, possiate voi essere più felice che nol meritate per quest’opera. E tu, creatura sfortunata, condannata a morire, redenta sii alla benedizione del Cielo. (esce colla fanciulla)

Leon. No, non riconoscerò la prole altrui.

Sig. Vostra Maestà mi permetta d’annunziarle il ritorno dei deputati, che avete spediti a consultar l’oracolo. È un’ora che Cleomene e Dione sono arrivati felicemente da Delfo, ed ora vengono verso questo palazzo.

Sig. Furono ben solleciti.

Leon. Da ventitrè giorni erano assenti: fu grande la celerità; essa ne presagisce che Apollo manifestò subitamente il vero. Preparatevi, grandi della mia Corte: convocate un Consiglio dove possiam fare il processo della nostra sposa sleale, che come venne pubblicamente accusata, sarà pubblicamente giudicata. Finch’ella vivrà, il mio cuore mi sarà di un peso insoffribile. Lasciatemi, e pensate ad eseguire i miei ordini. (escono)


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