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DEL LIBRO PRIMO DELL’UMANITÀ DI CRISTO
CANTO I
Qualità dell’autore. — Invocazione. — Essenzia del Figliuol di Dio.
Or ch’io son posto a fren di quell’etade,
ch’altrui distempra per molt’anni e indura
nel già preso costume e qualitade.
pianta mi trovo alfine arsiccia e dura,
5che poma non fruttò se non acerbe,
d’ogni stagion a’ vermi sepoltura.
Pur non mai tardi, a ciò che in me si serbe
nelle radici un poco di vigore
d’un vivo fonte al piè misto fra l’erbe.
10Chi sa se forse al frequentato umore
ringiovenisca il tronco, e ancor s’appigli,
e in foglie’l ramo e in frutto vada il fiore!
Che se del ciel gli augei, del campo i gigli
produce l’alto Patire e d’ésca ’i sazia.
15quanto più noi ch’eredi siamo e figli!
Venga pur, Signor mio, quella tua grazia,
cui degli eletti hai l’alto imperio dato
(oh beato chi in ciò si ti ringrazia!);
venga in quest’arso legno e infracidato,
20il qual per lei fuor d’uso uman germoglie
più frondi e fior di qual sia bosco e prato!
Né pur vedrassi volto in fiori e foglie,
ma tal frutto di lui corremo ancora
qual nel tuo sacro e bel giardin s’accoglie.
25Frutto non dá, se non verdeggia e infiora
palmite alcuno a l’alma vite giunto,
che di tua man piantata innalzi ognora.
Questa si è il tuo Figliuol, che, in croce, punto
nei piedi, nelle man, nel capo e petto,
50il sangue ci donò, d’amor consunto.
Egli, ch’è vigna eletta, umore eletto
mandò fuor per le piaghe a vene sciolte,
ond’esce a noi di tutto il ben l’oggetto.
Quinci li rami e le propaghi molte,
35mardri, confessori e verginelle,
alme al gran ceppo del tuo Figlio accolte.
Però lor gemme, fronde ed uve belle
non puon non esser buone, sendo inserte
di sapienza in petto e in le mammelle.
40O spirti degni, od alme sante e certe
del fermo bene, al mal fugace dopo,
o giunte in ciel per vie malvage ed erte,
per quell’amor, che in voi piú di piropo
fiammeggia ardente e piú del sol riluce,
45u’ non piú rai per piú splendor fann’uopo,
date, vi priego, all’intelletto luce
di questo mio vecchi’uomo infermo e stanco,
che non mai tardi a voi si riconduce !
Di forze si, ili buon voler non manco
50lavar le macchie mie nei pianti amari ;
ma di me stesso in tirannia son anco!
Per aspri monti e tempestosi mari
errai gran tempo lá dond’esce il sole
al nido ove ripone i lumi chiari.
55E come quel che tutto intender vuole,
d’Egitto prima, poi d’Atene e Roma
bramoso entrai nelPonorate scole.
Qui le virtú, per cui tanto si noma
l’umana sapienza, aver contesi
60per irmi carco di si nobil soma.
Ma poi che gli anni verdi, non che i mesi,
del senno stoico diffalcai nei sogni,
poi che i fior senza frutti andáro spesi,
io, del ver lume privo e colmo d’ogni
65nebbia fallace, tratto fui lá dove
Giesú sovvenne a’ nostri uman bisogni.
Giesú, di Dio figliuol, con alte prove
d’umiltá santa armato, a sé suppose
quanto di sopra e sotto al ciel si muove.
70Dirò dunque di Lui com’ei s’ascose
dentro a quest’ombre nostre per salvarne,
promesso al fido Abramo, al santo Mòse.
Io vidi l’alto Dio, celato in carne,
vagir sul feno, predicar salute
75e del suo sangue in croce alfin lavarne.
Vidilo abbietto e carco di ferute,
vidilo morto, e poi, di terra scosso,
vidilo trionfar per sua virtute.
Però, Giesú, per tua mercede smosso
80io dal torto cammin de’ saggi erranti,
di te sol dicer voglio, deggio e posso!
Tu la virtú mi dá’, Signor, ch’io canti
te solo Dio nel ciel, sol Bene eterno,
sol giusto in terra, solo onor de’ santi !
85Le infinite tue posse non discerno,
se miro in ciel l’immenso amor, se in terra,
il giusto tuo furor se nell’inferno.
Per te sta il ben di gloria, che si serra
dal mortai occhio; il ciel per te s’aggira
90con le ben giunte stelle, e mai non erra;
per te cagiona il sol quanto si mira
ver’noi calar giú d’alto, e piogge e nevi,
e ’l fiato, ch’or veloce or lento spira.
Tu, stando, il moto fai; tu duo piú levi
95degli elementi sotto ai ciel sospendi,
e al centro andar giú lasci duo piú grevi.
Quando aggeli gli umor, quando gli accendi
dond’è il fuoco, la grandine, il baleno,
Tacque, che dal mar tolte al mar le rendi,
ioo Per te natura e il tempo non vien meno:
l’una di produr forine e sempre fare
quel che l’aer, la terra, il mar n’è pieno;
l’altro disfarlo e d’ora in ora trare
quattro stagion per giorni e mesi a fine,
105chiudervi Tanno e poi ricominciare.
Tu d’opre umane autor, tu di divine,
scegliesti l’uomo sol ch’erede fosse
di tutto ciò che intorno ha il ciel confine.
Ma l’incostante ingrato il collo scosse
no dal tuo si leve giogo, e per cagione
di tutto il mal da tutto il ben si mosse.
Le qualitá che tanto gli fúr buone,
fatte contrarie, oppresso si il lasciáro,
vassal di morte e servo di Plutone.
115L’ira tua giusta ed il flagello amaro
di legge, del peccato e inferno insieme
con lor pungenti spiedi il circondáro.
Ma troppo, Signor mio, le piaghe estreme,
che dánnogli nel petto e nella gola,
120troppo la morte sua ti tocca e preme !
La tua dell’altre amata piú figliuola,
dolce Pietade, al collo si ti cinse
ambo le braccia ed intertenne sola;
cosi ben disse, cosi ben ti strinse
125con argomenti saldi, che per l’uomo,
ver’uomo, nascer d’uomo ti sospinse.
Salisti alfin in croce, ove del pomo
l’acerbitá si scosse. Il fato anciso,
morso l’inferno, il re delTombre domo,
130sciolti noi fummo e aperto il paradiso.
CANTO II
Peregrinaggio dell’autore — Palermo pastore — Narrazione
Giá l’orizzonte ardea verso ponente,
ove il maggior pianeta i crini accolse,
chiudendo il giorno all’affannata gente.
Io, stanco peregrin, come Dio vòlse,
5tolto d’Egitto venni a Palestina,
quando il ver lume agli occhi miei si sciolse.
Era quella stagion che in fredda brina
vedesi il verde e i fior voltati in ghiaccio,
biancheggiar l’Alpe e fremer la marina;
10quand’io dall’alto Libano m’affaccio
sopra una lunga e spaziosa valle,
che tra piú rivi ha il bel Giordano in braccio.
Laggiú m’invio per tortuoso calle,
ove piú mandre di pastori trovo,
15ché queti stanno ne’ loro antri e stalle.
Chiamo di fuor, né piú oltre il passo muovo,
si per l’aspro abbaiar d’audaci cani,
si per lo loco a me sospetto e nuovo.
Ma quei, non men cortesi, dolci, umani
20di quanto esser dovrian chi in bei palagi
e corti stan con le guantate mani,
nelle lor basse case ed umil’agi
m’accolser via piú fidi che sian entro
le clamose cittá tetti malvagi.
25Di così orrevol’ospili sott’entro
una di piú capanne, ove la mensa
delle vivande lor giacea nel centro.
Oh viva pace, o fedeltade immensa,
oh vita fra’ mortai piú che felice
30ove senz’astio il tempo si dispensa!
D’una squilletta, posta a la pendice,
del vicin monte, liscia piacevol suono,
eh’esser la cena in pronto al volgo dice.
Vengon da varie imprese quanti sono,
35e, postisi a seder, tenean quel modo
che tien de’ frati l’ordin raro e buono.
Strepito alcun soverchio ivi non odo:
taciti a capo chin s’assidon lutti,
ch’io rimembrando ancor m’allegro e godo.
40Cibi di latte e riserbati frutti,
come ghiande, castagne, fichi e pome,
dall’onesto desio si fur destrutti.
Un padre lor dalle canute chiome
dell’ordine tien cura e della pace:
45il liberal Palermo fu il suo nome.
A lui quell’ampia valle sotto giace:
uomo severo, accorto, antiveduto,
a cui qual peste ogni atto rio dispiace:
era nell’ardue cose resoluto;
50trattava il servo a paro col figliuolo,
via piú da tutti amato che temuto.
Mentre fra tanta pace io mi consolo,
levaronsi le mense a un cenno d’occhio;
tutti van fuora, ed io rimango solo.
55Sol io con un stecchetto di finocchio
mi bevo il dente, e pien di meraviglia,
se alcun rientri a me, sovente adocchio.
Alfin quel padre antico di famiglia
poi lunga pezza in lieto volto riede
60e con atto gentile a man mi piglia.
— Peregrin — disse, — da pensar vi diede
di questi miei la subita partenza,
qual sia l’albergo dei pastori e fede.
Ci avete a perdonar, se all’accoglienza
65prima aveste vivande rusticane:
siam delle urbane e delicate senza.
Sappiate poi che fino alla dimane
vegghiar dobbiamo in questa sacra notte,
come fu vecchia usanza e pur rimane. —
Parmi che le piú gravi teste e dotte
di questi padri ebrei nel tempo antico
si furo un giorno insieme ricondotte.
D’Abram, Isaac, Iacob e del pudico
loseppe ragionando, alfin si venne
agli atti del gran Mòse, di Dio amico:
come d’un popol rio sempr’ei sostenne
l’empia durezza e con fiammati prieghi
al meritato strazio lor sovvenne.
Ma non fia mai che facilmente pieghi
l’indurato pensier chi mal s’avvezza,
né vuol d’un laccio tal eh’alcun lo sleghi.
Però chi Dio superbamente sprezza
sprezzato e risospinto vien da Lui,
e tratto al fondo il collo vi si spezza.
Or un tra loro agli altri disse: — Nui,
popol eletto, non piú eletti siamo,
stretti per boria nostra in pugno altrui!
Giustizia vuol che noi, del fido Abramo
perfidi figli, a Dio rubelli, ingrati
di mal in peggio sempre piú n’andiamo:
servi d’Egitto prima siamo stati,
di Babilonia poi molt’anni e molti;
or piú che mai ci tien Roma legati.
Pur hanno ad esser liberati e sciolti
non piú gli ebrei che gli universi vivi,
or vivi in carne, in spirito sepolti.
Dicono i santi oracoli che privi
del ciel morimo ed all’inferno vassi
da che il prim’uom di morte aperse i rivi.
Però giú d’alto in questi luoghi bassi
vien esso Dio, non angel manda od uomo;
e muover fia veduto in carne i passi.
Sciorrá le colpe in sé del fatai pomo,
morrá con morte, ma sol Egli surto
105su fará un salto, e giú Pluton un tomo.
Si che pensar dobbiamo in tempo curto
esso venir, ma occulto, com’è scritto,
in guisa d’alcun ladro intento al furto.
Verrá non in Fenicia ovver Egitto;
no non in la gran cittá Gerusalemme
né a Roma il Re del ciel fará tragitto.
Nel borgo sol dell’umile Betlemme
povero nasce, non qual duca o donno
nelle superbe cune in oro e gemme. —
115Cosi quel savio disse: e scosse il sonno
degli altrui sensi foschi per costume,
c’han gli occhi si, ma ben veder non ponno.
Noi dunque in questa notte, lungo al fiume,
solemo in un capace ed ampio loco
120tener degli occhi nostri aperto il lume.
Di palme ed odorati cedri foco
árdevi sempre, e intorno ancor piú d’uno
doppierò avvampa e allumavi non poco.
Qui di pastori un popol grande aduno
125di quanto Palestina abbraccia e cinge,
e di Sidonia, Egitto, Arabia alcuno.
Ivi qualch’atto di virtú si finge,
non come s’ha del favoloso greco
che di menzogne il primo grado attinge.
130Di che, piacendo a voi, verrete meco
a cosa contemplar, eh’è di ver piena
e che piacere ed ut il porta seco. —
Parlò cosi Palermo. Ed io, che appena
lasciai ch’egli finisse, al grato invito
135andai con esso a man ove la scena
e pastoral teatro era sul lito.
CANTO III
Coliseo pastorale — Representazione della creazione angelica
Tra molte doti e grazie di natura,
donate a’ campi ebrei, bastar potea
d’ogni stagion la sempre mai verdura.
Giá Dio senza cagion non promettea
5sovente al popol suo quel bel paese,
che miele a’ suoi cultori e latte crea.
Ecco la notte del piú freddo mese,
notte ventesmaquarta di decembre,
un vivo aprii di frondi e fior mi rese,
10Luoco non vidi mai, né mi rimembre
né lessi in carte, né altri mi narráro,
che di pastor al Coliseo rassembre;
io dico che potesse stargli a paro
di vaghezza non pur, ma d’arte e quanto
15mai gli architetti al mondo fecer chiaro:
non le superbe altezze, dianzi vanto
di ponti, bagni, templi, amfiteatri,
né le ben finte stanze per incanto;
o quanto meglio i nostri antichi patri
20per alabastri, serpentini e marmi
sfrondaron selve in porre i lor teatri.
Onde con veritá potrò lodarmi,
ovunque sia, di non aver mai visto
luogo si intiero, e udito si alti carmi:
25carmi cantati a gloria dell’acquisto
fatto da noi, banditi al cieco inferno
dal giá gran tempo a noi promesso Cristo.
Andato dunque il di che dell’inverno
il mezzo tien, e quella notte amena
30che vide in mortai carne il Sol eterno.
io, lieto entrando alla ritonda scena
che su da mille e cento braccia gira,
stetti per gran stupor nei sensi appena.
Qui il ciel tutto verdeggia e un fiato spira
35d’odor d’aranci, cedri e limoncelli,
che fingon sparse stelle a chi ben mira.
Le sponde e le pareti, d’arboscelli
e cespi sempre verdi d’ogni sorte,
levan il vanto ad aghi ed a pennelli.
40Due son, ond’entra il popolo, le porte,
ed evvi, ornai entrato, un cerchio assiso
nel catafalco a gradi ordito e forte.
Lume di molte cere, a cui diviso
sta l’alto tetto in un spiraglio tondo,
45a tutti scopre chiaro il paradiso.
Tutti i pastori, c’hanno il capo biondo
la maggior parte, e d’una fascia cinto,
trovansi all’atto di crear il mondo.
Dall’altro il sesso femminil distinto
50stavvi per onestá, né può vedersi
chi d’esse ha volto vero ovver dipinto;
anzi piú che leggiadri gli hanno e tersi,
piú le pudiche per onor e zelo
in tele avvolti ’i tengono ed immersi.
55Io presso al gran pastor del bianco pelo
in un degli altri piú levato scanno
guardavo fisso intorno e verso il cielo.
Tutti con gran silenzio intenti stanno;
ed ecco il finto cielo s’apre e seca,
60e le due parti quinci e quindi vanno.
Una gran massa nebulosa e cieca
di su calando tacita pian piano
alto stupore alli guardanti reca.
Allor mia mente corse al globo vano
65del caos, ch’ebbe nel capace grembo
quanto prima formò di Dio la mano.
Piú sempre e piú gonfiavasi quel nembo,
che d’umor s’empie e cresce a poco a poco
in fosca nebbia con fiammato lembo.
70Giá n’era pregno il vacuo di quel loco,
quando repente ad una chiara voce
ruppe quel ventre ed avvampò gran fuoco.
Non sparan fiamme e tuono piú veloce
metallo alcun da ròcca o armata nave,
75o quel del ciel ch’a lauro mai non nuoce,
come quel corpo ha la parola grave,
che disse: — Fia la luce! —s’apre e sferra:
restan le fiamme e vanno l’ombre cave.
Piú d’un de’ spettatori andáro a terra
80in quel gran scoppio, e poscia dolci accenti
di melodia l’aperto ciel disserra.
Alzo la mente e gli occhi insieme attenti :
odo d’umane voci concordanza
con lire giunte, flauti e piú strumenti.
85Quivi un Dio padre, in mezzo all’onoranza
di spiriti e sostanze allor create,
pende, elevato e sopra tutti avanza.
Rote di cherubin dense e infiammate
con numerosi giri e danze altiere
90muovono intorno a tanta maiestate;
vanno disgiunte innanzi e dietro schiere
d’angioli, Potestá, Virtuti e Troni
ed altri d’altre qualitadi e spere.
De’ primi l’ordinanza fino ai noni
95(ché nove son di tutti lor le squadre),
tien nove capi e splendidi baroni.
Il primo è Lucibèl, che sue leggiadre
fattezze ha sopra gli altri e piú riluce,
ché piú s’appressa sempre ai rai del Padre.
100Poi vi è di Dio Fortezza, chiaro duce
d’un giunto a lui esercito, se mai
fia chi rubelli a quell’eterna luce.
Sta Gabriel con modi onesti e gai
pronto del suo Signore ad esser noncio,
105ed ha di perle ed òr pennati i rai.
Vi è quel dal nome al medicare acconcio,
qual volta o questa o quella gente caggia
di lame, guerra e peste in qualche sconcio.
Ed Uriel non men degli altri raggia,
110forte compagno, e nuda tien la spata;
batte chi Dio biaslema e chi l’oltraggia.
Sembianza grave, appariscente, ornata
rispondevi d’uti altro, il qual, orando,
l’orazion fa con bel dir piú grata;
115e quel, che ha propria cura e studio quando
remunerar si debbe i merti altrui,
ch’or manda in ciel, or nell’eterno bando.
Anco vi è Barchiel, le imprese cui
preste fian sempre in dar soccorso all’alme
120che non caggian da luce a’luoghi bui.
L’ultimo, apportator d’allori e palme
a chi mai dureranno ne’ conflitti,
ripon in ciel molte onorate salme.
Stavano in quelle gioie assorti e ritti,
125sponendomi fra tanto il buon pastore
gli ordini, nomi e qualitá c’ho scritti.
Di bianco, verde ed ogni bel colore
spiegando l’ale ornate la piú parte,
lodan cantando il sommo Imperadore;
130parte ancor, finta con mirabil arte,
di volti di fanciulli tra quattr’ale,
di stucco fatte e rappicciate carte;
ma tanto presso al vero e naturale,
che solo il fiato alle lor bocche manca
135per far con gli altri il canto musicale.
Quell’alto padre alla man destra e manca
raggi splendenti avea di tanto acume,
ch’ogni vista mirando vi era stanca:
or che sarebbe al ver divino lume?
CANTO IV
Creazion di corpi celesti e terrestri.
Ribellione e ruina delli angeli.
Come del ciel tra le piú accese faci
quella del bel Lucifero da mane
sola di Febo scorge i rai vivaci;
cosi tra quelle forme soprumane
5l’ardente piú degli altri Lucibello
s’abbella a le beltá di Dio soprane.
Minor di sé pur l’altro padre fèllo,
maggior degli altri ed angelo primiero,
ed informò di cose piú alte quello,
10Sta sempre innanzi al Re con grande impero,
riconosciuto il primo ed onorato
per un di mille fregi e grazie intero.
Egli fe’ cenno al canto; e quel pausato,
tonò la voce ancor del sommo Padre,
15e in quell’istante il mondo fu creato.
Io vidi il sol, la luna, e a squadre a squadre
ir infinite stelle, e fonti e piante
e augelli uscir della terrestre madre.
In quel medesmo punto tutte quante
20le fiere, ch’eran con bel modo finte,
sbucano fuor di macchie a noi davante.
Le cose ai seggi lor sen van distinte;
e poco stante fúr dal primo lume
niolt’ombre al cieco fondo risospinte.
25Ch’eran quest’ombre? O sacrosanto Nume,
o profondo consiglio, dá’ perdono
a mia viltá, se di te dir presume!
Vedeva il gran Fattor molt’esser buono
quant’era fatto, ed un mancarvi solo
30a cui di tutto avesse a farne dono.
— Facciamo — disse — l’uomo, che figliuolo
mi sia, del mondo erede e simil nostro,
cui sotto giaccia l’uno e l’altro polo.
Facciamo l’uom, che al ciel vòlt’abbia il rostro,
35degno animai, che gli altri signoreggi
e di ragion solazzi il vago chiostro.
Facciamo l’uom, ch’eterno voi pareggi,
voi, spirti miei, ch’eterno neU’eterne
delizie mie fra voi sempre fiammeggi !
40Alfin nel mio consiglio si discerne
che l’uomo, a me figliuolo, a la mia destra
trascenderá voi, gerarchie superne. —
A tanto dir del seggio si sequestra,
ov’era Lucibello a Dio vicino
45in vista torta, baldanzosa, alpestra.
Ed ecco un stuol di spiriti repentino
vannogli appresso, e l’union si parte
quinci del mal, quindi del buon destino.
Michel si trasse alla fedel sua parte;
50dall’altra è Lucibello, e ornai s’accende
tra fidi e ribellanti un crudo marte.
Ma sopra tutti l’empio duca frende,
apostata superbo, e tra’ seguaci
suoi cavalieri zolfo ed ésca incende;
55e, poi che fatto gli ebbe contumaci
contra il suo Creatore, a lui va verso
e parlagli con gesti troppo audaci :
— Si veramente tutto l’universo
compiuto hai di formar: e me, l’egregio,
60me l’eccellente, l’alto, il bello e il terso,
me (ch’io sol tengo di splendor il pregio,
perché non so qual uom, non anco suto,
s’abbia di me piú largo privilegio),
come non son da te riconosciuto
65per quel che fatto m’hai? come t’appaghi
si nuocer me, ch’ancor non t’ho nociuto? —
Ah!—disse Dio — che i monti, piani e’laghi
lode mi dan, che Tesser dato ho loro,
nel qual, non men del ciel, si tengon paghi:
70e tu, che piú t’inalzo e piú t’onoro,
piú ancor rendermi grazie mi dovressi,
sendo tu donno e re del primo coro;
ecco, fatto arrogante e altier con essi
seguaci tuoi, non pur grazie non rendi
75a me, che per aurora mia ti elessi,
ma tanto il van desio sfrenato estendi,
tant’alto il mandi, sol d’invidia morso
c’hai dell’altezza mia, che un salto prendi;
prendi un gran salto in giú, di voglia scorso,
80dal piú alto cielo al piú profondo abisso,
né del tuo fallo senti alcun rimorso!
Ché, siccome credesti aver giá fisso
non men sublime il tuo del seggio mio,
ch’eterno avessi a star, non che prolisso,
85tanto piú basso e piú lontan da Dio
or va’ dannato eternamente al regno
d’ombre, di morte, di dolore e oblio! —
Si tosto che il divino e santo sdegno
fini di tanto dir, Michel il forte
90corse al rubello, ornai di vita indegno;
dagli le man nel petto, e l’urta forte
una e due volte, e fallo gir a terra
per dargli col suo brando eterna morte.
Allor vidi acciuffarsi orribil guerra
95tra questo e quello esercito, gridando,
come gridar si suole: — Serra, serra! —
Non grandine si spessa piove, quando
d’umor talvolta e fuoco un nuvol denso
va piante, armenti e case danneggiando,
100com’io vedea di quel conflitto immenso
venir cornuti e negri spirti abbasso
in un inferno fintamente accenso.
Udivasi nell’aria un tal fracasso,
qual s’ode in terra d’appicciate schiere:
105tanto valea chi finse di compasso.
Le forme, che cadeau, non eran vere;
ma vote o piene pur di paglia o stoppa,
parean brutti demon con facce nere.
Fumo e polvino in aria cela e stoppa
110la vista nostra si, pur senza noia,
che il finto e vero in un sol vero intoppa.
Di Dite la cittá, li posta, Troia
parca seder nel fuoco, e quanti d’alto
vólti giú sono, tanti ardendo ingoia.
115Ver era il grido, falso era l’assalto,
che con fracasso d’orni, legni e canne
facean tremarci sotto a’ piè lo smalto.
Or Lucibello ongiute ha ornai le spanne,
ha duri e folti peli di cinghiale,
120ha della bocca fuor le curve sanne;
spande di vespertillo duo grand’ale;
fuoco dagli occhi lancia e dalle nari,
che Mongibel non ne lanciò inai tale.
Ma non cosi però, ch’ei si ripari
125 dalle percosse di Michel gagliardo,
che di vittoria è ornai tra i pregi rari.
Alfin gli caccia nel gran ventre un dardo;
e quel, voltato in giú col capo innanti,
non fu con gli altri negri al fuger tardo.
130Di trombe allora e d’altri suoni e canti
alta armonia percosse l’aria, e gesti
si fan di giuochi e carri trionfanti.
Mi volsi al biondo vecchio e dissi : — Questi
si fatti oggetti apportano verace
135forma di vero e sensi al vero desti.
Beati voi, che, mentre si vi piace
trattar imprese degne, v’acquistate
tranquilla in terra, eterna in cielo pace!
Non ponno se non esser a Dio grate
140quest’opre vostre, ad un sol fine intente,
che del ver sole i raggi veri abbiate.
Atto qui non si vede e men si sente
che sia d’uffizio fuora e d’onestade.
mercé di voi la ben istrutta gente.
145In grave accorto senno mai non cade
segno di pentimento; né qual foglia
muovesi facil, no: ma d’ambe strade
tiensi ragione, a cui suppon la voglia!
CANTO V
Discorso della creazione d’un sol cielo,
e ch’era fatto il giorno innante alla creazione del sole
Cosa fuor d’ogni stima parmi e strana
trovar dottrina ed arte fra ’vezzati
monger armenti e a’ greggi tonder lana.
S’essi a Parigi o altrove fosser stati.
5potean rappresentar con voci vive
passi piú oscuri e sensi piú ’levati?
Ecco vane scienzie come prive
son di saper quel che buon studio insegna,
e manco i libri n’han che zappe e stive!
10Dio le piú volte un rozzo ed umil degna
degli alti suoi consigli e imparte lui
quel ch’impartir gli altèri dotti sdegna.
Io pago e sciolto in pochi detti fui
via piú dal caldo spirto d’un pastore
15che dalle scole ov’impazzimmo nui.
D’altro saper fu Pietro pescatore,
Giovan, Luca, Matteo, l’eletto Vaso
che salse al terzo ciel del corpo luore;
d’altro Plato e Aristotil, persuaso
20e questo e quel da loro studi avere
pel crin natura e la ragion pel naso.
Questo vo’ dir, che sogni e ciance mere
fint’hanno il mondo eterno, e l’ampio cielo,
da Dio fatt’uno, han trito in molte sfere.
25Non sempre è ver di veritade il velo;
sta sotto il bruno e in gli occhi appar il bianco
si occulta il lupo in mansueto pelo.
Ma piú d’un can mi sento avere al fianco,
pere’hanno i del di difensori un mare;
30un ciel n’ha cinque, e forse quattro manco.
I molti, all’osservar del par e impare,
trovan mirabil ordin, ma diverso,
ché un mobil gira e gli altri fa girare.
Qui degli audaci l’intelletto, merso
35nel parer proprio, a ciascun moto ha dato
singoiar eie), chi dritto, chi traverso:
come di maraviglia non sia stato
piú degno assai l’autor, si vari effetti
in un sol ciel che in tanti aver causato;
40come se i diti suoi fossero astretti
far con piú cose quel che far con una
fia prim’onor di artefici perfetti.
Per un sol, dunque, corpo il sol, la luna,
le stelle innumerabili son vòlte.
45mentr’ora imbianca, or l’emisfero imbruna.
Di ciò i contrasti e le cagion son tolte,
se di tant’opre e tante al Fabro attendi,
che a tai le scopre, a tai le tien sepolte.
Da quest’error commun fa’ che sospendi
50la mente, o tu, che del profeta Mòse
le carte leggi o che le leggi intendi.
Egli apparò da Dio le occulte cose,
come da lui che farle e dir non erra;
però queste parole a noi propose:
55«Dio fece nel principio il ciel, la terra».
Ecco: giá non piú «cieli» o «terra» appella;
ma l’universo in duo conchiude e serra.
Mi maraviglio pur, se vera è quella
opinion de’ cieli, e non dell’uno,
60che non gli assegna ognuno alla sua stella.
Dir della terra e mar non è digiuno;
piante distingue, augelli, fiere e pesci,
e d’essi «ciel» non fanne motto alcuno.
Ma dirai forse: — Frate, tu te n’esci
65non pur del dritto fuor, ma di memoria,
quantunque volgi carte e inchiostro mesci.
Paolo, com’or hai detto, in Dio si gloria
che di sé fuori al terzo ciel fu ratto,
né dir può quanta sia di quel la gloria. —
70Rispondo, ch’io non sono mentecatto:
so il terzo ciel di Paolo e i ciel de’ cieli
di quel gran pecorar, che re fu fatto.
Dimmi tu ancor s’egli è chi ti riveli
meglio che a me delle Scritture il senso,
75e in quelle hai volto i negri in bianchi peli !
Tu sai eli’una sol terra è questo denso,
ch’ognor ealcámo, e centro al mondo fassi,
anzi vii punto al par del cerchio immenso.
Or come delle Biblie in molti passi
80«contorno di piú terre» ella vien detta,
e pur una sol trovi ovunque passi?
Man di scrittor giammai non interdetta
per numer fu del piú, per quel del meno,
per dir senso o parola piú perfetta
85Un Dio credean gli ebrei; son nondimeno
piú dèi da lor nomati in lor figure,
ma nell’istoria tiensi a man il freno.
Non son piú lune no, perché tal cure
amar la prima e in odio aver la quinta:
90anzi una sempre fu, non piú nature.
Fingesi ad ornamento: ma non finta
esca parola ove si cerca il vero,
per cui la fede al tutto fóra estinta.
Però l’accorto Mòse dal sincero
95suo stil né dall’istorico travia,
«piando del mondo scrive il magistero.
Se un Dio sol è, ragion è ben che sia
sol un ciel anco, a lui suo trono e stanza,
tutto che tutto in tutti i luoghi stia.
100Di quest’error, ch’ogni altro errore avanza,
che sian piú cieli, empia cagione emerse
di dar a finti dèi del ver l’orranza;
quando ch’a ciascun cielo un idol s’erse
agli aitar sopra, ed adorollo il mondo,
105che in un mar poi di favole s’immerse.
Di quante stelle andar vedemo a tondo
fur tanti dèi, chi putta, chi cinedo,
poi quei del mar. poi quei del basso fondo.
Cosi la bella Astrea tolse congedo
110da noi, tornando in ciel, ché il dare a’cani
onor divino att’era immondo e fedo.
Alziamo dunque i cuor, non che le mani,
non che le facce al ciel unico e santo:
né siamo stoici no, ma cristiani!
115Creò la terra Dio, cui Mòse vanto
non dá dicendo ch’era vana e vota,
acciò col ciel non sia prezzata tanto.
Corpo alla terra ed alma al ciel devota:
lá gioie eterne, qua speranze umane;
120lá regna Dio, qua la volubil rota.
Successe al cielo il lume sera e mane:
e rotti che del cao furo i legaggi,
la luce di, fèr notte l’ombre vane.
Disser pur anco quegli antichi saggi
125che il sol cagiona il giorno e notte, e fanno
quest’altro al magno Sol di mille oltraggi.
S’un principal motor del tutto sanno,
perché si abbaglia questo Sol lor ciglia,
che a ben veder del tutto occhi non hanno?
13011 fattor della luce s’assomiglia
ad un possente re, che molti e molti
ministri elegge a cura di famiglia.
Ricchi tesor tien, che dissepolti
parte per sé dispensa, e n’orna sale,
135teatri, templi ed archivolti:
parte ad un suo dispensator leale
degli altri piú copiosamente affida,
ed egli a questo e a quel n’è liberale.
Giá non può far ch’a punto non divida
140quanto gli è dato, sian pur gemme ed oro,
eh’ove si merta onor fidanza annida.
Cosi Dio fe’ la luce, suo tesoro.
Parte ne fu l’angelica natura,
ch’adorna il trono al trino concistoro.
145Parte per darla a noi chi ha di noi cura,
pose nel cielo un occhio e a quel la infuse,
che avesse a darne a ogni altra creatura.
Quinci la luna e tante stelle, fuse
nel curvo del gran cielo esposto a noi,
150dieron lor faci, da quell’occhio infuse.
Queste di Dio son lampe e specchi suoi.
Da lui per loro avemo giorno e sonno,
cibo, stagioni, tempo, binanti e poi;
si che senza quel primo maggior donno,
155che innanzi al sol giá fatto avea lo lume,
quel, che non hanno, dar altrui non ponilo.
Però ben posto ha Mòse al suo volume
che il sol creossi dopo al terzo giorno,
come lanterna ch’altrui luce assume.
160Fatto fu dunque il di, non anco adorno
il del del luminar maggior essendo,
e men quel del minor dal freddo corno.
Di quanto dissi autoritá vi rendo
di bocca d’òr Palermo, né altri esempi
165fuor del gran Mòse a voi per boria vendo.
Giá sono andati, la Dio grazia, i tempi
che il beato Aristotil piú di Cristo
profitto far credea nei sacri tempi.
Non ho per spazio di trent’anni acquisto
170fatto se non d’inciampi, sogni ed ombre,
pensando veder tutto, e nulla ho visto!
Or oltre non appar chi il vero adombre,
quantunque impugnator di lui non manchi,
che degl’infermi ognora il senso ingombre.
175Pur non cessiamo noi, piú sempre franchi,
dir Cristo ora con voce or con inchiostro,
acciocché al destro de’ suoi giusti fianchi
grazia riponga in fine il seggio nostro.
i
CANTO VI
Creazione dell’uomo — Paradiso terrestre—Arbore del bene e male.
Sgiunte che fúr le chiare forme e oscure,
gli angeli assunti ed i demòn cacciati,
e d’una oggimai fatte due nature,
quei ch’eran parteggiani a Dio restati.
5trattisi all’alto Sole piú vicini,
seggi infiniti si lasciar votati.
Allora il chiaro piú fra’ cherubini
alzò l’acuta voce ed ispedita,
figgendo i suoi Degli occhi a quei divini,
io — O bontá — disse — somma ed infinita,
o lume pien di ferma providenza,
o eterno largitor d’eterna vita,
ecco di quei superbi l’insolenza
quanta cagion v’han porto di mostrarne
15l’ordita impresa in noi di sapienza.
Voi non sdegnate, o Amor, notizia darne,
ch’angel non mai. non uom fia mai securo
senza il vostro splendore in uman carne.
Il vostro con voi sempre lume puro
20sta giunto all’uomo in voi, che fin ad ora
noi rassicura e gli uomini in futuro,
g Ter lui sol dunque, ch’ama ed innamora,
n voi giustizia affrena sdegno ed ira,
e servii tèma caccia de’ suoi fuora.
25Prego, vedete come a voi s’aggira
l’angelica natura priva e scema
del numer di color che il duol martira !
Esser non può che la pietá non prema
quel vostro a voi Figliuolo coeterno,
30splendor di gloria e caritá suprema;
e inducal al grand’atto, ch’io discerno,
di crear l’uomo buon, e, uscendo pravo,
trarselo in croce al ciel fuor dell’inferno.
Si che formatol ora, s’io m’aggravo
35piú mai d’averlo sopra, non che a paro.
caggia con gli altri rei nel centro cavo. —
In tanto dir le voci tutti alzáro,
voci di gaudio quei di sopra, voci
di doglia quei di sotto in pianto amaro.
40De’ quali un de’ piú negri e piú feroci
spinse il fier guardo fuor d’alcune tele
con ciglia oscure, al battere veloci.
Apre gran bocca, e fuor ne gitta fele,
col cuor amareggiato d’odio e rabbia,
45movendo contro a noi triste querele.
— Nasca — dicea, mordendosi le labbia, —
nasca quest’uomo tuo, nasca giammai,
che solo di te, Dio, l’imagin s’abbia!
So che per mio dispregio e scorno il fai,
50del tolto a me guadagno possessore,
acciò che in ira io tragga eterni guai.
Ma cruda invidia, ch’unqua in me non muore,
vegghierá tanto all’uomo insidiosa,
ch’alfine egli vedrassi del ciel fuore.
55E cosi l’alta e degna e gloriosa
tua creatura spero fia de’ nostri,
poi ch’esser debbe a noi tanto ritrosa.
Nostra sará; né quei celesti chiostri
rempiuti fian com’hai, creggio, diviso
60nel tuo collegio, e giá l’effetto mostri.
Lasso ch’io veggio ancor del paradiso
muover tue sante mani a far altr’opre!...—
Cosi gridando, ascose il brutto viso.
Ed ecco alfin quell’animal si scopre,
65che solo ha per costume alzar la faccia
e contemplar le stelle e a lor dissopre.
Esce col capo pria, poi con le braccia,
col busto, con le gambe, e in piedi sorto,
cammina nudo e semplice sdiaccia.
70Alza la fronte e, in quella gloria assorto,
mira di Dio la maestá soprana,
e nel mirar si piglia gran conforto.
L’opra celeste, o vogliam dir mondana,
volge di nuovo, e chiusa si compone,
75e l’alta gierarchia da noi lontana.
L’uom solo, umano e obbietto di ragione,
allo sparir del trono e sante forme
bacia la terra e sopra lei si pone.
Chiúdevi gli occhi e in grembo ai fior sen dorme;
80ed ecco un bel garzone se gli accosta,
pur un di quei dall’ale al ciel conforme.
Egli, ch’era di su mandato a posta,
apregli il fianco, e fuor ne vien la donna
ove la piaga fu tra costa e costa.
85L’angel si cela, e l’uomo si dissonna;
trovasi manco un membro e non gli duole,
fattone un corpo bello senza gonna.
Stende la mano, come far si suole
fra cari amanti, all’omero di lei,
90e queste fúr le prime sue parole:
— Or palpo un osso, ch’è degli ossi miei
e carne di mia carne. — E, detto questo,
baciolla in fronte quattro volte e sei.
L’angel divino appar di nuovo, e presto
95accenna loro e chiama, e presso ’i guida,
tacendo con la lingua e non col gesto.
Scopresi un orto in quello, ove s’annida
piacer, canto, allegrezza, pace, gioia,
grazia, virtú con l’innocenza fida.
100Sonovi cose amate senza noia
di tempo, di malizia e sorte fiera;
né vi è tra gli animai chi ammorbi o moia.
Giá su le porte d’òr fermato s’era
il giovin santo, e, vólto a’due consorti:
- °5 — Qui — disse — non vuol Dio che alcuno pera.
Itene dunque a viver lieti e forti ;
crescete e il ceppo uman moltiplicate,
sempre vivaci e non mai tristi e morti.
Pur nella mente un sol ricordo abbiate,
i io che d’ogni pianta qualsivoglia frutto
avere in vostro cibo ognor possiate.
Ma nell’arbor qui giunto aH’acquedutto,
mezzo al giardin, di poma sempre carco,
contenete la voglia e mano in tutto.
115Di quanto cinge intorno l’ampio parco
e del legno non men di vita lunga
avete sciolto arbitrio e senza incarco.
Sol chi di voi l’audace man prolunga
al ramo ch’apre gli occhi al ben e male,
120converrá pianga o indarno si compunga;
perché tal atto ingiusto e disleale
cosi commuoverá il divino sdegno,
ch’ai gire in ciel vi fian troncate l’ale.
Per sé riserba Dio sol questo legno,
125non perché sia l’egregio e l’eccellente
fra gl’ infiniti di quest’ampio regno;
ma vuol che, agli occhi avendolo presente,
vi conosciate a lui soggetti solo,
cui sia ciò ch’egli ha fatto obediente. —
130Cosi parlando, al ciel riprese il volo.
CANTO VII
Prevaricazione dei primi parenti.
Discorso degli errori per donne usciti.
L’originai giustizia, giá con l’uomo
postasi d’innocenza nel giardino,
rispingea dal dolce e amaro pomo.
Ma non si tosto al del l’angei divino
5vidi volar dal paradiso basso,
che l’arbor diede pronto in mal destino;
ecco alla man sinistra s’apre un sasso
e fuor di rotte pietre ed antri fessi
lanciasi un mostro e va piú che di passo,
10Ha viso, petto e modi ben espressi
d’accorta donna, ma non ha né braccia,
con l’ór in testa di crin lunghi e spessi.
Con quelli, a tergo sparsi, copre e abbraccia
il dosso e ’l ventre d’una grande biscia.
15e in capo della coda è un’altra faccia:
faccia sleale, che qual serpe fiscia,
né come l’altra parla umano e ride;
squamosa questa, molle quella e liscia.
Vien frettolosa e orribilmente stride
20all’apparir suo primo; e, con le piante
ovunque calca, erbette e fiori uccide.
Ma, quando giunge al paradiso innante,
mostra le belle e copresi le immonde
sue membra coi capelli in quell’istante.
25Veggo fra tanto che il pel sozzo asconde,
per l’orto in sollazzando, la bell’Èva,
e nuda al vento dá le chiome bionde.
Tra’ fiori in verde prato Adam sedeva
con gli animali a lui condotti intorno
30ed i lor nomi a questo e a quel poneva.
Qual orso, qual leon, qual liocorno,
qual tigre appella, tauro e al fine quanti
han lane, peli, scaglie, becco e corno.
La donna, che si vede agli occhi avanti
35del mal e ben la pianta e i rami chini
per l’aggravar di tanti frutti e tanti,
mal si contien che a quelli assai vicini,
dolci all’aspetto, al gusto via piú forse,
la man bramosa ratto non acchini.
40A tanto il drago astuto un guardo torse,
e, presa occasione al mal disegno,
subito a lei queste lusinghe porse:
— 0 sol d’ogni animale il chiaro e degno,
a che por mano al dolce ramo temi,
45né gusti la virtú di tanto legno?
A che il nobil tuo stato calchi e premi,
quand’or paventi cosa giusta e lieve,
tu, c’hai del mondo in mano i quattro estremi
A te s’aggira il cielo; a te riceve
50il mar nel grembo i fiumi; a te, uom solo,
sé sopra sé sostien la terra greve.
Quanto si crea tra l’uno e l’altro polo,
tant’ hai soggetto e ne sei fatto donno;
e tanta stima fai d’un pomo solo?
55— Accoglier — disse quella — ben si ponno
questi qua intorno dell’eterna vita,
non quei di mezzo dell’eterno sonno! —
Rise a tal detto quella fronte attrita
dell’infernal arpia. Poi le rispose:
60— Donna, mal sai tua nobiltá infinita;
mal sai quanto di grazia Dio t’ascose
di questa nobil pianta sotto scorza,
ch’egli per onorarla in mezzo pose.
i . Foi ungo, Opere italiane - III.
Se de’ suoi frutti assaggi a viva forza,
65ti s’aprirá quel ben ch’a Dio t’agguaglia,
cacciato il mal, che cieca esser ti sforza.
Pensier non hai si basso che non saglia,
gustando il pomo, a quel divino speglio,
ove s’acqueta il ben, il mal travaglia.
70Anzi che il ben vedrai cangiarsi in meglio,
il male in peggio, come Dio pur vede:
né egli mai muore, né egli mai fia veglio! —
Allor la donna, che al bel viso crede
dell’angel brutto e alle parole accorte,
75volge a quell’arbor col volere il piede.
Si tosto ch’ebbe al ramo le man porte
e ne tolse il piú vago e dolce in vista
e a bocca il pose e morse, ecco la morte,
la morte uscir dal tronco allor fu vista,
80mentre le spalle a quel la donna gira
ed al consorte va proterva e trista.
Giá nuda esser dal capo a’ piè si mira,
nuda di tutto il ben, non che d’un velo,
con mille punte a’ fianchi d’odio ed ira.
85Semplicitade in lei tramuta il pelo
in quello di malizia, e versipelle
porge al marito il tossicato melo.
— Piglia, ben mio!—gli disse, e le mammelle
gli dá col pomo, e piú piú baci insieme,
90fin che fu preso e fe’ turbar le stelle.
Piansi a quell’atto, ed anco il duo! mi preme,
pensando, aimè, di qual altezza e quanta
per donna cadde al fondo il nostro seme !
Oh del mal solo e non del bene or pianta,
95che pur sottrar dovea l’infido ramo
a quella man, ch’or alti abeti schianta!
Ecco per donna il si compiuto Adamo,
pien di divino ed immortai tesoro,
il tutto perde, e noi perduti siamo!
ioo Per donna il gran Sansone, a cui né toro
prevalse né leon né armate torme
di filistei né tutte posse loro,
per donna, mentre a lei nel seno dorme,
vi lascia il senno, le gran forze, gli occhi,
105la vita, Possa e dell’onor le forme!
Per donna, tu, che il ciel col nome tocchi
dell’alta tua virtú, figliuol di lesse,
in ugual vizio, anzi maggior trabocchi!
Per donna il figliuol tuo, che il popol resse
no con tanto antiveder, con tanto spirto,
un vii Sardanapalo alfin s’espresse!
Per donna Erode il capo di quell’irto
nei peli di carnei sant’uomo offerse
all’impudica dea, ch’onora il mirto!
J15 Per donna il primo apostolo, che s’erse
col ferro in arme per fuor trarne il Mastro,
negollo poscia e l’acquistato perse.
Cosi da quel gioioso eterno castro
il nostro priinier uomo fu cacciato
120al freddo, al caldo, al duro incude, al rastro.
Ei non si tosto il frutto ebbe addentato,
che subito stupi vedersi nudo,
nuda la donna, e tutto il ciel turbato.
Poi vede a un tratto minaccioso e crudo
125l’angel balzarsi fuor di nebbia e vento,
armato di corazza, brando e scudo.
Trema col mar, la terra in argomento
che Dio commosso sia, non che natura:
muggion le selve e i monti, e il sole è spento.
130L’uomo, giá piú d’ogni altra creatura
misero fatto, quinci e quindi fugge,
rosso di scorno e bianco di paura.
Ha sempre il genio irato, che gli sugge
col ferro nudo per spavento il sangue;
135ha fuoco dentro e ghiaccio, che l’adugge;
ha seco il danno suo, la donna, l’angue.
Tutti tre fuggon stretti e, ovunque vanno,
ogni bellezza impallidisce e langue.
Trovan le porte alfin, che aperte stanno;
140e da quel tanto ben non conosciuto
sgombrano tristi e vivo esempio danno
a chi sta ritto e ancor non è caduto.
CANTO VIII
Discorso di Palermo: «Come degnamente tutti per lo peccato originale
fummo privi del ben eterno».
Date che far le meritate pene
a quegli egregi nostri genitori,
che a Dio sepper equarsi cosi bene,
chiudesi l’orto degli eterni fiori.
5Giustizia ed Innocenza a mano a mano
tornano al Padre fra gli empirei cori.
Compiuto era il prim’atto, che soprano
troppo a’pastori parvemi d’ingegno,
e pur non fu mai greco né romano,
io Quel pronto uscir di morte fuor d’un legno,
il finto terremoto, l’omhre, il tuono,
il gran contrasto nel celeste regno
mi furo a gran stupore ed oggi sono,
e, mentre vivo, sempre mi saranno;
15e godo s’io vi penso e ne ragiono.
Cose leggiadre fra’mortali s’hanno
dagli uomini sagaci e d’arte illustri,
ch’argani e rote ben disponer sanno.
Vólto a Palermo dissi : — Oh quanti industri
20costor vi avete fatti! Anzi ch’io veggia
opre si nuove, andranno mesi e lustri.
E, s’io narrar vorrò ch’entro una greggia
tal atto vidi uscir, ch’incender puote
Roma, d’invidia non sará chi ’l creggia.
25Veduto ho il cielo aperto e tante rote
d’angeli bianchi e negri, e quel fatale
tra lor conflitto e tante sedie vote.
Finger meglio chi sa? Ma lasso! quale
fu questa colpa originai, cui poscia
ne sia successo pena universale?
30
Peccò sol uno, e paté ogn’uom l’angoscia;
e d’esso tal peccato tant’è il peso
che sotto a quello tutto il mondo accoscia.
A che, se il mio Signor non aggio offeso
35(anzi mi spiace ch’altri mai l’offese),
dannato a morte son, non che ripreso?
Ecco, del nostro empireo almo paese
tutti, come qui veggio, siamo privi!
Queste d’un giusto re non sono imprese.
40Qual gesto è di giustizia, che nativi
sian nosco tutti i mali e in lungo esiglio
erriam per fallo altrui, mentre siam vivi?
Fu giá pur scritto per divin consiglio
nell’alme istorie ebree che mai del padre
45l’iniquitá non porterebbe il figlio.
Or dunque perché andiamo in belle squadre
dritti all’inferno, su dal ciel cacciati,
se male oprò la prima nostra madre? —
Rispose allora il vecchio: — Ahi troppo alzati.
50vi avete, o peregrino, i sensi a quelle
gonfie academie: or giú vi fian voltati !
Quant’anime circondan ossa e pelle,
e quante fin ad or l’han poste, ed anco
son per giú porle, ha Dio per sue rubelle.
55Né perciò dite ch’esso venga manco
alla giustizia sua, suo proprio oggetto,
ché piú dell’altre figlie stagli a fianco.
Ma il nostro uinan saper troppo imperfetta
è a quel divino, e sempre manco sallo
60piú che, sapendo, innalza l’intelletto.
Pur fingovi l’esempio d’un vassallo
di qualche re, che l’ama e molte volte
lo avvisa sia fedel né faccia fallo.
Un gran stato gli dona ed hagli sciolte
65Parche del suo tesoro, né mai vuole
che sue ricchezze a lui sen stien sepolte.
E come per li sparsi rai del sole
la luna è bella e splende pili di quante
stelle volteggia la celeste mole,
70cosi quel cor magnanimo fra tante
levate teste di sua nobil corte
vuol che colui sia l’alto, sia il prestante.
Or, mentre vive quello in tanta sorte,
un altro re, per acquistar piú regni,
75tenta cacciar quest’altro o dargli morte.
Per mar, per terra squadre armate e legni
vengono e van per sottoporlo al giogo,
tórgli lo scettro e far non oltre regni.
Vanno le ville e borghi a ferro e fuogo;
No ma il maltrattato re, nell’armi usato,
occorre al l’avversario in ogni luogo.
Fra tanto quel suo caro, a cui lo stato
ampio donò, dall’ór corrotto e guasto,
fu manco al suo signor, infido e ingrato.
85Dal nuovo re, di vii metallo pasto,
muta pensier con sorte, persuaso
che il vecchio non starebbe a quel contrasto.
Ma, poi che della guerra vide il caso
succedere in favor del suo signore,
90cacciato l’altro e rotto alfin rimaso,
perse di riacquistar piú mai l’amore
e grazia del padrone ogni speranza,
restando il nome sol di traditore.
Fugge dall’ira e lascia regno e stanza,
95e della mal serbata sua ventura
si pente tardo, e gran timor gli avanza.
Quanto piú lunge in una grotta oscura
celasi il giorno, e per nutrirsi frange
di notte con sudor la terra dura:
100pan di dolor convien s’acquisti e mange.
Scorno e timor dagli altri tienlo ascoso
e del perduto ben si cruccia e piange.
Or, dite voi, vi par forse ritroso
sia stato alla giustizia in alcun gesto
105contra il vassallo il re vittorioso?
— Si vede pur per fallo manifesto
che il traditor, temendo la sua vita,
non è a campar che fu a tradir men presto.
Qual colpa — dissi a lui — fia mai punita
no piú di quest’una sopra l’altre fella?
qual pena v’entra, salvo che infinita?
Noi priverei del regno pur, ma della
piu oscura torre il cacciarei nel fondo,
finché n’uscisse l’anima rubella.
115— Non cosi — disse — allor successe al mondo?
non cosi piacque al Re vendetta farne?
Gli tolse il regno e fu di sangue mondo.
Ma che successe poi? Di quella carne,
perfida carne, crebbene famiglia,
120gridante al cielo: — A che si maltrattarne?
Se il padre nostro abbandonò la briglia
sul precipizio e vi si ruppe il collo,
perché tal suo capriccio a noi s’appiglia?
Cosi del re si doglion; ma non puollo
125riprender legge o cosa qualsivoglia:
quel reo se stesso, non il re privollo.
Cosi di Dio non ha di che si doglia
lo stato nostro uman, se or vive servo
e in esser tal che Dio del ciel lo spoglia.
130La colpa fu pur sola del protervo
nostro parente primo, il qual non ebbe
contra si vii desio ragion e nervo.
Detto gli fu da Dio che ne morrebbe
gustando il pomo, ed egli morir vòlse,
135ché sempre in quel si vieta brama crebbe.
Qual pianta esso piantò, tal frutto colse,
e fu del padre il tanto mal governo
che in strema povertá gli eredi accolse,
privi del cielo, eredi dell’inferno. —
CANTO IX
Lamento ed orazione di Natura al sommo Padre.
Del buon pastor non anco al fine giunta
fu quella vera e commoda figura,
che fuor del verde smalto un capo spunta.
Un capo pria, le spalle, la cintura
5col resto poscia in un lugubre manto,
c’ha forma di matrona, ed è Natura.
Pallido volto e pien di duolo e pianto
mi s’appresenta; ed un sospir amaro
leva con gli occhi e questo fiebil canto:
io — S’ io non sapessi e non mi fosse chiaro,
o sommo Padre, quanto d’importanza
sia stato il fallo del mio figlio caro,
non unqua caderei giú di speranza
di riacquistar piú mai gli andati beni,
15solo per sua, non per altrui mancanza.
Or che sperar si può, ch’io veggio pieni
d’ortiche, vepri, sassi, fango e luto
quest’orti miei, che giá fur tanto ameni?
Pur, quando in voi ripenso l’instituto
20vostro gentile, alla pietá si pronto,
mi drizzo in speme ancor d’avervi aiuto.
E qual aiuto chiedervi m’affronto?
il vostro Figlio, il vostro amor, il quale,
per sciòrre il fallo mio, a noi fia cónto.
25Non posso far che lui, come sleale,
ingrato ai vostri doni e grazie, o Padre,
non tratti quanto può trattarsi male.
E piú che l’amo, essendogli pur madre,
piú nell’avervi offeso in lui mi sdegno;
il batto, il caccio in selve orrende ed adre;
3°
spogliato l’ho del dato da voi regno.
Essenzie, qualitá, materie, forme,
fatte a lui strane, gli mantengon sdegno;
sempre in affanni vive; raro dorme;
35il freddo, il caldo, mille pesti e morbi
da quel ch’era con voi sei fan disforme.
D’ale proveggo e piume astori e corbi;
di lane, peli e sete agni, orsi e porchi;
di squame e scorze pesci, conche e sorbi.
40Sol nudo esce quest’uom da luoghi sporchi;
sol piange, e nasce misero, senz’arte
di star sui piedi, e fa mestier si corchi.
Corcasi avvolto in fasce lunghe ed arte,
ché i piè, le man per me gli faccio indarno,
45se industria noi rifèsse a parte a parte.
Pur io, poi ch’arte e industria il sollevárno,.
lui nel peccato suo, nell’ira vostra,
affliggo in cento guise, addoglio e scarno.
Né indegnamente il faccio; ché la nostra
50ereditá, Signore, a noi concessa,
come per lui sia gita ben si mostra.
Per lui folgore e grandine giú messa
i miei bei fior, le mie bell’erbe abbatte,
e uccide gli animai, qualor vien spessa.
55Per lui d’ogni mia serpe il dolce latte
oggi amareggia in fetido veleno,
send’elle piú ch’altrove a lui rie fatte.
Per lui freme il leon di furor pieno;
crebber le sanne al porco, al griffo l’unge;
60il cane arrabbia; il tauro non ha freno.
Per lui la ragna e scorpio morde e punge;
il negro tasso ancide e la cicuta,
si che il mal stagli presso, il ben va lunge.
Per lui mia dolce umanitá caduta
65veggo di Satanasso in tirannia,
dond’egli s’alza e voi e me rifiuta.
Ed io d’ogni quantunque sorte ria,
d’ogni vita dogliosa ed infelice
non trovo amara piú di questa mia.
70Ecco di quanti rai, se dirlo lice,
nel fondo di quest’ombre ora mi trovo,
figliuola vostra e d’ogni ben nutrice.
Io, quella che da voi la ruota muovo
all’asse intorno perché il mondo abbello,
75ecco per l’uomo solo io porto il giovo.
E pur m’è figlio, da te fatto bello
sol piú degli altri corpi, e sol eterno,
e che il miser si trovi a voi rubello.
Deh, Dio, con qual dolor, con quanto scherno,
80d’ogni viltade il piú vii nato il veggio,
bersaglio di dolor, preda d’inferno!
Padre, se la pietá ver’ lui tien seggio
nell’infinito amor che il cor vi molce,
prego non siate scarso a quel vi chieggio.
85Se, dico, il dolce amore ancor fa dolce
l’amaro sdegno in voi contro mio figlio,
anzi pur vostro, e a ben sperar mi folce;
s’ebbi mai luogo nel divin consiglio,
e di mia prima etá giammai vi calse,
90ed or vi cal di trarmi fuor d’esiglio;
se zelo mai contr’ira in voi prevalse,
dico quel santo zel che il cuor v’ingombra;
se le promesse vostre non son false;
quel vostro sol ch’ogni altra luce adombra,
95quel vostro Figlio, in cui ben vi compiace,
venga a trar noi di quest’orribil ombra!
Speranza, Fede, Caritade e Pace
so che vi stanno al divin seggio intorno
e pregan per l’uom vostro, ch’orbo giace:
100anzi pur morto; anzi vivo soggiorno
fa in grembo a morte, e servo del peccato,
e i demoni ne fanno giuoco e scorno.
Vedete come l’hanno cattivato
e tratto a voglia lor fuor di quel bene,
105quel bene, per lo qual fu pur creato!
Come vostra bontá dunque sostiene
che il peccato, il diavolo, la morte
e l’ira vostra il traggano in catene?
Quanto di lor piú invitto siete e forte,
no piú in lor vendetta oprate, e piú clemenza
nell’uomo, fatto agli angeli consorte!
Se del primo certame alla violenza,
send’esso nuova prole ed anco imbelle,
non seppe o far non volle resistenza,
115questa vittoria, fin da che le stelle
non eran anco, al vostro amor si serba,
che in carne vinca e questo error cancelle.
Or che potea mio figlio a si superba,
a si feroce bestia e d’arte piena,
120porgendo il frutto della pianta acerba?
Avea l’arbitrio si, ma nato appena;
però d’un tal valor non stette a fronte,
ma senza polso cadde e senza lena.
Scusa non ha però, sendo a lui cónte
125le vostre di precetto alte parole,
che al pomo non avesse le man pronte.
E pur quel vostro di giustizia Sole
non s’uniria, siccome avete in mente,
nel tempo della grazia alla mia prole,
130se invan uscia la frode del serpente,
se d’Èva era la fronte manco trita,
se stato fosse a fren d’Adamo il dente.
Or venga venga il certo autor di vita,
che come al mondo vosco fece l’uomo,
135cosi vosco lo salvi, e allor spedita
l’alto effetto vedrò di questo pomo! —
CANTO X
Apparenza di tre persone: Giosuè, Ezechia e Salomone
Come, di porto uscendo in alto mare,
vedi che torre o poggio a poco a poco
cala nel golfo e poi non oltre appare;
non men fisso mirai, nel proprio loco
5dove cantò, della Natura umana
sparir le gambe, il busto e volto fioco.
E in questo alla man destra ins’un’alfana
procede un uomo armato, il qual è vero,
siccome la giumenta è finta e vana,
io Del forte Giosuè sopra lo cimiero
il nome porta in fronte, la sembianza
è dentro forma del divin mistero.
Ha brando e scudo a fianco; ha in pugno lanza;
ha d’oro e vive perle ornati arnesi;
15va sua statura in alto e sopravanza.
Fermossi poi con gli occhi al cielo tesi;
cantò quei versi, ed or gioisco e fruo
perché da me fúr, la Dio grazia, intesi:
— Il Signor Dio — dicea, — che il popolo suo
20tien sempre in cor, lo scorge e gli consente,
passerá guida innanzi al corso tuo.
Ma questa dura ed ostinata gente
si terrá innanzi agli occhi, ch’essa, ingrata,
quanto di ben le faccia mai non sente.
25Ecco d’un gran profeta l’onorata
faccia susciterá di te nel mezzo,
cui popol novo e gente fia donata.
Pigli, splendor di cortesia, col prezzo
del puro sangue suo purgherá Palme
30nel puzzo involte dell’antico lezzo. —
Cosi diss’egli, e con le giunte palme
ed elevato spirto al ciel mirava
quel carco di trofei, d’allori e palme.
E, poco stando, alle sue spalle entrava
35l’aspetto d’un re grave, il qual venia
s’un gran corsier ch’alteramente andava.
Quest’era la persona d’Ezechia,
diverso assai dell’empio ingiusto padre;
si grato re, che piú non si desia.
40D’Acham le prove infami e imprese ladre
cacciò dall’onorato regio scanno,
e vi ripose l’alte e le leggiadre.
Vien in un manto d’oro; e, mentre stanno
i piè del cavai bugio e mosso ad arte,
45leva la faccia, e gli occhi ad alto vanno:
— Dio — disse — degli eserciti, c’hai parte
col fido tuo Israel, dove t’assidi,
sempre a lui .soprastando il crudo marte?
Deh muovanti a pietá gli umani gridi,
50drizzati a te di questa uman cattura!
che loda n’hai se il tuo diletto ancidi?
Noi delle mende nostre la bruttura
ti confessiamo: venga il tuo Figliuolo,
ch’aggia di noi promesso a noi la cura! —
55Cosi disse quel pien d’amaro duolo;
né le stille degli occhi stetter chiuse,
a tal che seco piansi, e non fui solo.
Subito dopo lui da sé si chiuse
nella man destra il catafalco ancora;
60ne usci il prim’uomo delle scienze infuse.
Quel Salomon, quel savio re, ch’onora
degli altri re di sapienza i fregi,
su la paterna mula n’esce fuora.
La fronte impressa d’alti privilegi,
65da Dio concessi al suo fondato senno,
ben mostra ch’egli è primo re de’regi.
Palermo allor si volge, e mi fa cenno
ch’io drizzi ben l’orecchio agli alti accenti,
ch’uscir del sol d’ogni scienza denno.
70Quella, che porta lui con guarnimenti
di gemme carchi (ed egli n’era carco),
vien con l’andar soave a passi lenti.
E giunto ove dovea restarsi al varco,
quest’oracol, di sensi accesi adorno,
75dal petto usci di quel suo amato incarco:
— Tenean le cose gran silenzio intorno,
e della notte mezzo al corso il lume
del minor ciel voltava il freddo corno,
quando l’onnipotente Verbo e Nume
80dell’alta gloria tua, Signor, dal seggio
regai discese al nostro uman costume.
Aspro debellator, senza pareggio,
col ferro acuto inalza il suo gran Stato,
mentre corregge il mal, condanna il peggio. —
85Tal fu sentenza di quell’assennato,
che tacque alquanto, e poi di nuovo aperse
la dotta bocca come innamorato:
— E chi è costei, che quale aurora s’erse
fuor del suo ameno orientai giardino
90tra bianche rose, tra vermiglie e perse?
Non men di Cinzia illustra il matutino
con l’alte sue bellezze e negli odori
del giglio, del giacinto e gelsomino.
Anzi costei fra mille bei colori,
95eletta come il sole, adorna il cielo
di stelle d’òr, la terra d’erbe e fiori.
Sorgi, colomba mia, sorgi col velo
delle tue piume bianche piú di neve,
piú di ligustro su. suo verde stelo!
100Vieni, formosa mia, ché il tempo breve
portasi lunge il verno, e a te rinasce
stagion di fiori e l’aura dolce e lieve!
La tortorella le sue antiche ambasce
odesi mormorar dal caro nido,
105e il vago armento le moU’erbe pasce.
Vieni, colomba, vieni, ch’io m’assido
qui fra cavate pietre e duri sassi,
ove t’attendo e sospirando grido.
Tanto sei dolce e tanto i vaghi passi
io muovi leggiadramente, o suora, o sposa,
quanto sei bella e l’altre addietro lassi!
E se non sai quantunque sei formosa,
o tra le figlie amata pastorella,
esci col gregge tuo, né star nascosa!
115Come tra spine un giglio, cosi bella
tra l’altre vai, né piú leggiadri tiene
occhi colomba e guance tortorella.
Il cuor ferito m’hai, sciolte le vene
con un degli occhi tuoi; con un de’crini
120il cuor ferito m’hai. Chi mi sostiene?...
Vieni nell’orto mio, d’allori e pini
sotto lor ombre, ove si miete e coglie
mirra con altri odori a lei vicini !
Vien’ dunque, vieni a medicar le doglie
125de’miseri mortali, o grazia, o fede,
o amore, o zelo di Colui che toglie
le colpe nostre in croce e al Padre riede! —
CANTO XI
Apparenza di tre altre persone: regina Saba, Iudit ed Ester.
Stavano ancor le tre persone altiere
del verde anfiteatro alla man dritta,
quando alla manca vidi uscir tre fiere.
Un toro bianco il primo fuor si gitta
5d’un balzo, tal che piú non vola ratto
all’osservato augel spinta sagitta.
Egli è di stucco o legno o d’altro fatto,
e viva carne par, ch’una regina
porta sul tergo e lanciasi qual gatto,
io Donna e pur uomo vivo, e pellegrina
ne l’abito si mostra, saggia, onesta,
e tal che a farle onor ciascun s’acchina.
Di luci d’òr la coronata testa
piegò ver’ Salomon, che il simil face;
15poi contro a Giosuè per fianco resta.
Non oltre salta il bue, che si vivace
poc’anzi apparve, or sta come restio,
mentre la donna parla e il popol tace:
— Sia benedetto — disse — il Signor Dio,
20che degli eletti suoi t’ha il primo eletto,
di virtú fonte, d’alme grazie rio.
11ben fondato trono del diletto
suo nobil Israèl agli omer tuoi
ha imposto per serbarlo giusto e netto.
25Imperadore e re de’ santi suoi
da lui sei stabilito in sempiterno,
ove disponi e tratti quanto vuoi.
Dell’universo per voler paterno
giudice, hai fatto (potestá reale!)
30a’ buoni il cielo, a’mali dar l’inferno. —
Queste parole con dir alto eguale
formò la lingua di colei, ch’avia
occhi maturi e aspetto matronale.
La faccia sua voltò verso la mia
35Palermo allora, e sorridendo disse:
— Qual pensier peregrino in voi si cria?
— Vorrei — risposi a lui — che piú prolisse
fosser le dolci parolette sute
di quella voce, che il mio cuor trafisse !
40O Dio, quando fia mai che le virtute
dell’alte ora si ben cantate carte
portin, com’han promesso, a noi salute?
Quando fia, dico, mai che Giove e Marte
e gli altri stolti dèi sian spenti, e Cristo
45riluca sol del mondo in ogni parte?
Mi persuado pur che quanto ho visto
e per veder son anco in questa scena,
abbiate per lui solo qui provisto;
e che quant’odo dire in voce piena
50da questi personati sian misteri
di quel venturo Amor, ch’ai ciel ci mena.
E sento gli offuscati miei pensieri,
vostra mercé, venirmi a poco a poco,
alle sentenze di costor, sinceri.
55Chi sa se forse tra gli eletti loco
abbia talor, quantunque incirconciso,
quantunque degno dell’eterno fuoco!
Ma veggo uscir di donna un altro viso.
Datemi, prego, il nome della prima;
60ché di questa seconda n’aggio avviso.
Al teschio che una mano tiene in cima
pei capi folti, e l’altra il brando nudo,
che questa sia Iudit per me si stima.
Or mi sovvien veduto aver un scudo
65scolpito di costei, com’ora veggio,
col tronco a’ piedi d’Oloferne il crudo
Sol della prima il nome intender chieggio.
Rispose: — Quella è Saba, che ver’ l’ostro
nella felice Arabia tenne il seggio.
70Fu gran regina e giusta. Ma del vostro
parlar sospeso stommi, che diceste
veduto aver Iudit sopra quel mostro.
Un grifo è quel, che d’aquila si veste
dal mezzo innanti, a dietro di leone:
75raro animale e degli armenti peste. —
Ed io a lui: —Giá il detto mio vi spone,
gentil pastor, la cosa; ch’io la vidi
col capo in mano e a’ piedi quel troncone.
La tromba di costei per monti e lidi
80non sona men di quanti e quante han lodo
e sempre avran di lor giusti omicidi.
Oh, come vien leggiadra con quel nodo
delle raccolte trecce! Or stiamo attenti.
Ella giá canta; parmi udirla, io l’odo.
85— Magnificato sia il Signor, che i venti,
la terra, il mar creò con l’universo
ed in me spira queste rime ardenti!
Esso drizzò per la sua man il terso
mio nudo ferro nel superbo collo
90del fier gigante, al nostro mal converso.
Ben ha post’alto il nome tuo; né póllo
il popol dir se non con tua gran laude,
ché Dio per te da morte sollevollo! —
Cosi cantò la diva. Ognun l’applaude,
95dá lode ognun, che il popol da lei sciolto
d’assedio fu con si lodevol fraude.
Da poi tanta guerriera, non stie’ molto
la terza fiera trarsi fuor d’un salto,
ed è di lonza un ben composto volto:
100in quel gittar che fe’ del corpo in alto,
si tenne a lei sul dosso una donzella,
qual uom di guerra quando fa l’assalto.
Costei, delle due prime assai piú bella,
d’un sciamito rosato a liste d’oro
105era coperta, vaga, lieta e snella.
Poi, giunta ov’eran l’altre dietro a loro,
fa cenno all’animal che il passo tenga,
per far invidia di Parnasso al coro.
Con voce d’armonia celeste e degna
110la dea, che veramente «dea» la chiamò,
mosse questa canzon di lutto pregna:
— Deh, Signor Dio del padre nostro Abramo,
miserere di noi, tuo popol caro,
ché dal nemico vinti e oppressi siamo!
115Non veggo al nostro scampo alcun riparo,
se gli occhi di pietá non volgi, come
volgesti ancor d’Egitto al giogo amaro.
Magnifica, Dio santo, il tuo gran nome
sopra la boria e nequitosa voglia
120di voler porre a noi crudeli some! —
Cosi cantando, esposesi la doglia
del vecchio uom nostro, cattivato e franto
dal fier tirán, che lui d’arbitrio spoglia.
Tai sensi dá di questa scena il canto.
CANTO XII
Apparizione della sibilla persica.
Discorso di due leggi. — Palermo siciliano.
Dall’alto verde ciel, dove due cori
pendean d’alati e bianchi fanciulletti,
la musica spari tra fronde e fiori.
L’atto secondo insieme fu coi detti
5d’Esler compiuto; ed io, vólto al pastore,
gli narro alcuni in me pensier concetti.
Spinsemi il saggio d’ogni dubbio fuore,
siccome di soggetti e occulti sensi
delle Scritture buon conoscitore,
io Gravi mister, sopr’ogni stima immensi,
di quelle sei persone mi dipinse
e come i versi lor snodar conviensi.
Delle tre fiere il fatto ancor distinse,
gli abiti e moti lor e quanto apparse,
15e tutto al suo mora! soggetto strinse.
Felice lui, che cosi ben le sparse
sue voglie accolse in un desir ardente
di piú piú sempre al ciel da terra alzarse !
Però quell’almo Spirto, che non mente
20(ché non fallisce ch’il ben cerca e chiede),
degnossi al gran Palermo aprir la mente.
E come al fido Abramo grazia diede
veder tant’anni innanzi Cristo in carne
per quella ch’era in lui vivace fede,
25ed indi un raggio all’intelletto trarne
e l’alto Dio veder far uomo e tórre
di croce l’ignominia per salvarne;
cosi degnossi a questo padre sciòrre
le ricche vene di quel gran mistero,
0
che per le sante carte occulto scorre.
3»
Giá del del finto al mio destro emisfero,
dov’io sedea, pendente vien per l’aria
un negro drago e in vista molto fiero.
La musica, di suono e canto varia,
35tacque con gran silenzio al primo aspetto
di quella falsa bestia e temeraria.
Come il pittor del 1 i pianeti è astretto
por uomo o donna in carro fra due rote
tratte dagli animai per l’aer schietto,
40non men sospese in alto fiere vote
ir vidi ad una ad una e trarsi dietro
molte sibille e vergini devote.
Vien dunque il mal serpente sotto un tetro
scaglioso corio, e un carro par che tire
45di color tal qual è d’arancio o cetro.
La Persica vi è dentro, e par s’adire
contro lo stesso drago, in viso altiera.
Poi cominciò cantando cosi a dire:
— Ecco, mostro infernai, ecco, empia fiera,
50che un gran potente in tuo malgrado nasce,
per cui del regno tuo la fin si spera!
Dal ventre verginal, dal latte e fasce
all’alma croce sua quel ben ci porta,
che sol d’amore i cuori nutre e pasce.
55Né pasce i cuori pur, ma sotto scorta
di sua divinitá con cinque pani
ben cinquemila corpi riconforta. —
Cantato ch’ebbe, volse gli occhi umani
Palermo a me: — Giá — disse — non ci avete
60dell’Uomo Dio non sempre ebrei, ma strani.
Dal primo tempo a questo, in ch’ora siete,
due leggi pose Dio per freno a quanti
ha Morte presi e prende alla sua rete.
La prima fra le genti nacque innanti
65fosse notizia del peccato occulto;
e posto a star col re d’eterni pianti,
quel primo ceppo uman, d’ogni arte inculto,
di questa innata legge e naturale
impresso era ne’ sensi e dentro sculto.
70Ma, sendo l’uom piú sempre a peccar frale,
e non avendo il fallo suo palese,
potea pure scusarsi di tal male.
Di che per ignoranza molte offese
turbar faceano in ciel l’ira divina,
75che spesso in sua vendetta l’arme prese.
Poi, di tant’alme al danno, alla ruina
volendo opporsi, un’altra legge scritta
diedesi a Mòse in cima all’alto Sina.
Esso la stirpe ebrea, molt’anni afflitta
80sott’aspra servitú, cribrolla a pieno,
inentr’oltre i gran deserti la tragitta.
S’erse il peccato allor né piú né meno
d’occulta biscia, quando il piè la calca
e chi lei mira scansa il mal veleno.
<85 Scansasi ognuno, e quanto può cavalca
lontano a lui; ma quel, mentre va in luce,
gran parte di sue forze si diffalca.
Come se un torchio acceso riconduce
alcun di notte, ovver per antri e cave,
90ciò che fu oscuro agli occhi suoi riluce;
non men quanto fúr lorde, triste e prave
l’opre del mondo, all’apparir di legge
insieme apparser col peccato grave.
Or son le travi, or le minute schegge
95non pur a Dio, ma in gli occhi a questo, a quello;
ed è chi le punisce ovver corregge.
Sa l’uomo in sé suo stato o buono o fello,
grida legge ch’è dura e scritta in pietra.
E chi è di voi ch’a Dio non sia rubello?
100E chi opra di voi bene? Ognun s’arretra
e slargasi da me, perché vi dico:
— Ai vostri error salute non s’impetra! —
Non vaiti, o popol vano ed impudico,
le impudiche tue membra ed inoneste
105celare altrui con pampini di fico!
Per me le piaghe or vedi di tua peste,
che non vedesti senza me giammai,
acciò ne provi quanto sian funeste,
acciò tu gridi: — Lasso! ch’io peccai
no coi primi nostri padri, e della morte
e dell’inferno sempre ho meco i guai!... —
E ch’io salute in questo alfm ti porte
non sperar, no, ch’io t’apra il morbo sola;
ma nel Figliuol di Dio fa’ti conforte!
115Egli sol vieti dal Padre, egli consola
con vin ed olio, e non con ferro e fuoco,
natura umana ed halla per figliuola.
Or, serva del peccato, a poco a poco
si è ridotta a tal, che i porci stigi
120n’han sempre copia e in stupri ne fan gioco.
Salvo non fia tu mai, se non t’affiigi
de’ falli tuoi passati, e nel futuro,
medico certo, ogni tua speme affigi.
Cosi la scritta legge d’un sol duro
125popol giudeo le mortai piaghe aperse
del rio peccato, ch’era in Palme scuro.
Quinci la mente degli eletti s’erse
a ripensar le gran miserie e’ danni
di tutte Palme nel profondo immerse.
130Con larghi giri a Dio picgáro i vanni
di lacrime, di prieghi e di sospiri,
chiedendo fine a cosi lunghi affanni.
Fia dunque sodisfatto ai lor desiri.
Verrá quel ch’ora nunzian questi carmi;
135verrá la fin di legge e suoi martiri.
Or sotto legge di natura panili
che Dio fu conosciuto ed adorato,
ed io fra molti posso in ciò lodarmi.
Dall’isola regale, ov’io son nato,
140Siciglia, dico, in queste bande venni
coi padri dello stuol ch’è qui serrato.
Far voto a legni e pietre non sostenni;
vizio commune a tutto l’universo,
non che a’romani ed altri arguti senni!
145Qui riconosco un Dio per quel che verso
quante son creature umane in terra
padre si mostra e nel l’amarle immerso.
Però di noi gentili chi non erra
da legge di natura e vera latria,
150quanto l’Ebreo, tanto il mistero afferra!
Ecco che le sibille, d’altra patria
che di Giudea, con molti padri han scorto
in carne Cristo a disfar l’idolatria.
Ed io per lui, che vien, mi sono torto
155alla man dritta, essendo su la manca,
per traboccar nel centro, e mi conforto,
si che non temo lei ch’ivi s’imbianca. —
CANTO XIII
Apparenzia di quattro sibille: tiburtina. ellespontica, frigia ed eritrea.
Cosi parlando il caro a Dio Palermo,
pèndola stava in alto la sibilla,
tenendo a fren quel simulato vermo.
Poi ratto a man sinistra il ciel sfavilla
5fra molti rai, cui segue un finto tuono
ed odorata pioggia fuor distilla.
Io tutto in quella parte vólto sono,
di novitá bramoso, e a capo nudo
quest’umor si soave accetto in dono,
io Di quei pastori l’arte, industria e studo
non si può dir, e dirlo vo’; ma, lasso!
a pien noi dico, e indarno stento e sudo.
Lenta venia quella rugiada abbasso,
fuor d’un nuvol d’incenso, che rimbomba
15per fuoco acceso e di profumi grasso.
Con vario suoli alfin di corno e tromba
l’aquila negra con due capi uscita,
porta fra l’ali a tergo una colomba.
Di questo altiero augel virtú infinita
20carte infinite ha di sui gesti piene,
la luna ha sotto i piè di sol vestita.
Non sdegna aver su le superbe schiene
la colomba Sibilla tiburtina,
vestita in bianco, e d’alto la mantiene.
25Cosi degli altri augei questa regina
finsesi aver portato Ganimede,
che in cielo a Giove nettare propina.
La casta donna onestamente siede
d’un augel tanto nel piumoso busto
30ed in andando un canto tal ci diede:
— Sotto il gran tauro, Cesare l’Augusto,
che in sino a Iano chiuse il crudo Marte,
nascerá in pace un uom, che sol fia giusto.
Nascerá Dio fatt’uomo in quella parte
35della Giudea, che Betelèin vien detta,
e fien sue prove sante al mondo sparte.
Felice oh quella madre, che, perfetta,
il Mar di grazie, vergine incorrotta,
fia di nudrir, dopo il gran parto, eletta! —
40Finito il canto, un’altra vien condotta
dell’aureo vello al bel monton dissopre,
ch’esce a man dritta fuor di verde grotta.
Ella non è costei che a noi si scopre;
la saggia Ellespontiaca si chiama,
45che calca l’oro e splende di sant’opre.
A Persica vien presso, ed una rama
di verginella oliva porta in mano,
come colei che pace annunzia ed ama.
Poscia fermata, in un bel dir sovrano
50alza la voce ributtando il velo
del capo a spalle in gentil atto umano.
— Su dal bel — disse, —ov’è piú largo il cielo,
piegò l’Onnipotente all’umil gente
un sguardo di pietá, d’amor, di zelo.
55Cosi, pien del suo fuoco e tutto ardente,
nei di postremi e tempo diffinito
scenderá in terra e fiaccherá il serpente.
Di vergin grembo, che fu prima ordito
al frutto senza seme, al parto intero,
60nascerá fra gli ebrei, da lor tradito. —
Palermo disse allor: — Questo mistero
sol per virtú di queste oneste donne
piú sempre a noi vien chiaro e piú sincero.
Di Zibeltarro all’ultime Colonne
65fin dal piú basso mar dell’Asia grande
nuncio di lui l’alto valor portonne.
Han queste sante di diverse bande
lor patrie a tal, che il mondo udirne a pieno
fin ad or puote dalle prime ghiande. —
70Ma vien fuor l’ippogrifo, e tienlo a freno
la buona Frigia, dentro al carro assisa,
e con le rote segna il ciel sereno.
Tacque il buon vecchio; ed ella, c’ha divisa
la fronte di due corna in stola bianca,
75del piú basso pianeta viene in guisa.
Poi dietro a Tiburtina alla man manca
schiude le labbra, e la sua voce a volo
s’innalza tonda, dolce e non mai stanca:
— Un sol potente Dio, perpetuo, solo,
80gli umani fasti e le superbe teste
abbatterá dell’alto e orribil polo.
Poi verrá giuso a ripurgar la peste
del maltrattato armento suo, pigliando
di nostra carne incorruttibil veste.
85Cosi, da poi che fia nudato il brando
contro all’inferno, scenderavvi dentro,
traendo alme non poche di quel bando. —
Parla il pastore a me: — Noi siamo al centro
prossimi ornai di questa nostra impresa,
90ed or degli anni miei nell’ultim’entro.
Sento che il carco di cent’anni pesa
troppo alle spalle mie. Deh, Padre eterno,
la vista del tuo Verbo èmmi contesa!
Poss’io sperar di non entrar l’inferno,
95prima che il vegga? Durerò di tanti,
ch’io campi questo sole o l’altro inverno?
Quanti sospiri, quante spemi, quanti
prieghi amorosi a! ciel ti son venuti
dal giusto Abramo e d’altri ardenti santi!
100Desiar quelli, giá molt’anni suti,
in questa vita starvi ancor, se forse...
ma vien, ecco, l’arpia con stridi acuti! —
Cosi quel pien di spirto a un tratto torse
il mozzo ragionar, per cui dagli occhi
105piú d’una calda lacrimetta corse.
Poscia, tacendo, accennami ch’adocchi
la sibilla eritrea, che fra due rote
rade le stelle e par ch’indi trabocchi.
Urta l’arpia, la punge, la percote:
io strid’eila, e fa qual bue contro il bifolco
ch’oppugna il giogo e mai non se ne scote.
Corre celere, e dritto mena il solco,
eh’è uccello tutta, fuor la bella faccia,
qual ebbe Circe o la sorella in Coleo.
115Cruda beltá, che il cuor via piú t’agghiaccia
che non lo scalda, in donna spesso vedi
né intendi la cagion perché ti spiaccia.
Tai fur le due, tal fu l’arpia, che i piedi
ornai distende al destro suo cammino.
120Canta Eritrea ver’noi del ciel eredi:
— Nella piú estrema etá Dio, basso e chino,
per salvar l’uomo, anch’uomo egli farassi,
non sendo in terra men che in ciel divino.
Candido agnel sul fieno corcherassi,
125cui vergine fia madre, eli’è figliuola:
poi, grato, in predicar innoverá i passi.
Schiuderá solo di virtú la scuola;
e i buoi, che intorno all’Orsa tránno il plaustro,
stupidi a novitá si rara e sola,
130quando a! levante andranno, quando all’austro. —
CANTO XIV
Apparizione della sibilla samia, agrippina e amaltea.
Tantosto eh’Eritrea la bocca chiuse,
io veggo un asinel congiunto al bove
la sesta trar di queste dieci muse.
Dall’emisferio manco ella si muove,
5tutta col carro suo di verde ornata,
come s’ornò la moglie ancor di Giove.
Regnò Giunone in Samo, dov’è nata
questa sibilla ch’ebbe nome Samia,
che savia fu, ch’è santa ed onorata,
io Ella non giá discese in quell’infamia,
che la regina di sua patria incorse,
moglie del frate, incantatrice e lamia.
Or, giunta dietro a Frigia non men forse
di cinque passi o sei, non oltre varca,
15ma tien la teda, e questi accenti porse:
— Ecco! d’alti tesori il gran Monarca,
che d’ostro e perle il mar, che d’oro e gemme
la terra e il ciel di vivi lumi carca,
nasce di pover ceppo in Bettelemme,
20ove questi animai l’adoreranno,
a scorno e spregio tuo, Gerusalemme !
Tu, invece d’adorarlo, in fargli danno
le pronte mani avrai, li duri artigli;
ma duo gran re vendetta ne faranno.
25— Oh — disse il sicol vecchio, — ingrati figli,
pessimi ebrei ; ché meglio a voi tal nome
che a noi csiciglian» par che s’appigli
(«pessimi» siamo detti, e non so come!):
a voi non meglio assai tal biasmo squadre,
che il ciel aveste e sorte per le chiome?
30
Siciglia mia, d’illustri ingegni madre,
per quei titol di «pessima» non prese,
ma per tiranni e per lor opre ladre!
E pur, se ad atto pessimo distese
35la man popol alcun di nostra prole,
fu che il re loro a questo far l’accese.
Languendo il capo, tutto il corpo duole;
e, quando impallidir vedi la pianta,
dalla radice è in preda alle tignuole.
40Voi, gente fuor dell’altre eletta e santa,
Dio sol per vostro re, per vostra guida
aveste ognora e il mondo ve ne vanta !
Ma dove peggior ladro ed omicida
fu mai di voi? dov’è manco fedele?
45dove piú il morbo d’ogni vizio annida?
Dio, vostro re, non sparse giá quel fiele
in voi, siccome in noi re maledetto,
anzi vi trasse al mar di latte e miele.
Chi fu giammai di voi ed or chi è netto
51) di cosi varia lebbra? qual incesto,
qual sacrilegio in voi non ha ricetto?
E nondimeno, alla pietá piú desto
che alla vendetta, il vostro Imperatore
si v’ama e serba, che vi par molesto.
55Oh sua bontá tropp’ampia! oh immenso amore!
voi tanto il divin modo in uso avete,
che andate a securtá dietro all’errore.
Voi foste, siete e piú che mai sarete
al vostro ben ritrosi, al mal isnelli;
60si che conchiudo: pessimi voi siete!
Or non memoria piú di questi felli ;
lévati, o pellegrin, la fronte ancora.
Agrippa vien fra odor di gigli belli. —
Parlò cosi quel saggio, il qual onora
65non pur Trinacria sua, ma Italia nostra;
ed io la fronte alzai senza dimora.
Ecco dal fianco destro a noi si mostra
Agrippa bella sopra un elefante,
e fa di ricchi arnesi altèra mostra.
70Dal capo avea fin all’estreme piante
un manto azzurro a bianchi gigli sparso,
ciascun de’ quali abbraccia uno diamante.
E chi le ornò le trecce accolte, scarso
non fu di diaspri, d’agate e rubini,
75si che tal sol non era innanzi apparso.
D’òr similmente un panno avea di fini
smeraldi carco addosso all’animale,
e quel cadea de’ piedi alli confini.
A spalle d’Eritrea questa rivale
So dell’aquila si ferma, e versi piani
senza cantar offerse in modo tale:
— Quel Verbo eterno, il qual dagli occhi umani
s’asconde in cielo, fia palpato in terra
sotto velami a sua natura strani.
85Per tanto parto ecco virtú si sferra
dei nodi antichi, ed Egli, asceso in croce,
trionfa dell’inferno e morte atterra.
Ma pria l’eterno Gaudio in fiebil voce
nascerá infante, e vagirá nel puro
90materno seno, e al ciel girá veloce. —
Compito ch’ebbe, s’apre il verde muro
della diversa scena, ed escon giunte
quattr’aquile grifagne in pel oscuro.
Senza che siano stimulate o punte,
95si menan dietro quattro ruote d’oro,
di minio ed altri bei color trapunte.
Nel mezzo a quelle, onusta d’un tesoro
di bei costumi non che d’oro e perle,
stassi Amaltea, e l’accompagna un coro:
100un coro di Camene, che vederle
fui prima degno, ed ascoltarle poi,
ed or mi cal di sempre in cuor averle.
Palermo intanto agli occhi miei li suoi,
tacendo, giunse con le arcate ciglia;
105poi disse: —Oh gran ventura d’ambi noi!
Fu al ciel di sopra ordito che Siciglia
e tutto il suo contorno e le ricchezze
reggesse un cavalier di gran famiglia,
reggesse con giustizia, e le prodezze
jio alte sue ognora usasse in ben di lei,
nudrendola d’onori e di grandezze.
Di lui sia il nome in capo ai pensier miei,
oh del gran Carlo gloria, oh d’alti onori
grave latino e carco di trofei,
115oh d’Arabia terror, di turchi e mori,
nanti al cui terremoto Atlante e insieme
Zibeltarro e Marocco han freddi i cuori!
A noi tocca d’alzarsi alle supreme
grazie, per riferirle a Carlo, ch’esso
120ama Siciglia sua, non l’ange e preme. —
Cosi Palermo scorse, ed in successo
di tempo intesi quel ch’allor non puoti,
ed hollo in marmo e piú nel cuor impresso.
L’aquile, ch’eran quattro, e i fregi noti
125per la vermiglia croce in campo bianco
m’empièr di saper loro i caldi voti.
Stette Amaltea, che all’uno e l’altro fianco
le nove ninfe avea, le quai con ella
cantar si ben, che non si ben unquanco.
130Or che dell’universo rinovella
l’ordine a capo, la fuggita Astrea
ritorna piú che mai cortese e bella.
La prima giá, che biancheggiar solea
dell’innocenza con un parto nuovo,
135discende a ripurgar la gente rea.
Colui, che scosse ii mondo dal priin’ovo,
nasce mortale, e tu, Lucina casta,
Vergine Madre, dá’ favor, che il giovo
di servitú giá il tuo sol rompe e guasta.
T. Folkngo, Opere italiane - IH.
5
Apparizione di due sibille: delfica ed europea.
Dall'orizzonte destro già levata
s era nel cielo una capace barca
su quattro rote e d’un leon tirata.
Delfica è dentro a quella, ch’era carca
di ferro, piombo, stagno e più metalli,
e merce assai di mercadanti imbarca.
Vi son panni vermigli, rossi e gialli;
e quel finto leon tal fascio tira,
qual fora troppo a un paio di cavalli.
Di nuovo il pio vecchione a me s’aggira,
e parla; — Mantovano, se ben sceglio
l’animo in voi, quel più che mai s’ammira.
Ed io; — Se vetro o pur di vetro meglio
qualch’altro trasparente fossi, drento
vedete me, tuttoché stanco e veglio.
Tant’è che veder gioie ed oro e argento
e tante altezze in voi mi par di nuovo
e di fasto regai grand’argomento.
E, s’è pur ver ciò che in scritture trovo,
molser le vacche e cura ebber di gregge
i primi re che usciron dal prim’ovo.
Ma v’era pur malizia e manco legge,
che i duri monti, per fuor trarne l’oro,
mandasse in pezzi ed in minute schegge.
E, perché buoni allor gli uomini fòro,
natura, madre e non, com’or, madrigna,
die’ sempre a quelli in preda il suo tesoro.
Senza vomeri e zappe fu benigna
produr le sacre ghiande al mel uguali,
ch’or dàlle a’ porci nostra età ferigna.
Non eran putte, adúlteri e rivali ;
ciascun stava contento alla sua sorte,
né Amor di piombo avea, ma d’òr gli strali.
Spade non si vedean o lunghe o corte,
35non popol partegian, non re tiranno,
non ceppi, forche od altra simil morte:
sepolto ancor nel centro era l’inganno.
Men sbrigarsi potea d’indi avarizia
con quel vii tanto ambizioso affanno.
40Cosi vuol dir che lor pura mondizia
di coscienzia non godeva manco
aver d’un nido o pomo o fior notizia,
che d’un verde zaffiro o di quel bianco
crudel diamante, perché s’abbia darlo
45in breve a tal, cui poi si rompa il fianco.
Copia n’avean però, ma non che il tarlo
dell’ingordo desio rodesse punto;
cosi dell’oro e delle gemme parlo.
Sicché da meraviglia il cuor m’è punto,
50ch’io veggo a questo e a quello riccamente
manto di perle tante e d’òr trapunto. —
Sorrise il padre e disse: — Nel presente
tal dubbio non vi scioglio, ché giá il petto
muove della sibilla. State attente! —
55Nel primo aspetto di quel puro e netto
segno del ciel, che Vergine si appella,
dond’esce a ingegno uman prudente effetto,
con lunghe trecce d’oro una donzella
portata ad alto in un bel seggio appare,
60via piú dell’altre graziosa e bella.
Tien un fanciullo al seno, e delle rare
sue sante pure e vergini mammelle
nutre colui che dá tant’acque al mare,
d’erbe la terra ed orna il ciel di stelle,
65ove tra Palme altissimo lampeggia,
e nell’inferno batte l’ombre felle.
Palermo disse allor: — Non so mi deggia
ragionar vosco o d’este nostre perle
e del molt’òr che tanto a voi fiammeggia,
70o pur d’alcune cose, che vederle
mi pare in spirto ai versi di costei,
che a giusto sdegno non derrei tacerle.
Pur me ne passo, e so che le direi
con poco util altrui, con sconcio mio,
75che a cuor di smalto il fiato gitterei.
Dicerlo ancor fra noi, non so qual io
frutto cavarne possa, se a chi tocca
non ode per mia lingua il zel di Dio.
Vendetta cruda fia, lo strale è a cocca;
Hi» e, se giuste non tornan le bilance,
non veggo alcun ripar, ché l’arco scocca.
Ecco insensati vecchi e vecchie rance
tornano a ingiovenire (oh cosa enorme!);
imbraccian scudi e non arrestan lance.
85Amali sculture e getti; n’hanno forme.
Natura offesa ne fará vendetta
infin che al tutto ’i tolga tal che dorme.
Costui vien desto e negli arcion si assetta
acquisterá le chiavi, donde senza
90romper le porte schiuda una rocchetta,
ove, tolto che fia la pestilenza
e orgoglio di costor, fia posto in una
urna del simil suo con riverenza.
Ma troppo di soggetto al cuor s’aduna.
95Vegliamo a quel poc’anzi v’ho promesso
di dirvi quanto debbo a mia fortuna.
Ciò che vedete e vederete appresso
di questa nostra orientai ricchezza,
se orientai pur è ovver piú presso,
100tal pregio tien, tal costo e tal finezza
qual oro finto, stucchi, statue e vetro.
Non piú cercate: avete la certezza.
Ecco alla manca sponda in un ferétro,
se morta fusse, Europa vien portata
105da quattro grifi avvolta in panno tetro.
Ecco la luna incontro, che, infiammata,
vento, fuoco e tempesta le minaccia;
e tolta l’è di man l’antiqua spata.
Se l’aspettata ornai dal ciel bonaccia
no non vien, quell’empia stringerá le corna,
e cosi tutta in ventre se la caccia.
Che fa? che indugia piú? che piú soggiorna?
il destinato augel dal duro artiglio
come al suo proprio regno non ritorna?
115Lasso! che impallidire il bianco giglio
veggo alla fine lungo al fiume Rosso,
non chiaro piú, non verde, ma vermiglio.
Come la sposa, aimè, perso ha lo sposo!...
com’egli sprezza la sua donna cara!...
120per darsi a chi?... Ma dirne piú non oso.
Giá la sibilla Europa e la sua bara,
che a suo gran danno corre molto leve,
pur ecco anch’essa dir di Cristo appara.
— Verrá Colui, verrá, che passar deve
125ogni alto monte, ogni riposta valle,
quant’acque Olimpo e boschi a sé riceve.
Poscia, volendo, in uno stretto calle
di povertá con gran silenzio sceso,
torrá le umane colpe in su le spalle.
130Sol questo Re, da nulla macchia offeso,
senza consorzio uman piglierá carne
in ventre verginal, sol puro e acceso
di fuoco santo, per salute darne. —
CANTO XVI
Apparizione del limbo e di molti santi padri.
Giunti alla fin per dar principio all’atto,,
ch’era giá il quarto, il volto di quel loco
tutto cangiarsi poi vidi ad un tratto.
Come di notte un lume di gran fuoco
5aggiorna intorno, e poi, consunto quello,
le brage illustrali si, ma molto poco;
ovver come di Cinzia il viso bello
abbella il mondo, e tutto dopo imbruna,
ché scolorar subita nebbia fèllo;
io simile luce, ovver poco men bruna,
porse il teatro al trar su molte tele
tutte ad un cenno, e non ad una ad una.
Tra gli occhi nostri e’ rai delle candele
quelle da basso in alto se ne giro
15piú ratte assai di quel che fan le vele.
Veggo molt’ombre dentro a loro in giro
passar d’umane forme lunghe e macre,
ed odo frequentar piú d’un sospiro.
Poi parolette accorte, dolci ed acre
20s’udivan mormorar tra lor, ma oscure,
coni’esse han fatto le Scritture sacre.
Depinti eran quei lini di rotture,
di pietre, alpe dirotte e nude ròcche,
antri, caverne, avelli e sepolture.
25Stan gli uomini e le donne come tócche
di compunto timor devoto e pio:
le orecchie intente, e chiuse avean le bocche.
— Qui s’appresenta il chiostro, nel qual Dio,
serrato avendo il del, queU’aline asconde,
30che I’han temuto e non posto in oblio. —
Cosi mi disse il vecchio, e fuor le sponde
del nato allora limbo gravi e tarde
una poi l’altra uscian persone bionde:
pallide e bionde; ma lampeggia ed arde
35d’amorosi desii la vista loro;
né alcuna v’ha, che al ciel non sempre guarde.
Cingon lor cave tempie chi d’alloro,
chi d’edera vivace o palma e oliva,
e chi sopra il bel verde di fin oro.
40L’uomo, che innanzi a tutti ne veniva,
ha la sua moglie a mano, un figlio a fianco,
e il pomo tien, che noi del cielo priva.
Va presso a lor Noè, canuto e bianco,
con l’arca in mano, di animai conserva,
45un figlio al lato destro, l’altro al manco.
Segue il buon vecchio Abramo, e ognun l’osserva;
nudo ha il coltello, e duo figliuoli appresso,
un della moglie, un altro della serva.
Quel della moglie porta da se stesso
50il fascio delle legna, ove giá fue
dal padre ad esser vittima su messo.
Iacob è loro a spalle con le due
madri d’un popol grande, ed ha la scala
in cui gli aperse Dio le gioie sue.
55Ioseppe il bello ha seco, che la mala
invidia de’ suoi frati giá vendette;
ma Dio francollo e tennelsi sott’ala.
Vien dopo Mòse con le tavolette
de’ dieci incarchi a noi da Dio rescritti :
60felice chi a portarli si sommette!
Aron e Samuèl, con gli occhi dritti
al ciel, insieme vanno, e poi quel forte
ch’ebbe li filistei piú volte afflitti.
11primo in vista par che si conforte
65d’una sua verde verga, eh’è fiorita,
e giá fu secca ed ebbe foglie morte.
L’altro, che nacque d’Anna molto ardita,
olio nel corno porta; l’altro in braccio
porte di ferro, ed ha virtú infinita.
70Ecco il gran re che, all’amoroso laccio
di Bersabea giá còlto, fe’ il gran fallo;
ha l’arco in mano e la sua lira al braccio.
Iva sonando; e intorno fanno un ballo
nudi fanciulli in culle e fasce spenti,
75qual vetro trasparendo, anzi cristallo.
Vien Gedeon col vello; e a passi lenti
l’asina punge Balaamo, e drieio
regi e profeti ed infinite genti.
Duo precedean queU’onorato ceto:
80l’uno ha la serra, l’altro le catene;
l’un grave in vista, l’altro poco lieto:
Esdra il suo libro nelle dita tiene,
ed il suo par s’inghiotta Ezechielle;
poi Baldassar con l’astrolabio viene.
85Mostra impiagata aver Iobbe la pelle,
il qual è re, non piú de’ regni sui,
ma di quant’alme in tolerar fúr belle.
Veggo con un canestro in man colui,
che, pei capei portato in aria, tolse
90per Daniel il cibo, e gli altri dui.
Tutti alla fine intorno a sé raccolse
David con dolce suono delle corde,
s’un ceppo assiso, e ognun poi dove vòlse.
Drizzali le orecchie a lui, di udire ingorde,
95il qual con modi acconci e affetto interno
cosi mandò la voce al suon concorde:
— Signor di noi, Signor, che reggi eterno,
quanto rimbomba il tuo mirabil nome
nel ciel, giú per la terra e nell’inferno!
100Ecco, fin a’ fanciulli e infanti come
san dir tue lodi e, nel cantarti «osanna»,
d’olive e palme s’ornano le chiome!
L’incredul popol tuo qui si condanna,
ché agli animai sei noto ed agl’infanti:
105al popol no, cui giá piovesti manna.
Quando ripenso a tanti lumi e tanti,
che con tue man distinti ad un sol cielo
formasti e sopra loro i seggi santi,
io grido con stupore: Oh divin zelo
110ver’l’uomo nostro, e grazia senza paro!
e ch’è se non qual fior su molle stelo?
E ch’è quest’uom nasciuto in stato amaro,
vaso di vermi, oggetto di dolore?
Pur non lo scordi e l’hai non poco caro!
115Signor, tu Carni si. che, a te minore
non molto, alfin terrai lo al destro lato,
coronato di gloria e d’alto onore.
Ei sopra Copre tue fia sollevato,
cui sotto giaceran la terra, il mare,
120gli animai tutti e quanto hai tu creato.
Di che giammai non cesso di chiamare:
o Padre, o Re dell’universo mondo,
quant’è il tuo nome in tutto singolare!
Quant’è il tuo nome a’ giusti e pii giocondo,
125a’pravi duro, amaro e d’orror pieno,
che in ciel risuona, in terra e nel profondo! —
Cosi di Spirto santo il colmo seno,
fra tanti eletti e nobili uditori,
tenendo gli occhi sempre al bel sereno,
1.50 mandò cantando il suo concetto Fuori.
CANTO XVII
Varie figure e profezie di sette padri santi:
Adam, Èva, Abel, Noè, Abraam, Isaac e lacob.
L’anime elette, clCanco il ciel non degna
fin al decreto de’ suoi vóti scanni,
facean ghirlanda intorno alla piú degna.
E chi mai sparse al gran mistero i vanni
5del profetar quanto il figliuol di lesse
fra quei che il limbo avea fino a Giovanni?
Ad Abraam e a lui fur le promesse
che il seme lor dada quel Frutto vivo,
ché a universal salute Dio l’elesse,
io Però disse di lui, poi ch’ebbe a schivo
Saul l’ingrato, ch’uomo avea secondo
suo cuor trovato di malizia privo.
Ben l’hai tu ricercato fin al fondo,
o del mio ceppo onor, gentil Folengo,
15che in scrivere a null’altro vai secondo.
Il ver ciò mi fa dir, non ti losengo,
che sopra i salmi a noi quant’hai produtto
tenuto è l’eccellente, ed io si il tengo.
Or, seguitando, io replico che tutto
20delle sant’ombre l’onorato coro
s’era sedendo intorno al re condutto.
E, poi che con silenzio stati fóro
poco di tempo, tuttavia sonando,
levossi Adamo in piè dal concistoro.
25Sciolta cagione dell’eterno bando,
levossi Adamo e, con voce impedita
di piú singhiozzi, disse lacrimando:
— O somma Sapienza, tu, che, uscita
di bocca dell’Altissimo, contieni
30gli estremi fini, eterna ed infinita:
tu, che disponi e fai, poscia mantieni
quel c’ hai disposto, fatto, tolto e dato,
or dolce, non ancor terribil vieni!
Vieni, salute mia, ch’io troppo ingrato,
35ch’io troppo sconoscente e fragil uomo
mi riconosco, e piango il mio peccato! —
Detto ciò ch’ebbe, lancia in aria il pomo
il qual s’aperse e tant’odor n’uscio,
ch’ai balsamo fe’ scorno e cinnamomo.
40La gentil Èva allor con voce, oh Dio,
quanto alla cetra gaiamente aggiunta!
cosi dolce cantò, ch’io ne morio:
— Ecco, fiera infernale, a che sei giunta
per bene alla gran colpa indotta avermi,
45ove il concetto odor per lei giá spunta!
L’arbor del ben e mal fin qua gl’infermi
e fracidi suoi frutti al secol rese,
ch’ebber fuor bella scorza e dentro vermi.
Il mal fini il suo corso, e mi riprese
50finor giustizia, ed odiosa fui
come colei che cielo e terra offese.
Or della pianta il ben gli effetti sui
resta mostrarci, e in questo amor mi loda,
ché semplicetta udii gl’inganni tui.
55Perché, dalla tua mal pensata froda
uscendo il fin del tuo mal tolto regno,
tal t’apre il capo e troncati la coda.
Col legno hai vinto: vincati col legno!
Cosi di tua malizia in tua ruina
60Dio tragga un atto sopra ogni altro degno!
Compito ch’ebbe, ancor s’asside china,
e Abel, suo figlio, s’alza ed ha quell’agno,
che tolse a sé nel ciel la man divina.
— S’io — disse — porto forma di quel magno
65aspettato Signor, felice terra,
che del mio sangue assorse il puro bagno!
Vieni tu dunque, o ver Abel, e sferra
noi d’esti antiqui lacci e d’esta tomba,
che me qui primo dal prim’ovo serra! —
70Cosi cantando, vola una colomba
ver’ l’arca che Noè tiene in la testa,
veloce si, ch’uscita par di fromba.
D’oliva poi col ramuscel s’arresta, .
onde il buon vecchio, dal diluvio sciolto,
75su dritto s’erge, e la sua voce desta:
— Torna la pace e mostraci il bel volto
nell’arca, degli eletti servatrice.
Qui meco è chiusa, ove mi sto sepolto.
Ver è che appressa il secolo felice,
80che il vecchio tronco all’arbore si schianta
e nuove fronde adduce alma radice:
alma radice della verga santa,
donde il buon frutto senza culto umano
si coglie e onora la divina pianta.
85Se pur non sei d’un popol di Giordano
posta per segno e per figura certa
dell’esser tuo dal nostro assai lontano,
anzi ch’all’universo fia scoperta
la tua molt’anni occulta veritade,
90vien, priego, vieni, e non tardar, eh’è aperta.
Né sia questa prigion per tua bontade;
anzi cosi hai decreto, acciocché l’arca
solchi altro mar, altr’onde ed altre strade. —
Levossi, dopo questo, il patriarca
95fedel Abramo, e cosi disse in una
voce giá roca e di molt’anni carca:
— O reai Chiave, e non mai di fortuna,
ché, di fral vetro, al volgerla si spezza,
ma chiave al chiuso eie! sol opportuna;
100o di prudenza Chiave e di fortezza.
ch’or apri e serri, come aprir, serrare
sei, da che nacque il mondo, in cielo avvezza;
vien’ schiuder la prigione a’ tuoi, che un mare
di pianto fanno all’aspettarti tanto;
105vien’, dico, vieni, e non voler tardare! —
Queste parole disse il vecchio santo;
ed a lui dopo il nobil figlio ancora
porse allo plettro il suo ben detto canto;
— O Fiamma d’Oriente, o pura Aurora,
110che della notte interna scuoti l’ombra,
dove ogni fosca mente s’incolora;
o quel Sol di giustizia, il qual disgombra
gli erranti sensi, forsennati e vaghi
per la selva mortai di lume sgombra;
115ecco che il mar, le fonti, i fiumi e’ laghi,
l’erbe, le piante, i sassi, ogni animale
gridano: —Vieni ornai;— e, se t’appaghi,
e se darci la luce pur ti cale,
vieni a dar noi quegli aspettati rai,
120che nebbia od ombra mai celar non vale! —
Drizzasi, dopo questo, il non giammai
stanco Giacob in bel nudrir la prole,
che infiniti campò d’Egitto i guai.
Sorgono seco le due mogli sole;
125e con fregiata stola il bel figliuolo:
eantáro a quattro voci tai parole:
— O Re, non oltre re d’un popol solo,
ma Re di quanto il cielo e il mar circonda,
di quanto allunga l’uno all’altro polo,
130per la luce del del, del mar per l’onda,
per le tre spezie d’anime create,
preghiamo il volto tuo non piú s’asconda!
Vien’, freno d’ira e sprono di pietate;
vien’ oggimai con quella tua promessa
35 grazia, dond’alme tante fian servate!
Per lei l’umana voglia, chiusa e oppressa
nel mortai sonno e nell’oblio di Lete,
scotasi presto e frenisi se stessa!
Poscia per lei succedan sante e liete
140opre sotto il stendardo della fede
finché dal laccio, visco, nodo e rete
sciolto l’arbitrio urnan si torni in piede! —
CANTO XVIII
Discorso della grazia e libero arbitrio, della fede e delle opere,
dell’eresie e mala vita de’ pastori.
La fin del grave canto, che qui sopre
col bel Ioseppe il padre suo conchiude,
dove nomossi «arbitrio, grazia ed opre»,
non ben allor compresi, essendo rude
5nel mistier sacro e negli arcani sensi,
ond’ha bisogno ch’altri in spirto sude.
Ma, poi che in me da Dio fur entro accensi
per bocca di Palermo gli agghiacciati
pensieri miei, so dir quanto conviensi.
io So dirlo e me’ pensar; poiché voltati
ho piu volumi e trattone conserve
d’alte sentenze e detti non enfiati.
So che ad ognor la grazia bolle e ferve
in sciolto arbitrio, ina, gelato il quale,
15mancando lei, va cattivato e serve.
So che lo spirto al ben, la carne al male
tránno il consenso, e gara tra lor nasce,
gara senza vantaggio e in armi eguale.
So non volere il Re del ciel si lasce
20uomo tentare alle sue forze sovre,
ché studio n’ha fin dalle prime fasce.
So che al perdente, acciò se ne ricovre,
la via dimostra, i modi e l’arte come
spiri all’onor di cosi nobil’ovre.
25So che per me, pur sotto il forte nome
del nostro invitto capitano Cristo,
domar le voglie posso e impor le some.
So che per me, se grazia è in me, resisto
agli avversari affetti, e, s’opro bene,
30lei sola riconosco e il cielo acquisto.
IV - LA PALKKMITANA
So per li merti altrui non si conviene
fuor che di Cristo riputarsi eletto,
ché ogni altro merto in sé nequizia tiene.
So ch’uomo non fu mai senza difetto,
per giusto che si fosse, né salvossi
se non per Cristo, sol di colpa netto.
So che sentenza in Dio non mai cangiossi
di serbar tutti, ed ab aelerno elesse
quai degni fian ch’ai ciel gli abbia promossi.
So che gli umani dal prim’ovo impresse
di ragion fra due vie, che in tutto l’una
fuggir qual peste, l’altra entrar dovesse.
So questo, e sollo non per arte alcuna,
perché si debbia disputarne e, meno,
lá dirne ove la turba si raguna;
sollo per sola fede, e i sensi affreno
al saper alto, e l’intelletto abbasso,
e vo serpendo in piccol orto ameno.
Vo, dico, alcun fioretti passo passo
meco tessendo in umil ghirlandetta,
e i gran giardini e i chiostri ad altri lasso.
Piú cerco ed aggio a grado una valletta
col suo poggetto accosto e un rio che bagno
novelle piante, fiori e molli erbette.
Che salir monti e traversar campagne?
ch’entrar d’antique selve i labirinti,
ov’io mi perda e indarno alfin mi lagne?
Oh, come oggi son pronti e van succinti
nostri dottori alle salite alpestre,
tutto che sian dal borea risospinti!
Come cercan per porte e per finestre
al ciel ir entro, e a forza il quia trarne
delle cagion sinistre e delle destre!
Come fingon saperle, anzi parlarne,
e saper diffinirle portan vanto,
benché lo spirto in lor serve alla carne!
Or di costor ia pratica cotanto
passa per cribri e s’assottiglia in polve,
che ognun dir sa chi è reprobo, chi santo.
70Volgo di piazze e traffichi s’involve
oggi, Dio buono! in dispute di fede,
di inerti, arbitrio, grazia, e sen risolve.
Tal densi salvo, se senz’opre crede,
giá persuaso che di croce il pegno
75per tal credenza il fa del del erede.
Tal dice: — O sono eletto, o no, dal regno
di gloria innanzi al mondo, a che affannarsi
dell’uomo, e in opre e merti far disegno? —
Tal porta in seno un libro, dove sparsi
80son di Scritture detti al vuoto estorti,
che solo a Dio dé’ l’uomo confessarsi.
Tal creder vuole, e par se ne conforti,
per non scioglier le borse al sacerdote,
che nulla i prieghi son fatti pei morti.
85Cosi la cara Sposa, ch’ebbe in dote
il tesor delle piaghe del suo Sposo,
si rompe i crini e battesi le gote.
Ved’ella il re d’abisso, giá non oso
piú a luce uscir da poi che fu conquiso,
90tornar piú che mai forte ed orgoglioso.
Di che solleva il lacrimoso viso,
chiamando il di e la notte il giusto Padre,
che lei col braccio estento attende fiso.
Attende il gran lamento della madre
95di tanti figli, cui sta il cielo aperto,
e pur vanno all’inferno in lunghe squadre.
Perch’egli, essendo pio, poic’ha sofferto
chiamar tutti e chiamar, e pochi vanno,
forz’è che giusto renda il pregio al merto.
100Ma duri guai le scorte lor avranno,
ché, mentre all’ozio sono ed alle piume
piú ch’ai governo intenti, peggio fanno.
Oh misero pastor quel che s’assume
tal nome, sendo in atti mercenaro,
105che, visto il lupo, ha di scampar costume!
Oh perfido pastor, che, del danaro
fattosi giá vii servo e adoratore,
non mette al fiacco armento alcun riparo!
Oh perverso pastor quel che, dottore,
110falso erudito, al fallo non si oppone,
ma in giuochi vanne e cacce tutte l’ore!
Oh mal nato pastor, via via depone
(perduto sei) le pastorali insegne,
tu, che prave fai l’alme, ch’eran buone!
115La vita tua, l’esempio rio, le indegne
opre, di luce immedicabil peste
e fuoco sono altrui, né mai si spegne.
A tal versaglio par che ognun si deste,
prono mai sempre al mal, né astiensi farlo,
120se l’argomento il mal pastor gli preste.
Oh coscienze morte e senza tarlo
di pentimento alcun od impetrate,
oh ciechi! oh sordi! a quanti mostro e parlo!
Oh sensi duri e reprobi! oh! enfiate
125di livor alme, di superbia e fasto!
quante n’avete e voi con lor dannate,
dannate al fuoco eterno! E cosi guasto,
e cosi giace rotto il caro gregge,
che Cristo, per comprarlo, ebbe contrasto
130con Morte, Ira, Peccato, Inferno e Legge!
CANTO XIX
Discorso quanto sia grato il variar d’un poeta,
«d in die cosa Iosep e Mòise furono figura di Cristo
Siccome in un bel culto o fertil orto
non l’util pur, ma forse vi s’apprezza
quel piú che agli occhi nostri dia conforto;
e questo è varietá, quest’ è vaghezza
5d’erbette, piante, fiori e scelti frutti,
ch’altra non trovo a variar bellezza;
poi senti e vedi andar pieni acquedutti
di chiar cristallo, quinci e quindi vaghi,
né d’acque mai sotto gli ardori asciutti;
io qui né pennelli vagliono né gli aghi,
sian pur d’Apelle sian d’Aragne, addurre
color si vivi, si diversi e vaghi,
come le dotte man callose e dure
del vecchiarei Coriccio con lor zappe
15vincon ricami e nobili pitture,
san sveller cardi, ortiche, vepri e lappe,
ed ei fa d’erbe e fiori un bel trapunto,
né macchia v’è, che non la ronchi e zappe:
non men chi, dal desio spronato e punto,
20per cui d’onor s’acquista o scorno o fama,
piglia di poetar lo sacro assunto,
non giovar solo ed esser util ama
a questo, a quel, ma tutti a gran diletto
con dolce variar invita e chiama.
25Scienza ed arte son comune oggetto;
giudizio è raro: quelle s’hanno in terra,
questo dal ciel, per sola grazia eletto.
Però si vede ben, se il mio non erra,
per poco ch’aggia, in tanti autori e tanti
30raro esser quel che in sen Febo si serra.
35
40
45
50
55
60
65
Egli, che asside a quei liquori santi,
d’indi sovente trailo e lo vi torna,
sazio non mai di variati canti.
Molte le stelle sono, e non aggiorna
se non sol una come ancor la notte;
se non sol una illustraci le corna.
Molti che scrivon son, che in gli antri e grotte
fur di Parnaso e bevver; ma gli eletti
e rari a noi del volgo dan le botte.
Però quei soli vanno ad esser letti ;
e noi come abortivi stiamo ascosi,
ché l’eccellenzia lor ci rende abbietti.
Quanti d’amor han scritto, e sono esplosi,
ché il pover lor giudizio non attese
a’ rai di quel del lauro luminosi.
Quanti di guerre, che il gran ferrarese,
fuor che il suo mastro ed altri duo. vilmente
a far coperchi agli orcioletti rese.
Ma, s’alcun forse, avendo stil decente
d’ornarne un bel soggetto inusitato,
come si sempre adescasi la gente,
del ver s’appone a celebrar lo stato,
cacciando i sogni lunge e le chimere,
con che hanno i nostri lui sempre adombrato
(ché i vani giudicáro senza mere
favole loro il porre Cristo in carte
non esser grato e men poter piacere);
se tale avrá giudizio presso all’arte,
onde proceda il variar a tempo,
questo fía letto a pieno e non in parte.
E, se per esser nuovo, ed in quel tempo,
che in Tossa vive, ancora dispiacesse,
non gli ne incresca: piacerá col tempo.
Cosi pretendo io far. Ma troppo eccesse
questa digressioni troppe son Torme,
che fuor di strada il mio cavallo impresse.
Il bel Ioseppo, di virtú conforme,
col suo canuto padre stando in piede,
sciolse cosi la voce all’alme forme:
70— Se Dio ne’ miei primi anni onor mi diede
di poter scioglier d’un ver sogno i nodi,
crescendo la Dio grazia e oprando fede;
se in ciò i miei frati allor gli acuti chiodi
preser d’invidia, sdegno ed odio in l’alme,
75e vinser d’impietá, di rabbia i modi;
se fui venduto e tratto in su le salme
di genti strane, e il padre come ucciso
mi pianse e al viso impresse ambe le palme;
se. rivenduto a un lordo incirconciso.
So mi svelsi dalle man dell’impudica
sua donna, troppo intenta al mio bel viso;
se amor, cangiato in odio, lei nemica
mi fece amara si, che in me converse
atto si vile ad anima pudica;
85se il crudel mio signor legommi e immerse
sotterra in grembo a morte, ove poi schiusi
un sogno a tal, che la prigion mi aperse;
se i pensier, che, dormendo, si confusi
ebbe re Faraon, sol io schiarilli,
90e gl’indovini suoi ne fúr delusi;
se, di si torbi ornai fatti tranquilli
que’ giorni miei, fui sollevato in cima
d’Egitto e suoi gran seggi e suoi vessilli;
se, fatto antiveduto, fuor di stima
95tolsimi appresso il padre, avendo ai frati,
ai frati miei dato perdono in prima;
se gl’infiniti poi giudei, giá nati
dapoi la morte mia, fúr posti al giovo
di servitú malconci e maltrattati ;
100a Dio ne rendo grazie, ch’io mi trovo
esser posto in figura e forse un specchio
dell’istante mister tant’alto e nuovo.
La fin di Legge e Testamento vecchio
attesa viene e oMai scuote le porte
col suo delle virtù bell’apparecchio.
Sarà chi Lui già puro infante porte,
com’io vi fui portato, dentro Egitto;
sarà chi il venda, e pur ebb’io tal sorte! —
Cosi quel fior di pudicizia, scritto
in carte e pinto in muro, a pochi in core,
spose la parte sua. Cui dopo, ritto
subito alzossi Mòse, e grand’onore
da tutti al grave suo drizzarsi acquista,
e più nel dar questo bel suono fuore:
— Ed io — disse — di giunco in una cista
nuotai, téner bambino, e lungo il fiume
Maria col piè seguimmi e con la vista.
Trattone poi per divin cenno e lume,
mi tolser entro Egitto, dove, adulto,
non men figura fui del santo Nume.
Poi vidi nel deserto quel virgulto,
che per incendio non si cosse unquanco:
forma d’un parto fuor d’umano culto.
Il popol d’Israello aperse il fianco,
ciascun al suo d’un anno e puro agnello:
forma di Quel ch’io chiamo roco e stanco.
Fur tratte poi dell’aspro lor flagello
da me le elette ed infinite squadre:
forma di Chi del centro e mondo fello
vien sciôr nostr’alme e seco addurlo al Padre!
CANTO XX
Figura della verga d’Aron e della pietra di Samuel.
Il salmo xxxxuil recitato per David.
— Quel d’Israèl conforto, mastro e guida,
che in quell’ardente rubo e non consunto
parlò con Mòse, in cui sua legge annida.
e che d’Egitto il popol trasse al punto
per darlo a lui, poi far quell’ardue imprese,
che ormai figura il gran mister raggiunto.
verrá tosto, verrá, le antiche offese
obliando, a sprigionarci dall’Egitto
di questo inferno e trarne al suo paese! —
Questi bei detti il mio d’amor trafitto
caro Palermo in voce bassa diede
a quei che via piú in mente l’han che in scritto.
Tosto che Mòse ond’era surto siede
col suo canuto aspetto altèro e grave.
Aron il frate leva il corpo in piede.
Il bacol suo ver’noi tien alto, c’have
egli di foglie e frutti carco in mano,
e in queste rime a noi cantò soave:
— Se un’asticciuola secca fuor d’umano
e naturai commercio inverde e infiora
e in poco tempo fuor n’appare il grano,
altro chi può pensarlo e dirlo fuora,
che sotto un cosi raro e nobil mostro
alto soggetto e gran mister dimora?
Però, popol di Dio, che in questo chiostro
ascolti dello spirto il don futuro
sotto il velo e tenor del canto nostro,
e che intendi giammai che cosa è muro
col suo antemural di sensi pregno,
e ciò che per figura a’ duri è duro.
anco di questo nobil ramo al segno
porgi l’orecchia e alla medolla il core,
se con buon’opre sei di grazia degno.
Come quest’alma verga, senza umore,
35senza scorza e radice giá piú mesi,
verde trovai fra I’altre, e il frutto e il fiore;
cosi il Fattor del lutto, pria che accesi
fosser del ciel creato i primi lumi,
non che del mondo i cardini e paesi,
40si elesse in mente fuor di spini e dumi
un’altra verga verginella e santa,
che, accesa d’alto, l’universo allumi.
Questa si è l’alta Donna, in cui s’ammanta
d’umana carne il divin Lume eterno,
45come qui l’almo e ardente spirto canta.
Èva seconda vien, che dell’interno
suo ventre verginal fuor manda il Forte,
che schiacci il capo al mostro dell’inferno.
Cosi fur d’Aròn le parole accorte.
50Poi Samuel della sua pietra disse
e di duo re la tramutata sorte:
la pietra, dico, dell’aiuto fisse
tra legge e grazia in bel concerto, e Luna
privò del regno, e all’altra quello affisse.
55David, intanto, che i gran sensi aduna
del vecchiarei, che per figura l’unse
del sempiterno Re, non per fortuna,
levossi dritto, e poi se ne compunse;
ma in terra le ginocchia e in cielo il viso,
óo e queste note all’aurea cetra aggiunse:
— Or che al pianto giammai succede il riso
partorisci, cor mio, quant’hai concetto
del Re, c’ha un gran tiranno in me conquiso
E tu, mia lingua, mentre all’alto obbietto
65poggiar t’accingi, or via non men veloce
d’un pronto scriba muovi il tuo stiletto!
Piú molto assai degli uomini c’han voce
e vanto di bellezza, o Re, sei bello
per la tua sparsa grazia che mi cuoce.
70Diffusa, oh quanto! è grazia e laude in quello
tuo dir soave, donde amor trabocca,
non ch’esca solo, e Dio si dolce fèllo!
Cingiti, o Cavalier, ché a te pur tocca,
il brando di giustizia, e cosi armato
75discendi a noi di tua celeste ròcca!
Tu, delle tue virtú corroborato,
combatti e vinci, o Re, trionfa e regna,
ché per la man tua destra avrai lo stato!
L’arco tuo sodo e la faretra, pregna
So delle saette acute, i cuori affiga
di quanti van sotto l’avversa insegna!
Ogni armato elefante, ogni quadriga,
ogni popol superbo sottogiaccia
al seggio tuo, che i reprobi castiga;
85al seggio tuo regai che muove e abbraccia
eternamente il tutto; al seggio, il quale
i giusti a sé riceve, i pravi caccia:
al seggio proprio tuo, tuo naturale,
eh’è amar giustizia e in odio aver gli oltraggi,
90remunerar il ben, punire il male!
Però fra’ tuoi consorti onesti e saggi
te, Dio Figliuol, Dio Padre con l’unguento
dell’alta gloria t’unse in mille gaggi.
Di mirra ed altri odori l’opulento
95tuo regai manto a noi soave spira,
quand’esci il tuo d’avorio alloggiamento;
ove la tua Regina, d’una mira
beltade adorna e ricamati panni,
stando alla destra tua, per te sospira.
100Mentre vi amate in gaudio e senz’affanni,
le regai figlie onor vi fanno intorno,
or dritte or basse negli aurati scanni.
Odi tu dunque, o Figlia, c’hai soggiorno
sempre alla destra dell’amato Sposo,
105ch’averlo puoi la notte, averlo il giorno:
ripensa e ascolta bene, e fa’ ritroso
ogni pensier dal tuo paterno tetto,
ch’altr’hai dal Re piacer, altro riposo.
Egli ama il tuo venusto e grave aspetto;
io egli è sol tuo Signor, egli è tuo Dio,
che adorerai con caro e dolce affetto.
Le figlie, ecco, di Tiro a te con pio
priego vengon vedere il tuo bel volto,
acciò che il Re non abbiale in oblio.
115Piú d’un popol remoto giá raccolto
vien via con ricchi doni a’ piedi suoi,
fatto sincero e d’ombre in tutto sciolto.
La tua beltá, Regina, e i fregi tuoi,
piú che di fuor, hai dentro, e con gli esterni
120gl’interni ornati ottenebrar non puoi.
Oh te beata, quando ti discerni
fra le cognate vergini salire
si ornata in gli occhi al Re de’beni eterni!
Chi l’allegrezza mai potria ben dire,
125quando introdotte all’ampia corte siete
tra l’uman voci e le celesti lire?
Di questi alberghi santi e stanze liete
figliuoli avrai, Regina, in ricompenso
de’ tuoi lasciati padri e stanze viete:
130figliuoli avrai, che sol d’un Padre immenso
uasciuti re, degli universi regni
corranno i lor tributi e regai censo.
Oh, dunque, i versi miei sian, prego, degni
dir lode a quelle vostre altezze eterne;
135che, udendoli per me, gli umani ingegni
le lodin meco, e possan meco averne! —
CANTO XXI
Discorso della toleranzia di Iob. Figura del forte Sansone.
Profezie di Balaam. Gedeone, Daniele ed Ezecchiele.
Il gentil re profeta e citaredo
conchiuso avendo il dolce epitalamo,
s’arrizza un altro re, di piaghe fedo.
Di piaghe e vermi cinge un stran ricamo;
5ma non può far però che non dimostre
nel viso morto un animo non gramo.
Questo si è il fren delle superbie nostre,
specchio di tolleranza e forze rade,
ove tra l’uomo e sorte s’urti e giostre,
io Questo, giá sorto in gran felicitade
d’oro, d’armenti, campi e onesta prole,
ecco dal ciel percosso a un soffio cade.
Vienegli addosso repentina mole
di casi non mai suti, non che rari,
15che duri piú giammai non vide il sole.
Qua i buoi con lor bifolchi e pecorari
e armenti perde; lá furor di venti
gli atterra e uccide tetti e figli cari.
Né ciò fu pien flagello a quei tormenti,
20che nell’inferno dargli apparecchiáro,
da Dio “permessi, le cornute genti.
Ma doglie a un tratto e morbi l’assaltáro.
crudeli si, che dalla fronte ai piedi
tutte le membra in serpi si voltáro.
25Né furon anco tai pungenti spiedi
bastanti al fier desio di Satanaso,
anzi di quanti son delPombre eredi;
se, per indurlo al desperato caso
di darsi a loro, non gli avesser pòrto
il pien di tosco irreparabil vaso:
30
dico la donna, eh’è l’estremo porto
di quei maligni, quando avvien ch’uom pio
non mai dal giusto parte al cani min torto.
La sua nuova Xantippe, che in oblio
35ragion avea, se mai pur n’ebbe messo,
stigava lui che maldicesse Dio.
Egli, che di quant’era piaghe oppresso
tante grazie rendea, benedicendo
a Quel che in lui tal scempio avea permesso,
40stava pur saldo all’onde, rivolgendo
il forte suo timon di tolleranza,
sempre di donna al soffio resistendo.
Ficco s’egli da Dio fu detto sanza
pareggio mertamente esser in terra,
45di vita onesta si, ch’ogni altro avanza!
Però chi segue un duce tal non erra
e pende agli occhi nostri un tanto esempio,
mentre col mondo abbiam continua guerra.
Cosi con ferro, peste, foco ed empio
50furor umano ed infernale insieme
fe’ Dio, non le man nostre, il sacro tempio.
Or ascoltiamo le sue dolci e sceme,
parole, alquanto di vigor malsano;
l’alma gioisce a dirle, il corpo geme:
55— Io spero, e il mio sperar non mai fia vano,
che Chi promette stassi alla promessa,
e quel ch’io spero toccherò con mano.
Spero che fia dal ciel salute messa
e che ora in carne il Redentor mio viva:
óo e questa speme in me sperar non cessa.
Spero che Chi con Palme i corpi avviva
verrammi a trar di questo miser stato,
e qui vedrollo in spirto e carne viva.
— Ed io — parlò Sansón, giá in piè levato
65con le gran porte in braccio — non men spero
vederlo forte in nostro aiuto armato.
Il qual, com’io giá uccisi un leon fiero,
e di si amara bestia uscii quel mele,
donde il mio padre ed altri si pascerò;
70cosi il peccato, forte, pien di fele,
piú forte atterri, ed alla gente presa
il dolce di sua grazia si rivele.
Tutti ne gusteranno, essendo offesa
da tutti l’alta Maestá divina,
75e cosi a tutti libertá fia resa. —
Poi Balaam, che all’asina s’inchina,
vecchiarei stanco ed iracondo in vista,
di gran valor soggetto c’indovina:
— Candida Stella, ond’ogni ben s’acquista,
So di Giacòb nasce con si nuova luce,
che fia dagli orbi ed adorata e vista.
E d’Israèl tal verga si produce
e di tal nerbo, che de’ moabiti
romperá i prenci ed ogni lor gran duce.
85Saran di Set i figli ad uno attriti ;
possederá le palme alfin d’Idume,
ed i trionfi suoi fíano infiniti. —
Cosi quell’indovin, c’ha per costume
giurar per Acheronte, alfin dignollo
90predicer Cristo l’inscrutabil Nume.
Lasciamo lui, che s’è nel ciel non sollo:
e se vi è Salomon, perché non meglio
questo di quel Dio tenne ed onorollo?
Mostraci poi quel vigoroso veglio
95Gedeón dritto il vello del montone,
donde di Cristo finse un chiaro speglio;
il qual verrá per tòrci di prigione
con tal silenzio, qual contien la pioggia
che su lanosa greggia si ripone.
100Poi, fatto un bel discorso, a un tronco appoggia
le man’ inserte, alzando il dolce affetto
col capo al cielo, e chiama in questa foggia;
— O Dio con noi, eh’Emmanuel sei detto,
Re nostro e della Legge alto datore,
105per vero Dio da gente strana eletto;
Tu solo sei delle cagioni autore;
Tu tutto muovi, e tutto immobil stai;
Tu egual non senti che te stesso in fuore!
Vien’, d’amor vinto, vien’ dagli alti rai,
110vien’ dal ciel chiaro in questa fosca valle
di pianti, di miserie, affanni e guai! —
Detto ciò ch’ebbe, Daniel a spalle
di quello alzossi, e del suo centro interno
snoda parole e piú intricate falle.
115— Al tempo — disse — ordito al ben superno
da sette volte diece settimane,
presso le quali viene il Figlio eterno,
nel cieco abisso del tartareo cane
con le catene del peccato l’uomo
120non se ne scuote dalla sera a mane.
Venga Egli adunque ad addolcire il pomo,
e che il ramo del mal sol rompa e schianti,
che tosco non piú dia, ma cinnamomo!
Tu, Ezechiel, che i cittadini pianti
125nostri hai tant’anni, ora col tempo ancora
cangia l’usanza e il duolo in lieti canti! —
Risiede questo e quel degli altri fuora;
si mostra in piedi stando, e queste corte
rime ci dá la voce sua canora:
130— Nel sacro tempio di molt’altre porte
una vid’io, che sempre sta rinchiusa,
per cui non va chi sia soggetto a morte.
Era da basso in alto sparsa e infusa
di fin topazi, agate e rubini;
135veder qual entro sia non puoi, eh’è chiusa.
Per qua porterá i passi suoi divini
l’alto Valor, senza ch’aperta sia,
come splendor per vetri e bianchi lini.
— Oh bel! — gridò Palermo. — E chi desia
meglio sentir? Né son però giudei
140quanti dett’hanno in questa compagnia.
Ma voi, che pellegrin piú non vorrei
dirvi oggimai, donate il nome vostro,
perché piú mio vi vo’ di questi miei! —
Allora il volto incolorato d’ostro
145chinai, dicendo: — Il nome mio va lunge
e dalle bocche molto e dall’ inchiostro.
Teofilo mi chiamo, e ciò mi punge,
che un nome, tant’amor di Dio sonando,
troppo dal Tesser mio lontana e sgiunge.
150Ma quanto posso vi ringrazio, quando
per un de’ vostri minimi sia degno,
che, ancor servendo sotto un tal comando,
forse d’un nome tal fia manco indegno. —
IV - i.A PALERMITANA
CANTO XXII
Discorso delli tiranni alla veritá molesti e crudeli.
Profezie di Esaia, Geremia, Esdra e Abacuc.
Chi vuol d’odio appagarsi e mal volere
da quei ch’alle lor voglie non han freno
e in vista uomini sono e in atto fiere,
chi fuoco d’ira e di rancor veleno
5gradisce trarsi a spalle, anzi tempesta,
folgori e tuoni al suo tranquil sereno,
la veritá di volga, la qual, desta
dall’ombre ornai, sen va dagli alti tetti,
ove fu sempre sovvertita e pesta,
io Non volge i crudi sguardi, si mal netti
eli sangue altrui, qualch’improbo tiranno,
come contro chi ammenda i suoi difetti.
E, perché tali da temer non hanno
le umane leggi e sprezzali le divine,
15la briglia in tutto ai lor piaceri danno.
E, se un buon Esaia lor indovine
ira del ciel sovr’essi, o Geremia,
per ammollir quell’alme adamantine,
se un Battista Gioanni, un Zaccaria,
20se desso in carne Dio, ver uomo fatto,
s’apponga scorger loro a miglior via,
ecco l’insania in quegli avvampa a un tratto,
ch’occupa i cuori, e se ne drizza un regno,
né vuol tregua col ver né amor né patto.
25Rabbia, cordoglio intemperato e sdegno,
ira, furor, vendetta, oltraggio e morte
congiuran tutti a questo lor disegno.
Ch’ove si opponga alla lor dolce sorte
l’altrui temeritá, spargendo voci
30di vero contro a questa e quella corte,
subito quei Neroni e Galbi atroci,
que’ Deci gridati fiamme, ceppi ed onchi,
eculei, chiodi ed opprobriose croci.
Quai dunque lapidati od arsi o cionchi.
35quai gittati alle fiere, quai divisi
fúr con le serre o in rote, o d’ossa tronchi;
cosi per mille morti gli hanno uccisi,
come del ver campioni e come quelli,
c’hann’ora i pianti lor cangiato in risi.
40Oh santi sacrifici, oh accetti agnelli
vittime fatti al caro Agnel, per loro
vittima fatto, ed ora in del si belli!
Ed ove son le pompe di coloro,
che gonfi s’assidean sovra il senato
45dell’onorate teste in ostro ed oro?
Di Cristo un pover servo, ecco, tirato
era in catene al crudo seggio innanti,
da popoli temuto ed adorato.
Il servo ora di rose ed amaranti
50riporta una ghirlanda in ciel cucita
e vive in Dio fra dolci eterni canti.
Il tirán d’idri e bisce un’infinita
greggia pascer si sente il cuor, le tempie,
ove muor sempre in queU’eterna vita.
55II servo, che del fier tiranno l’empie
giá pene vinse, ma fugaci e manche,
or vede lui che deH’eterne s’empie.
Il tirán, che del servo giá le franche
risposte ha dentro impresse, gitta fuore,
60pentito invan, fiamme giammai non stanche.
L’ossa del servo abbiette, or con splendore
d’aurati tempii, negli argenti sparte,
adora il mondo e lor fa sommo onore.
Ma Tossa o polve de’ figliuoi di Marte
65u’son? mi dite. U’ son gli altari e incensi?
u’ de’ lor fregi son le piene carte?
T. Folkngo, Opere italiane - in.
Or detto abbiam piú forse non conviensi
pur con ragion, in pronto mentre vidi
tal, che mi fece altrove andar i sensi.
70Dico Esaia, il qual, fra gli omicidi
sacrati a Dio, la serra d’alto a basso
tutto partillo negli ebraici lidi.
Egli dunque levossi e, come lasso,
sostiensi a quel del sangue suo vermiglio
75dentato ferro, e parla cosi basso:
— Ecco, per don celeste, alto consiglio
del Nume eterno ed uno in trinitade,
conciperá tal Verginella un Figlio;
che, di Dio piena sol, senza unitade
80di mortai uomo, partorendo, pure
serberá dentro le incorrotte strade.
Ma quel nato Figliuol di due nature
fia menzionato in terra il «Dio con noi»,
che salvar tutti e trarci al ciel procure. —
85Qui s’alza Geremia fra gli altri eroi,
alle catene conosciuto ed anco
ai sassi, onde conchiuse i giorni suoi.
Questi gli empion le mani, quelle il fianco
e collo han cinto, e, cosi carco, verso
90noi queste rime disse, afflitto e stanco:
— L’immenso Fondator dell’universo
d’un’alta novitá fa degno il mondo,
che dal ben far tant’anni va diverso.
La Vergine, non manco di cuor biondo
95clic de’ capei, che del bel viso onesto,
circonderassi un Uom alto e profondo:
alto di deitá, profondo al resto
d’umilitá, ché Dio, fatt’uomo, viene
col sangue suo purgar l’antico incesto. —
100Egli s’asside; ed Esdra il libro tiene,
che scritto avea di molte carte e molte;
né cosi disse men degli altri bene:
— Il tempo, ch’antedetto piú e piú .volte
io t’haggio, e seco ancora i segni espressi,
105ecco vien ratto, e fien le carte sciolte.
Le sante carte, i libri occulti e pressi
hanno a scoprirsi, e dir: «Chi il mondo serba,
ecco vien Esso dopo tanti messi».
Berrá, volendo, d’una morte acerba
no il destinato calice paterno,
che il crudo umor del pomo disacerba. —
Or Abacucco al suo bastone acerno
appoggia l’omer destro, e il folto pelo
smove alla bocca e schiude un senso interno:
115—Verrá dall’ostro il Regnator del cielo,
e dal monte Faram scendendo il Santo
mostrerá quanto in lui può amore e zelo.
Fuor dell’uman costume un nuovo manto
di pura carne vestirassi drento
120un chiuso ventre, d’angioletti al canto.
In lui mi gioirò lieto e contento,
ché questo è il giá promesso Cavaliero,
da cui l’autor del mal fia rotto e spento. —
Compiuto il canto, il taciturno clero
125dietro al vessillo a duoi a duoi procede,
tornando per lo calle suo primiero.
Porta dinanzi a tutti Mòse il piede,
che un gran serpente avea confitto in cima
d’un’asta lunga, e tutti a lor precede.
130Allor dalla suprema parte all’ima
del gran teatro mille voci e mille
parean nel far un canto in mesta rima.
I padri santi, gli angeli e sibille
piangean concordi al seguitar quel drago,
finché s’ascoser tutti, e a noi le stille
correan dagli occhi a far ne’ petti un lago.
35
CANIO XXIII
Musica lamentevole sopra la meritata miseria del popolo ebreo.
Scherno fatto alla Sinagoga.
Voltato era giá il mezzo della notte
col carro insieme a Cinosura intorno,
e piú e piú stelle al mar s’eran condotte;
Cinzia giá il freddo ed argentino corno
5dall’emisfero nostro avea sottratto
per gir al monte del suo nome adorno:
quando principio diedero al quint’atto
della non vera o men del ver comedia,
che da quel ch’era un altro m’ebbe fatto,
io La musica, che gli atti ancor tramedia,
era del pianto che il buon Geremia
fe’ di sua gente in la crudel tragedia:
— Contesser può, che sotto altrui balia
stia la cittá mia popolosa e i passi
15muova per spiagge ov’uomo alcun non sia?
La donna, che giá tenne al giogo bassi
gli alti tiranni, or come vedovella
piange gli andati beni e al peggio vassi !
Fatt’è soggetta e tributaria quella,
20ch’ebbe gran tempo le province a freno
e a piú d’un re fe’ batter la mascella.
Le vanno, aimè! le lacrime non meno
d’un vivo fonte per le gote impresso,
e il letto in cui suol corcarse n’è pieno.
25Fra quanti avea dell’uno e l’altro sesso
cari compagni un sol pur non si trova,
che per conforto le si arrechi appresso;
anzi contrario a lei, quando per prova
si sa che rari stanno al tempo avverso,
30e questo e quell’amico la riprova.
Giuda, che seco star dovea converso,
iasciolla in pianto ed abito fra genti:
cercava pace e in guerra cadde immerso.
Per non gir servo, da nimbosi venti
35si tolse accorto, e lei, tra angosce presa,
stupráro i suoi persecutor violenti.
Odesi per le strade, ahi! voce offesa,
voce di commun doglia, ch’un almanco
non sia ch’orar nel tempio tolga impresa.
4^ Giaccion le porte ornai distrutte, e manco
li sacerdoti, afflitti e gemebondi,
vi ponno gir, c’han bracchi e veltri a fianco.
Le vergini, che i crini ebber giá biondi,
or brutti di squallore al vento ’i danno,
45né manco i visi lor son scarni e immondi.
E quai monton famelici, che vanno
cercando Iappe, giunchi e piú vii strame,
né mai col gregge in luogo star non sanno,
tai son, Gerusalemme, i tuoi per fame
50principi usciti a pascersi di ghiande,
fuggendo lacci, insidiose trame.
Piangi, superba, piangi, c’hai si grande
peccato in Dio, peccato a tal, che, fatta
instabil, cerchi or queste or quelle bande!
55Férmati ornai; delira e mentecatta,
tu vai, tu torni, o putta oscena e vaga:
cosi il divin giudizio i pazzi tratta,
cosi la man ultrice i merti paga,
ch’a quelli, onde giá onore avesti e gloria,
60scuopri la tua ignominia e infame piaga!
Quanto sei fatta vile per tua boria!
nelle sporcizie stai col capo e piedi,
né di chi fosti e sei tieni a memoria!
Non odi plausi o zufToli? non vedi
65quai nasi e ghigni t’hanno tolta in scherno?
Riedi, sfacciata meretrice, riedi ! —
Mentre durava questo pianto interno
del non veduto addolorato coro,
sbuca una donna, e par ombra d’inferno,
70livida, macra, ed una di coloro
che i denti hanno per fame neri e rari,
corti capei d’argento e viso d’oro.
Lei tal esser pensai, ch’alle lunari
frigide luci accoglie le verbene,
75donde sepolcri adorna e stigi altari.
Davasi vanto ancor, che il corso tiene
del cielo ai vaghi rai, de’ fiumi all’onde,
che lega l’ombre e slega di lor pene.
— Oh — dissi — brutta larva! E quando e donde
80quest’orca vien? Come natura mai
soffre tal mostro e agli occhi non l’asconde? —
Risposemi Palermo: — Non piú ornai
Dio ver’ costei la sua pietá proroga,
ma gir lasciolla negli amati guai.
85Amò quest’ebra sempre Sinagoga
piuttosto esser vii serva in lordi panni,
che donna di province in regai toga;
piuttosto aver d’Egitto i mesi ed anni,
un’etá lunga in servitú crudele,
90qual non mai s’ebbe da’ piú fier tiranni,
eh’esserne tratta fuor sotto il fedele
suo amante Dio, che sua mercé l’assunse
al regno in dote a lei di latte e miele.
Piuttosto l’impudica si congiunse
95a cani e porci, non che a servi e schiavi,
e in stupri e incesti l’empia lupa sunse,
che gioir lieta e casta nei soavi
abbracciamenti del suo sposo Dio,
il qual di Faraon le macchie lavi.
100Però, da poi eli’un tempo il Signor pio
sostenne l’insolenzia d’esta bestia,
che al dritto andar sempr’ebbe del restio.
e che talor prendevasi a molestia
d’un tanto Padre le amorose cure,
105cesse allo sdegno infin sua gran modestia.
Ecco s’or paga il fio, se le sozzure,
quant’esser puon, trovato s’hanno il nido,
che qual fu giá non è chi rafiigure!
Or stiamo intenti al fine; ch’io mi rido
ito di ciò debbe avvenire a questa lupa,
per cui giá il canto si commuta in grido.
Udite qual rumor gli accenti occupa! —
Cosi parlando, un impeto percuote
non so che muro e tutto lo dirupa.
115D’indi gran turba erompe, ch’alle gote
non so che visi e facce contrafatte
s’ha poste, acciò le vere siano ignote.
Volti di gufi, babbioni e gatte
scossero alquanto ai sonnolenti il sonno,
120che quegli piú degli altri assai combatte.
Un, ch’era duce della squadra e donno,
cavalca un asinel si tardo e lento,
che trarlo dietro a gran fatica ponno.
La putta vecchia intanto parse un vento
125a prender fuga, conscia del suo male,
al subito apparir di quel convento.
Io vidi al tempo giá di carnevale
giovani mascherati e travestiti
correr chi qua chi lá, se avesser l’ale:
130non men costor, mentr’ella par s’aiti
levar il campo e, come volpe accorta,
cercar, dove s’appiatti, ascosi liti,
furon a un tratto ai buchi, dove porta
farsi potea la versipelle fiera,
135e cosi stette in mille intrighi assorta.
Di beffe e di rimbrotti una gran schiera
la cinse al primo assalto, e chi «fantasma»,
chi la chiamò «giraffa», e chi «chimera».
Con scorno lauda tal, col vel tal biasma;
140questo dice: — L’è bella; — quello il niega,
anzi eh’è sozza vecchia e paté l’asma.
Dapoi si venne ai fatti, e come strega
su l’asino fu tratta, ma ritrosa
col volto lá dove la coda piega.
145E cosi Dio della sua scelta sposa,
fra quante il mondo avea leggiadre e belle,
permise, alfin, che mai piú brutta cosa
né piú schernita fu sotto le stelle.
CANTO XXIV
Querela del benignissimo Dio contro la ingratitudine
della sua sposa Sinagoga.
Sogliono i punitor dell’altrui colpe,
nell’ impartir giustizia, non mai sempre
torcer i corpi e sciór le membra e polpe.
Son varie qualitá, son varie tempre
5d’uomini al mondo; e legge in questo vuole
ch’ai basso e all’alto il tribunal s’attempre.
Pubbliche sono e son private scuole,
ove si covan le mal fatte cose;
qual si, qual no vergogna punger suole.
10Un malfattor patrizio non si pose
per piazze mai far opre di prigione,
ma solitario e in parti al volgo ascose.
Però, quand’è convinto, si ripone
in luogo scelto e lasciavi le braccia,
15o trova l’oro e al fisco si compone.
Ma non cosi del volgo e infame raccia,
che in gli occhi ad Argo quelle cose fanno,
che farle arrosserai Oliatone in faccia.
Questi del popol son ludibrio, e vanno
20putte scopate e schiavi ed infiniti
simil con altrui giuoco e con lor danno.
Nudi con scherni e beffe son puniti,
ché almen vergogna, di vergogna privi,
destan negli altri men sfacciati e triti.
Nel numer dunque d’esti indarno vivi
ecco quella gran donna, che le leggi
sue degne ebbe dal ciel, par che derivi.
25
Com’è caduta, lasso! da quei seggi
aurati tanto del suo nobil tempio
30fra mille mali e centomila peggi!
Ben mostra ch’ella nacque allor che l’empio
Cain menti ver’ Dio del frate ucciso;
però qui di miseria è fatto esempio.
Or dunque la vii fante indotto a riso
35il volgo avea, mentr’urta col somero,
cogliendo l’uova in capo, il fango in viso.
Alfin, da quegli abbietta in sul sentiero,
come cosa negletta, stavvi sola,
tutta impastrata il corpo infetto e nero.
40Fra tanto una gran voce d’alto vola,
cui, santa e grave, somm’onor si debbe,
che cominciò: —Che fai, d’odio figliuola?
Mostrato hai bene alfin che un padre t’ebbe
lordo amorreo, la madre tua cetea;
45né d’esser cosi nata mai t’increbbe.
Serva d’Ogo e Magogo e cananea,
odi quanto ti parlo, e ascolta bene,
putta di Zebbe, iniqua Zebusea!
Piacenti un poco quel che a me appartiene
50dal tribunale e me dal soglio porre,
stando per un, cui l’una parte attiene.
Io giá potei di Babilonia tórre
over d’Egitto donna, ed ambedue
valor ebber il mondo a sé sopporre.
55Ma per domar superbia c l’ale sue
spennar, c’ho fatto il mondo e sfarlo penso,
volli te sola e le bassezze tue.
Non ti ricorda, s’hai pur senno e senso,
che io di poca terra ed umil stato
60t’alzai dei gradi al piú elevato e immenso?
Or sia principio alle tue fasce dato!
Quando nascesti, alnten chi ti levasse
dal crudel parto, dimmi, fu trovato?
chi il tener umbilico ti secasse,
65recasse l’acqua, il sale o almen un straccio,
ov’entro l’abortivo avviluppasse?
Ver è, non vi mancò chi, poco spazio
al parto dopo, ti gittasse nuda
su nuda terra, d’un tal mostro sazio.
70Ed io per lá passando, ahi troppo cruda
parvemi cosa te giacer nel sangue
tuo proprio e non trovarvi chi lo chiuda!
Miro quel corpicei che in terra langue,
calcato da chi passa; lo mi accoglio,
75lo mi ravvivo, ch’era in tutto esangue;
poi nel mio fonte, ove gioir mi soglio,
le macchie del suo sangue lavo e tergo,
di vino il riconforto ed ungo d’oglio;
poi l’introduco al mio piú caro albergo,
80ove cresciuta io t’amo aM’altre sopra,
e di delizie in alto mar t’immergo.
Veste non è d’ogni finezza ed opra,
vistosa si di bisso o di giacinto,
di fini altri color, che non ti copra.
85Taccio le armille al braccio, al collo il cinto
cerchietto d’oro ed alle orecchie i fili,
c’han quinci un pregio, quindi l’altro avvinto.
Taccio gli specchi scriminali e stili,
odorate conserve, acque, profumi,
90giovin servigi e riverenze anili.
Taccio le cortesie, valori e lumi
perspicaci d’ingegno e l’accortezze,
pronte risposte, acconci e bei costumi.
Taccio gli eletti cibi e le carezze
95di suoni, canti, danze e onesti giuochi,
stanze regali e tutte Ior grandezze.
Quante province, regni ed altri luochi
sublimi, a ciò che a quei sormonti in cima,
consunti hanno per me gli edaci fuochi!
100Cosi il tuo nome, uscito fuor d’un’ima
ed illodata valle, e la beltade,
che in ciel ti diedi, alzai fuor d’ogni stima
Gloriar ben ti potei, che in nulla etade
donna fu mai che ascender nel cubile
105mio sacrosanto avesse libertade.
Ma tanta mia leanza e amor gentile
tu, perché vana sei, pigliasti a nausa,
s’io fossi a tua grandezza cosa vile.
Or di buttarti in occhio facciam pausa,
no Vengo si non a merti tuoi, ma quale
riconoscermi almen per te sta in causa.
Trovandoti giá tutte ornai le scale
aver salito degli onori e fasti,
per anco andar piú suso apristi l’ale.
115Tali pensier non escon, no, che guasti,
mal convenendo meco, vanno e sparsi,
e tornan biechi e impuri, ch’eran casti.
Tosto che i guardi tuoi non furon scarsi
agli amator, che a schifo avesti, ecco
120negli occhi miei gli adúlteri comparsi.
Qual tortorella che al suo verde stecco,
dove s’annida il dolce caro pegno,
ri volando gli arreca il pasto in becco;
ma, giunta, vede il nido, che fu pregno
125del car tesor, star vóto, e la consorte
non piú mai riede al rifiutato regno;
l’ésca le cade dalla bocca, e, forte
stridendo, al secco ramo, al rivo torbo
si riconduce, geme e chiama morte:
130mira sul tronco d’un amaro sorbo
starsi quel crudo vorator de’ figli
con la lor madre a canto, brutto corbo:
tal la mia grazia, mentre ti scompigli
dal nido e dolce parto a noi commune,
135trova il fier guasto de’crudeli artigli.
Vede Satán rapace, che le cune
ha vote di mia prole, e te la madre,
sua femina giá fatta, tiene impune.
Geme la grazia mia, ch’io, sommo Padre
140di tanti figli, veggoli nel ventre
del negro augel andar a squadre a squadre;
né vi è per tua cagion chi a me piú entre. —
CANTO XXV
Fine della querela dell’altissimo Dio contro la Sinagoga.
Elezione della santa Chiesa.
— Io, quel solo ab aetemo, il qual eterno,
mio eterno Figlio e Spirto eterno, imparto
eternalmente ogni contento eterno;
io, quel cui sapienza in un sol parto
5e d’amor pieno il mondo immenso fece,
immenso all’uomo, a Dio pusillo ed arto;
ecco al giudizio altrui m’acchino, invece
d’alcun mortai, che prende a far litigio
contro sua donna, se il divorzio lece,
io Né mi riprenda alcun, che di fastigio
tant’alto, innanti alla sentenza data,
l’abbia giú messa in tanto amar servigio.
Tal cosa non ho io fatto; anzi l’ingrata,
con gli adúlteri suoi da me partita,
15se stessa u’ la vedete si è gittata.
Oh insaziabil lupa, che, invaghita
di questo e quello, a quanti van per via
s’abbietta se medesma e s’è invilita!
Oltra di questo, l’infinita mia
20sostanza d’oro e gemme ed altri beni,
mentr’era in stupro e sotto e intorno avia;
essendo í mechi suoi giú sazi e pieni,
tolse l’oro e l’argento, ch’io le ho dato,
e maseoii ne fece biechi e osceni.
25Essa ciascun di quelli ebbe addobbato
di vesti, ch’eran mie, di piú colori,
e degli odor miei sacri profumato.
Poscia con essi usava, e quegli onori,
che a me si fan sull’are d’agni e buoi,
30essa d’altro lor fe’ che capre e tori.
Ah scelerata donna, che non puoi
peggio esser detta (ché le tigri, ingorde
di sangue, amaron sempre i figli suoi :
e tu, cui coscienza nulla morde,
35la prole d’ambo i sessi e di me sunta
immolar soffri a imagini si lorde),
or vedi a quanta estremitá sei giunta,
putta schernita, e in che ponesti fede!
vedi se stai di precipizio in punta!
40Non ti bastò violate aver le tede
e toro maritai, e in mio disprezzo
del tesor mio far ogni mèco erede ;
non ti bastò che, avendo me da sezzo,
drizzasti altari al volgo che ti stupra,
45e tu gli dai, non piu ricevi, il prezzo:
senza tal atto far, ch’ogni altro supra
di crudeltá, d’infamia e di furore,
né tanto danno mai pili si ricupra.
Come non ti s’aperse il petto, il cuore
50(che petto e cuor! ma smalto, roccia, scoglio!),
allor che fosti d’atto si empio autore?
Come potesti senza gran cordoglio
aprir la gola, trarne sangue e imporre
al fuoco il parto tuo, che amar si soglio?
55Per farne che? sacrarlo a quel che abborre
il zelo mio via piú d’ogni altra offesa
(né pena trovo a tanta colpa sciórre!),
dico l’idolatria, che con gran spesa
ed interesse hai fatta di mia dote,
60da te calcata, non che vilipesa!
Poi, Parche avendo giá dell’oro vote,
le porte tue, che parser un esame,
al gir ed al tornare niun percuote.
Però, fatta carogna e ornai letame,
65per ogni piazza e in publico drizzasti
un lupanar per non perir di fame.
Qui tante oneste voglie e pensier casti
per te, di ruffianismo mastra e prima,
furon corrotti, effeminati e guasti.
70Or giunta infin delle miserie in cima,
guárdati come vai ; cosi ten vade;
ned io di te, né tu di me fai stima!
Ecco che in te dura sentenza cade,
ond’io mi torno al tribunal primiero:
75venga giustizia e vadasi pietade!
Dichiaro a quanto estende il nostro impero:
costei sia, come incesta e parricida,
punita nel mio zel duro e severo.
Non turba e popol sia che in lei non strida,
80e con le pietre in man, coi ferri a lato,
non l’anga ovunque fugge e alfin l’uccida.
Ogni luogo, che albergo a lei sia stato,
senta le fiamme si, che in terra fumi
e in gli occhi all’altre donne il vegga eguato.
85Si laidi e abbominevoli costumi
di vista sian e di memoria tolti :
spegner tal fuoco il mar vi vuole e i fiumi.
Pur ad un cenno tutti, non che molti,
estinguerò come di paglia fuoco
<>o e nell’inferno’i vo’ tener sepolti.
Cotanto è il puzzo lor, che non han loco
né sotto il mar né dell’abisso in fondo;
sol io nell’acqua e sangue li suffóco.
Ma sterile non sia, non infecondo
95il letto mio però, né di mia prole
per la costei cagion sia privo il mondo.
Or altre nozze ristorar si vuole!
Ite, miei servi, a ben spiar chi bella
sia piú dell’altre in tutte le figliuole.
100Nel regno nostro introducete quella,
ove regina, ove sia degna madre,
ove fedel mia donna, e non ancella.
Sarò per lei d’un popol nuovo padre,
che del secondo David sotto insegna
105mi passerá davanti in belle squadre.
Sempre la mia cittá vorrò si tegna
senza notturne guardie e porte chiuse,
e il popol vada a suo piacer e vegna.
Uscir d’Egitto non sia chi ricuse,
no o entrar nel ventre al mar col piede asciutto,
vedervi armate torme andar confuse;
rendermi grazie ch’abbia alfin destrutto
l’amaro Faraon, né mi biastemi
se pel deserto fia per me condutto,
115per me soffrirvi caldi e freddi estremi,
fame, sete, serpenti, morbi e guerre;
né fia che in lui perciò costanza scemi.
Ed io vorrò che indarno mai non erre.
Se amare fian, gli addolcirò le fonti;
120e s’arse fian, gli bagnerò le terre.
Non sdegnerommi, no, che a me sormonti,
a me sulle mie spalle, e porterollo
per fiumi, per campagne e alpestri monti,
lo non m’arretro mai suppor il collo
125al dolce peso del mio popol caro,
che m’abbia di fé solo e amor satollo.
Gli pioverò dal ciel quel pane raro,
donde il mio grande esercito si nutre,
ma i figli di costei ne mormoráro.
130Or via dunque, malvagia, e quelle putre
tue piaghe di mia vista fa’ che toglia
e quel tuo d’ira mia pien vaso ed utre.
Vammi lontana, e, vedi, non t’accoglia
venirmi avanti, se il tuo cor non frangi
135ed in un mar di lacrime si scioglia !
Piangi, non aspettar piú tempo, piangi!
Vivo son io, non pascomi di morte.
Fa’sol che l’indurata voglia cangi,
ché della grazia io t’aprirò le porte! —
CANTO XXVI
Dispare il limbo, e tutta la scena rinverdesi alPapparir
della Chiesa, di Cristo sposa.
Stava pur anco il limbo né si slegua
tuttoché l’ombre sante eran partite,
cui del vangelo il lume intier sussegua.
Anzi le faci ancora piú sopite
5del solito pareano alla presenza
dell’odiosa e non piú cara vite:
dico la Sinagoga, ch’ornai senza
luce n’avea ridotti e senza vista,
se data non le avesse Dio licenza,
io Chi mai vide una cagna, tutta mista
di loto e piaghe, invisa esser a tutti
e non trovar mai sede ove consista ?
Tal costei vidi abbietta, e con quei brutti
suoi guardi e vista macilente e torta
15ci avea di lume in tutto alfin destrutti.
Ma, poi che Dio caccio!la e l’ebbe accorta,
che lei pentita raccorrebbe in grembo,
la scena tornò viva, ch’era morta.
Come per l’aura di ponente un nembo
20si va struggendo, tale ad oncia ad oncia
dagli occhi nostri tolsesi quel lembo.
La vista come avanti si racconcia;
e l’util mio pastor, con atti e cenno
di ciglio e man, ch’intento stia mi annoncia.
25Ed io fermai non gli occhi pur, ma il senno,
che a quel s’attende ogni pensier converse;
e cosi gli occhi al sonno fuga denno.
Ed ecco alla man destra si scoperse
un verde colle, il qual non stette molto
30che dalla cima al piè tutto s’aperse.
Scopresi, oh Dio! ch’io son pur vano e stolto,
presumendo narrar con basso stile
qual dono in quel poggetto era sepolto:
don d’ogni grazia pieno, don gentile,
35dono ab aeterno destinato in cielo,
dono al cui pregio è lieve ogni altro e vile!
Escevi una donzella in bianco velo,
con guisa tal, che candidetta rosa
nel primo albore appar su verde stelo.
40Semplice, bella, onesta e vergognosa
va su leggiadri passi, e ove l’imprime
scuopre novelli fior la spiaggia erbosa.
L’alloro, il mirto e oliva e la sublime
abete e palma e l’odorato cetro
45per farle onor piegaron le lor cime.
Novelle fonti con lor chiaro vetro
spiccian di vivi marmi, e a lei gli augelli
di ramo in ramo van cantando dietro.
Damme fugaci e caprioli snelli,
50timide lepri sbucano e conigli,
per lei mirar, da’ fidi lor ostelli.
Un’acre cerva e duoi gemelli figli,
delizie care sue, le vanno a’ fianchi
con lor monili d’amaranti e gigli.
55Chi dice: — EH’è Innocenzia in panni bianchi. —
Chi : — No, ma Fede, a tal colore avvezza. —
Chi: —Lei, dal cui Figliuol saremo franchi.—
Io, che degli altri men n’avea certezza,
lo chieggio al mio Palermo. Ed ei : — Congiunta
60fia — disse — col Messia tanta bellezza.
Ecco, l’etá del fango è giá consunta:
quella dell’ór celeste fuor dell’ombre
con la Sposa di Cristo insieme spunta.
Decreto sta, che per costei si sgombre
65d’error il mondo ed entrivi quel vero,
ch’ulla calighi piú non oltre adombre.
Stará immortale di costei l’impero;
ed infinita prole, di lei nata,
s’alzerá predicando il gran mistero.
70Fia da tiranni e principi agitata
del mondo e dell’inferno; ma, piú oppressa
che sia da lor, in ciel verrá piú grata.
Nel ciel (credete a me!) non è permessa
ull’alma entrar senz’asti e passioni
75e che per Cristo in odio abbia se stessa.
Duri martelli e vividi carboni
afiínan l’opra, e senza quei non unque
conosco se gli artefici son buoni.
Ogni quantunque altèro, ogni quantunque
80possente re fia da costei sommesso,
la qual ecco a noi canta. Udiamla dunque!
— Baciami con la sua l’arnor mio stesso,
e non con l’altrui bocca, lo non piú Mòse,
ma il Giovili santo voglio a me promesso.
85Venga Egli, ché pur troppo lo mi ascose
l’ingrata Sinagoga, e chieggio i baci
delle sue dolci labbra ed amorose.
Taci, David; taci, Esaia; taci,
Amos; e gli altri tutti ornai tacete !
90fate ch’io il vegga, parli, stringa e baci!
Or Egli ove soggiorna mi dicete!
Credete voi che venga o sia venuto,
o pur di speme ancora mi pascete?
Se per divin consiglio è pur statuto
95ch’io, benché indegna, meco l’abbia, il voglio,,
cui d’oro e gemme un pallio ho giá tessuto.
Di tante ornai promesse mi disvoglio,
lo stessa chiamerollo e irò cercando;
ché ad altri aver creduto ancor mi doglio.
100Quando della cittá per strade, e quando
per borghi e piazze, vederò d’avere
Quel che l’alma mia cerca ed arde amando.
s’io lo mi posso al modo mio tenere,
non lascerò che delle braccia m’esca,
105ché senza lui non trovo alcun piacere.
E, benché fosca sia, deh! non gl’incresca,
ché il sol m’ha scolorata, e per lui bella
verrò piú di quantunque amor invesca!
E, s’Egli è pur quel che fra gente fella
no infermar deggia e assumer corpo umano,
figlio d’un fabbro detto e d’un’ancella,
si mi fia grato, e seco mi allontano
dalle superbe altezze: sol è buono
con lui calcar il mondo iniquo e vano!
115Se per altrui salute in abbandono
dará il suo corpo in sorte al freddo, al catdo,
a fame, a sete; ed io presta gli sono.
Scoglio cosi non siede all’onde saldo,
coiti’ io alle botte, per sua grazia, tanto
120che il cuor mi vien piú sempre da lei baldo.
Se mai, lassa! vedrò quel busto santo
languir tra man rapaci alla colonna,
rotto, impiagato e in croce svelto e franto,
come potrò questa corporea gonna
125non dare a quei famelici per strazio,
ch’io gli son pur la sua diletta donna?
Or non sia dunque al tempo maggior spazio!
Venga il mio caro ed unico tesoro,
ché mai, d’esso pensando, io non mi sazio!
130Se in lui, ch’anco non vidi, m’innamoro,
che fia quando vorrammi nelle braccia
e in letto della croce in quel martoro,
quando le piaghe di quell’alma faccia
irò suggendo con dolcezza tanta,
135che converrá mi slegua e in lui mi sfaccia?
Allor mi voglio a quella sacrosanta
persona unire, allor trarne tal prole,
ch’io detta sia per lei «beata pianta».
Sola sarò la pianta, ch’ai mio Sole
140Gesú cocente, e di sue grazie al rivo,
darò celesti frutti a chi ne vuole.
E di tai frutti Tossa e sangue vivo:
Tossa, le pietre; il sangue fia il cemento
per far lo tempio; e in lui con Cristo vivo.
145Vivo sperando che né tuon né vento
smuover giammai potrai lo, mentre Cristo
sará pietra angolare e fondamento.
Or corro a lui siccome al caro acquisto!
E tu, popol eletto, avendo udito
150gli annunzi e le trombette, sta’ provisto,
ché di Giordan presto T barai nel lito! —
CANTO XXVII
Finito l’atto, vanno i pastori alle lor capanne. Appare l’angelo,
che annunzia la nativitá di Cristo, e vanno a lui.
Data la fine allo spettacol, degno
cui fosse assiso il principe Ottaviano,
ch’avea del mondo allor fatto un sol regno,
il popolo, con suon di voce e mano
5renduto il plauso onesto, a torchi, a faci
per tornarsi a lor case dan di mano.
Io veggo i palchi ed i solar capaci
di tanta gente a un tratto restar vóti:
chi qua, chi lá sen vanno alle lor paci,
io Vanno compunti ed umili e devoti,
favoleggiando di quest’atto e quello,
che in mente a lor piú di staranno immoti.
Io l’ultim fui, che col mio vecchiarello,
seguendo un lume, uscimmo di teatro,
15e a noi venia da tergo anco un drappello.
Era con gran silenzio cheto ed atro
il ciel, né ancor l’armento boreale
tratto d’intorno al polo avea l’aratro.
Noi drizzavamo i passi al principale
20di cento alberghi, ove Palermo, ch’era
il re, tenea lo scettro pastorale.
Ed ecco d’oriente una gran spera
di tanta luce appar, ch’abbarbagliati
cademmo il vecchio ed io con l’altra schiera.
25Gli altri pastori, agli antri giá tirati,
giacean su lor fronde chiusi e stanchi,
e per molto vegghiar sono assonnati.
Noi soli, a quel splendor c’ha fatto bianchi
gli aspetti allor notturni, stiamo chini
e per spavento batte il polso e’ fianchi.
30
Piú sempre e piú s’appressan quei divini
raggi alla volta nostra, infin che, sopre
a noi fermati, assai n’eran vicini.
S’apre quel globo, e in mille rai si scopre
35un angiol, non di carne piú né finto,
com’or m’avean mostrato l’uman’opre.
Un bel donzello alato, eh’è dipinto
di sol vivaci empirei colori,
fuor delle fiamme alquanto si fu spinto.
40— Non — disse a noi — temete, o buon pastori
Ecco, d’un magno gaudio son eletto
nunzio da Dio fra quanti ha intorno cori.
Il Ben promesso, c’han saputo e detto
e atteso e sospirato i padri santi,
45lo avete in voi, di voi salute e oggetto!
Vi mostreremo quinci molto innanti
nella cittá di David quel Signore,
Cristo aspettato giá tant’anni e tanti.
Non d’un sol popol gaudio e salvatore,
50ma fia degli universi. Or dunque a lui
voi ne verrete; e ognun di voi l’adore!
Giá non vi s’offrirá come colui
che in grembo ha ciò eh’è fatto, ma sul fieno
de’ piú vili animali sta fra dui.
55Un puro infante il vederete, e meno
degli altri assai vicino alle delicce,
anzi d’inopia e di disagi pieno.
Or chi va storto e giú di via, si dricce;
chi cieco palpa l’ombre, al sol diverta;
60chi è secco e vóto, inverda ed ammassicce!
Il calle dritto, il vero ardor, la certa
e piena grazia ornai vosco dimora:
correte a lei, ché in dono vi s’è offerta! —
Cosi diss’egli, e subito in quell’ora
65coro celeste appar, che veri accenti
e non mortali ruppe inver’ l’aurora:
— Gloria nel cielo a Dio, pace alle genti
di pio volere in terra! ti lodiamo,
o Tu, per cui siam tutti alfin redenti!
70Noi ben preghiamo a te, noi t’adoriamo;
noi gloria, onore e grazie ti rendemo,
per lo splendore sempre in te specchiamo.
Signor Dio, Re del ciel, Padre supremo,
e tu del Padre Figlio, Agnel di Dio,
75Cristo Signor, donde beati semo;
Tu che svelli d’errore il mondo rio,
abbi mercé; Tu, che togli il peccato
del mondo, accetta i prieghi e voti, pio!
Tu che starai del Padre al destro lato.
So miserere di noi, ché sol Tu santo,
sol Tu Signore altissimo levato,
sol Tu levato in quella gloria tanto,
quant’è lo Padre, quanto il Paracleto,
se pur in Dio può caper tanto e quanto! —
85Cosi cantando, in un trionfo lieto
miramo quegli a duoi a duoi muovèrsi,
tornando all’alba, e noi gli andiamo drieto.
Ma tanto in quella gloria eramo immersi,
ch’a chiuse bocche, ad occhi e orecchie aperte,
90seguendo lor stiliamo ai dolci versi.
Son le ricchezze orientai scoperte:
lá verso il coro angelico va lento,
scorgendo noi. ch’andiam per vie deserte.
Il buon vecchio Palermo ed io non sento
95sforzo veruno al corpo né stanchezza:
cosi degli altri ognun non v’ha tormento.
Tanto è del canto e vista la dolcezza,
che i nostri alzati spirti seco a forza
traean li corpi senza lor gravezza.
100Non è di noi chi dal sentier si torza;
sia il monte alto pur, la valle bassa,
amor non sa fatica e i danni ammorza.
Le tribú tutte e il santo coro passa
da Neptalim fin all’estremo Giuda;
105dietro montagne, laghi e fiumi lassa.
Giá d’Oriente umor gelato suda.
La gerarchia fermossi alfm lá, dove
stanza trovammo abbandonata e nuda.
— Qui — i’angel disse — state e non altrove,
no Siete fuor la cittá; non gite dentro;
ma cose qua vedrete immense e nòve! —
Io con Palermo e gli altri avanti ch’entro,
pastori ebrei, siccome noi gentili,
usciali dal luogo (ed altri ancor son dentro),
11.15 uscian devoti ai lor propinqui ovili,
poi ch’adoráro Quel per che fúr presti
lasciar, dall’angel scorti, i lor fenili.
Tosto a Palermo furon manifesti ;
e, poi lor stretti abbracciamenti, vanno
120con gli altri ancora, ed un non è che resti.
Gli angeli ad alto tuttavia pur stanno,
sol da noi visti, per voler divino,
e posto fine all’armonia lor hanno.
Compiuto dunque il nostro util cammino,
125Palermo ed io con quelli ch’eran nosco
entramo ancor dormendo il matutino.
Prima trovamo un lungo andar, cli’è fosco
non sol di notte, ma di mezzogiorno,
umido loco, basso e pien di mosco.
130In capo a quel si viene, ove soggiorno
fèr giá gambili, bovi ed asinelli
e quanti con le some vanno intorno.
Or sta deserto e pien di mali e felli;
non ha porte o fenestre ch’apra e serre,
135ma topi annidan dentro e pipastrel 1 i.
Di Marc’Antonio e di Pompeo le guerre,
come sferze di Dio, col ferro acuto
avean distrutto e queste ed altre terre
e dato a Erode il regno e a sé il tributo.
]]==
Il presepio del nostro Salvatore. Gli stranienti della passione sua.
La morte e sepoltura di Palermo.
Palermo, il vecchio saggio, assai piú trema
di quel che per vecchiezza, avendo a gire
innanti alla Virtú del ciel suprema.
Scorgeva gli altri, quando il gran desire
5Io sprona ed urta, e quando il gran rispetto
raffrena e sulle piante il fa stupire.
Ed io, che il cuore avea non cosi netto
come aver dessi a tanto assalto, molto
piú d’esso palpitar mi sento il petto,
io Stavami dietro a lui tutto raccolto,
coi sensi in un pensier legato e chino,
né punto ardir avea d’alzar il volto.
Lontano era pur anco il matutino.
Le nondimeno angeliche lanterne
15scoprian ai piè l’oscuro assai cammino.
Trovamo alfin le vive, sante, eterne
gioie dell’alto incomprensibil Nume
giacer in rotte e squallide caverne.
Ahi troppa mia fidanza, che presume
20dir quello e porre in carte, che non mai
diria di lingue un tuon, d’inchiostro un fiume!
Stan sopra il tetto gli angioletti gai,
che per fissure e buchi d’ogni lato
dal rotto albergo spargon vivi rai ;
25come talora il sol, dal mare alzato,
si chiude in spesso nuvolo, che manda
lá crini ardenti ov’egli è perforato.
Donna di senno ed uomo grave in banda
s’eran in una e due giomenti accolti,
30e di lor quattro al pregio fan ghirlanda.
Tenean pur chini sempre a terra i volti,
ch’ivi nel fieno e in grembo d’un presepe
posto hanno un Figlio, ad adorarlo vólti.
Di sé gli fanno intorno angusta siepe:
ma tanti son degli occhi i caldi umori,
che la sua cuna un rio ne accoglie e tepe.
Angiol non v’è, non uom, che non l’adori;
non bue, non asinel, non vicin monte,
che per coprirlo un d’ei non spunti in fuori.
Palermo, a un tratto che mirollo, pronte
ebbe ginocchia da gittarle a terra
ed abbassarvi quanto può la fronte.
10presso a lui, siccome chi non erra
seguir scorta fedel, vi piego Tanche;
e la squadretta lungo a me si serra.
Tutti però discosti, ché non anche
ardir tant’era in noi d’avvicinarsi
a lui, ché treman l’alme e negre e bianche.
Dormia quel Pargoletto, e gli eran scarsi
gli drappi che il coprian contra decembre,
c’ha per lo mondo i suoi rigori sparsi.
Qui cominciò le tenerelle membre
del tempo al li carnefici gittare,
acciocché in tutto a noi per noi s’assembre.
La Madre, eh’è la donna singolare
di quante furo, sono e ancor saranno,
il caro parto stassi a contemplare.
S’avea dal capo istesso tolto il panno
e al meglio puote fattone le fasce,
ove le man fattrici chiuse stanno.
11padre ancor, non padre, mal si pasce
le voglie d’adorarlo, e tiensi indegno
cui tanto incarco a maneggiar si lasce.
Di largo pianto ha volto e seno pregno,
e tal si mostra nell’aspetto, quale
sia di don tanto, in quel ch’uom possa, degno.
Fra tanto un gran baron c’ha chiuse l’ale,
baron del ciel, sottentra in vista altiera
ed ha sopr’ambi gli omeri due scale.
70Vien il secondo, e Micael fors’era,
cónto alla forza sua, che leggermente
sospende in braccio una colonna intiera.
11terzo ha il gallo, il quarto la pungente
lancia, cui segue il quinto con la canna
75e spongia, ebra d’aceto e fel mordente.
Il sesto in bianca tonica s’appanna,
di sangue sparsa; il settimo nell’una
tien tre chiodi, e il martel nell’altra spanna.
L’ottavo aspri flagelli in man s’aduna;
80trenta danari il nono ed i tre dadi,
da tradir quegli e questi di fortuna.
Al decimo tra l’altre dignitadi
tocca portar di vepri una corona,
vepri lunghi, mordaci e de’ piú radi.
85L’undecim d’un capestro e d’una zona
e d’altri nodi cingesi la gola,
il fianco, i bracci e tutta la persona.
L’ultimo appare in mesta e bruna stola
con due confitte travi ed è pur croce;
90pena, ch’a’ladri è destinata sola.
Qui porse il gran Palermo un’alta voce,
e disse, alzando gli occhi e mani al cielo:
— Oh morte a si giust’uomo troppo atroce! —
Cosi chiamando, l’anima, dal velo
95corporeo sciolta, in parte si ritenne
ove fame non è, non caldo e gelo.
Stassi quella colomba in sulle penne,
finché il Battista introdurralla seco
lá ove gran tempo i padri Dio sostenne.
100Io, qual stordito, piú non era meco,
quando repente vidimi alle piante
morto chi me allumato avea, di cieco.
Ma l’angiol piú vicin con le man sante
degnossi accénni, e con avviso dolce
105mi trasse, e gli altri ancor, poco piú avante.
Qual tramortito, ch’abbia chi lo folce
fin alle piume ove lo corca e stende,
poi con rimedi e parolette il molce;
tal me, giá stato per levar le tende
no all’altra vita dietro al mio maestro,
quel gentil angiol m’alza e a me mi rende.
Fra tanto altri ministri, al lato destro
entrando, fean di stalla un paradiso,
ov’era Dio col gregge suo celestro.
115Coglion quel degno busto; ed improviso,
ecco, le man, in che non cape indugio,
dal vicin monte hanno un avello ecciso.
Poi fatto al piè del sasso un gran pertugio,
vi acconcian l’arca e l’immortai memoria
120danno al mortale e l’ultimo refugio.
Vattene, de’ pastori eterna gloria,
senza il tuo Filoteo, che tanto amasti;
vattene al premio della tua vittoria!
Tu, sendo incirconciso, meglio andasti
125del vero alla chiarezza, e dall’errore
dell’empia latria il popol tuo voltasti,
ch’or non fan questi, ch’ebbeno rettore
Dio sempre a’gesti suoi fin da principio!
Però ti fu concesso il Salvatore
130veder qui nato, e uscir poi di mancipio.
CANTO XXIX
Dichiarazione di tutti li misteri della passione del Salvatore,
che nella nativitá sua apparsero.
Stavami astratto e poco lieto, insieme
con dieci miei compagni, presso alquanto
a quello a noi troppo onorevol Seme.
Io, pur carnale, non frenava il pianto,
5perduto avendo il mio padre Palermo,
per cui grazia mi fu di veder tanto.
Ma, quando in quel soggiorno inculto ed ermo
starmi vedea con Dio fra la sua corte,
oh quanto a quel gran duol m’era di schermo!
io Giá quelli c’han le insegne della morte
un cerchio intorno fanno, ed il lor centro
era. il Bambin, che dorme molto forte.
Io, fra cotant’onor trovarmi dentro
vergognando, fuor n’esco; ma, da loro
15preso per man, nel circolo rientro.
La Vergin Madre, a tanto concistoro
chinando il capo, stassi ritta in piede
con gli occhi e cuore intenti al suo Tesoro.
Essi, ch’aveano a lei la prima sede
20giá fabbricata nell’eterna pace,
l’onoran come lei che piú alta siede.
Questa di sopra all’altre ardente face
tanto piú di gran lunga in l’alta gloria
sede in idea, quant’or piú bassa giace.
25Tal don le avvenne sol per la vittoria
ch’ebbe, sendo Ella scelta ad esser Madre
di Dio contro l’orgoglio e cieca boria.
Non ebbe un fregio tal, perché dal Padre
fosse antemessa a mille oneste e mille;
sola umiltá l’alzò su l’alte squadre.
30
Eran le cose allor cosi tranquille,
che non s’udia quantunque picciol crollo,
non che latrar di cani o suon di squille.
Dorme il Fantin, perch’uomo Dio formollo r
35in atto da baciargli volte cento
chi fosse degno gli occhi, bocca e collo.
Dorme il Piccino, e quinci l’argomento
fu del silenzio in cielo e in terra sparso,
dormendo seco il moto ed ogni vento.
40Ora il donzel, che con la croce apparso
era il dertano, in voler dir s’addestra,
come orator che in dar principio è scarso.
Tien dritto il legno in piè con la sinestra
ed, a noi vólto, anzi allo stato nostro,
45cosi parlando stese la man destra:
— Uomo, pon’ mente a quell’orribil mostro,,
per cui, del del fiaccandosi le scale,
s’aprir le porte del tartareo chiostro.
Pon’ mente, dico, al tuo peccato, il quale
50t’ha dato al tuo nemico in le catene
per ben ornargli il carro trionfale.
Egli trionfa ed in prigion ti tiene;
non che per sé quell’ infernal tiranno
fosse a bastanza muoverti dal bene,
55ma del peccato tuo le forze t’hanno
levate l’arme e preso nel conflitto
e messo lá dove i perduti stanno.
Di che, per sciòr d’un si crudel Egitto
te, simil suo, che in career Pluto serra,
60portarti addosso e ritornarti al dritto,
ecco del cielo il Re discese in terra;
eccolo armato d’umiltá profonda,
per dare a te la pace, a sé la guerra.
Largo tesor delle sue grazie abbonda:
65spargerlo vuole a chi gli è partegiano,
a chi sotto il suo imper l’arme circonda.
Giá scende ad armeggiar nel campo umano:
ecco il maggior stendardo, ecco la pianta,
quella non giá cui pronta fu la mano,
70la tua mal cauta man, onde si avanta
d’aver tant’alme e piú sempre acquistarne
l’abisso, e in ciel non ir sol una santa.
Frutto mortai e peste a chi è di carne
cogliesti alfin dal legno, onde credesti
75frutto d’essenzia eguale a Dio recarne.
Quindi per li pensieri tuoi scelesti
sconfitta fu la forte tua guerrera
fida magion, ché tu cosi volesti.
Se il mal desio le tolse la bandiera,
Ho che meraviglia? quando che, ciecato,
chinasti i sensi alla contraria schiera!
Questi tuoi traditori poi t’han dato
vinta ragione in man del tuo nemico,
fattogli servo in guardia del peccato.
85Per vincer dunque l’aversario antico
e in te sopporre a te le voglie tue,
portate ho l’arme al tuo fedel amico.
Vedilo qui fra l’asinelio e il bue,
d’umiltá santa forte campione,
90pronto a mostrar per te le forze sue.
Fia questa croce il magno confalone,
che s’appresenti e, rotte l’alte mura,
entri l’inferno e a forza ti sprigione!
Vedi la soda lancia, cui non dura
95né scudo alcun né usbergo né corazza,
sian pur d’invitto acciaio e tempra dura.
Vedi le scale, ove salendo, ammazza
li suoi rubelli, né a ferir assonna,
quando col stocco, quando con la mazza.
100Queste son le due sferze; e la colonna
del suo bel padiglion sostien l’incarco;
vedi la spongia e l’inconsutil gonna:
gonna che il copre armato, mentre al varco
securo attende le scoperte insidie,
ove. malgrado lor, ben tira d’arco.
La spongia dell’amaro fel d’invidie
mille cagioni a tolerar gli presta,
de’ propri suoi gli oltraggi e le perfidie.
Vedi, l’augel cristato avvisa e desta
le sentinelle sue, mentre abbandona
l’arme a riposo ed a quiete onesta.
Vedi che gli è tessuta una corona,
ove le spine, come in oro pietre,
al Servator del cittadin si dona.
Vedi il martel, onde convien che spietre
ogni durezza, e al suo destrier ai chiodi
talor doppie l’andar, talor l’arretre.
Tre sono quelli, ad uso per duo modi,
pel freno l’uno, i due per li speroni,
che romper sanno di pigrizia i nodi.
Ecco i danari al soldo e paga buoni,
di sua sembianza impressi. Ecco tre dadi,
che sceglion gli avvezzati al l’arme e proni.
Cosi del ciel le rotte scale e i gradi
s’hanno a rifar per la costui possanza,
e dell’inferno a ratturar i guadi.
Tu sol d’esserne sciolto abbi speranza
e fede in Lui, né si il peccato apprezzi,
che in suo dispregio l’impetrata usanza
per questo gran Fanciullo non si spezzi.