< La scotennatrice
Questo testo è stato riletto e controllato.
X. Il covo del grizzly
IX. La pineta dei giganti XI. Assedio nel «big-tree»

X.


Il covo del grizzly.


Il gigantesco vegetale era stato magnificamente scavato in un modo da formare una comodissima sala capace di contenere anche due dozzine di persone.

Delle asce, poderosamente maneggiate, avevano lavorato accanitamente nel corpo del colosso, lisciando abbastanza accuratamente le pareti se non la vòlta, la quale appariva frastagliata singolarmente.

Chi erano stati i misteriosi lavoratori? Bianchi rifugiatisi nella foresta per sfuggire a gravi pericoli o qualche famiglia di pelli-rosse, ultimo avanzo di qualche tribù nemica degli Sioux? Nessuno, almeno pel momento, avrebbe potuto dirlo.

L’abitazione, abbandonata forse da moltissimi anni, era diventata poi la tana d’un orso, probabilmente grigio, a giudicarne dalla immensa quantità di ossami che la ingombravano, ma anche l’ultimo inquilino in quel momento mancava.

Fra ammassi di vecchie foglie secche vi erano costole, crani e femori appartenenti ad ogni genere d’animali che avevano servito da pasto al peloso abitatore e che tramandavano un fetore poco piacevole, quantunque apparissero accuratamente scarnati.

Un oggetto aveva subito colpito i quattro avventurieri. Consisteva in una rozza scala che stava appoggiata contro una parete e la cui cima era incastrata in una larga fenditura.

— Questa non l’ha fabbricata certamente l’orso grigio — disse Turner, il quale era rimasto molto sorpreso di quella scoperta. — I primi abitatori che cosa ne facevano?

— Signor Turner — disse Harry — lasciate stare pel momento la scala e cerchiamo di rimettere a posto la porta prima che il vecchio Jonathan ritorni dalla sua passeggiata e venga ad intimarci lo sfratto.

— Adagio, mio caro — disse John. — Tu non hai pensato ai nostri denti.

— Che cosa vuoi dire, camerata?

— Che possiamo venire assediati, senza aver nulla da mandare giù per reggere il più che ci sarà possibile.

— Toh!... Mi ero infatti dimenticato che non abbiamo assolutamente nulla per cenare.

— Fuorchè il cuoio e le cinghie dei nostri poveri cavalli — disse Giorgio.

— Vorreste recarvi alla caccia, mister John? — chiese Turner.

— Oh, no!... Ci contenteremo di poco, purchè serva a riempirci il ventre.

«Vi sono delle centinaia di pinon al di fuori che non domandano altro che di essere raccolte e divorate.

«Noi potremo ottenere un pane eccellente.

— Che cucineremo in questo gigantesco forno insieme a noi — disse Giorgio, ridendo.

— A me, Harry!... — disse l’indian-agent. — Voi intanto cercate di rimettere a posto la porta e di barricarla internamente.

— Cogli ossami che ci ha lasciati il grizzly? — chiese Giorgio.

— A questo ci penso io — rispose Turner. — Una buona traversa di legno basterà.

John ed Harry, sempre armati dei loro rifles, temendo di trovarsi da un momento all’altro viso a viso col terribile e gigantesco orso, lasciarono il rifugio e prima di tutto si diressero verso un gruppo di cactus a bocce, piante strane, che formano dei cespi enormi rassomiglianti a giganteschi alveari, ed i cui rami tagliati a fette, servono per dissetare non solamente gli uomini bensì anche gli animali, essendo ricchissimi d’acqua.

Coi loro coltelli ne troncarono parecchi che trasportarono nel rifugio, per non correre il pericolo di morire di sete, quindi fecero un’ampia raccolta di frutta di pino, lunghe un piede e mezzo, ricche di mandorle eccellenti assai nutritive, che si possono mangiare crude od abbrustolite, e che macinate dànno una specie di farina assai gustosa e molto apprezzata soprattutto dagl’indiani.

Avevano già fatto tre o quattro giri, quando l’udito sottile dell’indian-agent raccolse un rumore sospetto.

— Il grizzly o gl’indiani? — si chiese, fermandosi, mentre aveva le braccia piene di pinon.

— Tu hai udito qualche cosa, è vero, camerata? — chiese lo scorridore di prateria, sorpreso per quella brusca fermata.

— Sì, Harry — rispose l’indian-agent.

— Scappiamo, camerata.

— Aspetta un momento.

— Che sia l’orso che torna a casa?

— Chi lo sa?

L’indian-agent stette alcuni secondi in ascolto, poi si slanciò a corsa sfrenata verso il gigantesco big-tree, prontamente seguito da Harry, il quale credeva ormai di vedersi alle spalle l’orso colla bocca spalancata e le unghie aperte.

— Chiudete!... — gridò quando fu dentro. — Va bene almeno la porta?

— Combacia perfettamente, come se fosse stata tagliata ieri — rispose Turner. — Che cosa avete veduto?

— Vengono.

— Chi? Gl’indiani?

— Non ve lo saprei dire con certezza. Ho sentito un rumore che non mi rassicura affatto.

— Che sia invece l’orso?

— Può darsi.

— Giungerà troppo tardi perchè troverà la porta ben chiusa. Ho tagliato due grossi rami ed ho trovato il modo di assicurarli per bene alla corteccia, forandola internamente in due luoghi.

«Se spingerà perderà inutilmente il suo tempo. Le corregge non cederanno facilmente.

«Corpo d’un bue!... E quella scala? Sapete, John, che io continuo a pensarci?

— Alla scala?

— Sì, amico. Mi è venuto un sospetto.

— Quale?

— Che i misteriosi individui che hanno scavato questa abitazione nel tronco di questo gigante, non l’abbiano fabbricata per un puro capriccio.

«Non vedete come le estremità superiori sono incastrate entro quella larga fessura?

— E così? — domandò l’indian-agent.

— Che sopra questa camera ne abbiano scavata un’altra?

— Possibile!...

— E perchè no?

— Si potrebbe vedere ― disse Harry.

— Volete provarvi a salire?

— Subito, signor Turner.

Lo scorridore depose il rifle, balzò sui pioli e si spinse in alto, urtando il capo contro la vòlta.

Tosto un grido di stupore gli sfuggì, mentre una pioggia di polvere legnosa si rovesciava addosso a lui ed ai suoi compagni che stavano osservandolo, costringendoli a balzare indietro per non correre il pericolo di venire accecati.

La vòlta, in quel luogo, aveva ceduto, ed una specie di botola, abilmente dissimulata da quella fenditura, si era sollevata sotto il colpo di testa dello scorridore.

— Ve lo avevo detto io!... — esclamò Turner, con voce trionfante — che a qualche cosa questa scala doveva aver servito!

— Che vi sia una vera casa a più piani dentro questo colosso? — si chiese l’indian-agent. — Sarebbe curiosa!...

Mister Harry, alzate la botola!... — comandò il campione degli uccisori d’uomini. — Noi vi seguiamo.

Lo scorridore alzò le braccia e spinse con grande impeto.

Un quadro di legno, largo e lungo un buon mezzo metro, si spostò nuovamente e ricadde, con cupo fragore, sopra la vòlta, lasciando libero il passaggio.

— Saltate dentro, mister Harry — disse Turner.

Lo scorridore aveva già attraversata l’apertura e s’era subito trovato in una seconda stanza, meno vasta della prima e scavata più rozzamente, la quale riceveva l’aria e la luce da due piccole feritoie aperte attraverso la spessa corteccia del big-tree.

Intorno, disposti con un certo ordine, vi erano dei vecchi cofani ormai molto tarlati ed appesi a dei chiodi, conficcati nelle pareti legnose, quattro vecchi archibugi, una scure molto arrugginita e diversi corni di bisonte contenenti probabilmente della polvere.

Turner, John e Giorgio avevano subito raggiunto lo scorridore e non erano rimasti meno sorpresi per quella inaspettata scoperta che poteva diventare per loro preziosissima in caso d’un assalto da parte degli indiani.

― Chi può aver scavato queste due camere e dentro ad un albero? ― si chiese Turner.

― Solamente dei banditi — rispose John. — Ve n erano molti sui Laramie quando i minatori affluivano verso i placers.

— Me lo avete detto. Vediamo che cosa contengono queste casse.

― Che siano piene di pepite? — chiese Giorgio, i cui sguardi si erano subito illuminati di ardente cupidigia.

― Può darsi che qualche po’ d’oro vi si trovi dentro — rispose John.

I cofani erano sette, di diversa grandezza, lavorati grossolanamente e formati con vecchie tavole di pino.

I tarli li avevano guastati senza misericordia, malgrado l’acuto odore di resina che regnava in quella stanza.

La prima conteneva delle casacche assai stracciate e delle scarpe ferrate; la seconda dei biscotti ormai malandati; le altre molte palle di piombo, delle bottiglie vuote che dovevano aver contenuto del wisky, degli attrezzi da minatore e dei sacchetti di polvere.

Solamente nell’ultima, sotto un mucchio di stracci, i quattro avventurieri rinvennero, entro un fazzoletto, una trentina di pepite d’oro purissimo del peso di oltre un chilogramma, vale a dire un quattromila lire nostre, che i misteriosi abitatori probabilmente avevano rubate ai minatori di ritorno dai claims della montagna.

— Ecco una giornata ben guadagnata — disse Turner. — Non succede tutti i giorni di scoprire dei tesori.

«Faremo le parti da buoni amici, poichè i proprietarî od il proprietario non si presenterà mai più a reclamare questa piccola fortuna.

— Devono essere morti da almeno trent’anni — disse John, il quale aveva staccato ed esaminava uno dei quattro archibugi. — Queste armi non si usano ormai più nella prateria.

— Potrebbero ancora servire?

— Sono ottimi fucili, signor Turner, che possono ancora ammazzare un uomo alla distanza di duecentocinquanta a trecento metri.

«Se gl’indiani verranno, potremo servircene.

«Voi siete stato un uomo veramente meraviglioso per scoprire questo rifugio.

— Date il merito al caso.

— Ed un po’ a voi. Cento persone sarebbero forse passate dinanzi a questo big-tree... Oh!

— Continuate, John.

L’indian-agent, invece di continuare, si era curvato verso il pavimento e si era messo in ascolto facendo cenno ai suoi compagni di non parlare.

— È strano!... — esclamò ad un tratto rialzandosi. — Che rumore è mai questo?

Attraversò la stanza ed andò ad appoggiare un orecchio contro una delle pareti legnose del gigantesco vegetale, poi fece un gesto di stupore.

— È lui che scende!... — esclamò. — Non mi ero ingannato quando guardavo in aria.

«Il mio istinto di vecchio cacciatore è sempre eccellente, malgrado gli anni che mi pesano sul groppone.

— Ma di chi parlate, John? — chiese Harry.

— Del vecchio Jonathan.

— Del grizzly? — chiese Turner.

— È lui che scende dall’albero.

— Toh!... E si affermava che l’orso, diventato adulto, non poteva più arrampicarsi sugli alberi.

— Baie, signor Turner. Anche se sono grossi salgono benissimo per fare delle scorpacciate di pinon.

«Io ne ho ucciso uno che si trovava su un ramo alto una sessantina di metri dal suolo.

«Il briccone ha fatto la sua colazione ed ora scende per fare una buona dormita nel suo palazzo.

— Che troverà chiuso ermeticamente — disse Giorgio. — Non sarà troppo contento il vecchio brontolone.

— Si romperà le unghie inutilmente — aggiunse Harry.

— E ci lascerà, spero, i suoi prosciutti — disse John.

Si era avvicinato ad una delle feritoie ed aveva lanciato uno sguardo al di fuori.

L’apertura si trovava proprio sopra alla porta, a sei o sette metri dal suolo, era quindi facile scoprire l’animale ed anche fucilarlo senza correre nessun pericolo, nel caso che avesse voluto forzare la sua comoda tana.

— Lo vedi? — chiese Harry.

— Non ancora — rispose l’indian-agent — Si vede che scende con precauzione.

«È probabile che ci abbia veduti o fiutati.

— Cerchiamo di abbatterlo, camerata. Sarà una preziosissima riserva per noi se gl’indiani verranno ad assediarci.

— E le pelli-rosse, allarmate dai nostri colpi di fuoco, verranno qui.

— Va’ a prenderlo allora col tuo bowie-knife.

— Non mi sento capace di tanto. Eccolo!... Corpo d’un bisonte!... Che bella bestia!... Sotto il suo pelo vi sono almeno quattrocento chilogrammi di carne.

— E che prosciutti avrà!... — esclamò Giorgie. — Mi pare di assaggiarli di già!...

Tutti si erano precipitati verso la feritoia, la quale essendo tagliata in senso orizzontale invece che verticale, poteva permettere a parecchi occhi di vedere.

Un orso di dimensioni enormi, poichè era lungo più di due metri e mezzo, dal pelame foltissimo ed arruffato, d’una tinta bigio-nerastra, si era arrestato dinanzi alla porta della camera inferiore, mandando dei grugniti poco rassicuranti e digrignando ferocemente i lunghissimi e poderosi denti giallastri.

― Bell’animale!... — esclamò Turner.

― Che non vorrei incontrare di notte da solo a solo. — disse l’indian-agent.

— Sono del vostro parere, John — rispose il campione degli uccisori d’uomini, sorridendo. — Fortunatamente siamo dentro una fortezza assolutamente imprendibile per gli orsi, siano bruni, neri o grigi.

— E se quel bestione riuscisse a sfondare o rimuovere la porta? — chiese Giorgio.

— Faccia pure, anzi... Oh!... Che idea meravigliosa!...

— Che cosa è spuntato di nuovo nel vostro cervello, Turner? — chiese John.

— Sapete che noi siamo dei veri imbecilli?

— Se vi mettete anche voi nel numero si può perdonarvi l’offesa — disse l’indian-agent.

— Anzi io mi metto in prima linea, John, perchè sono stato io che ho avuta la pessima idea di far chiudere la tana.

«È vero che allora io ignoravo che vi fosse qui un altro rifugio.

— Bene, continuate: vediamo se questi quattro imbecilli possono mettersi d’accordo.

— Allora cominciate col trasportare subito quassù i pinon ed i pezzi dei cactus spinosi.

— E poi?

— Poi apriamo la porta e scappiamo quassù ritirando la scala e chiudendo la botola.

— E l’orso?

— Lasciamolo entrare, poveraccio, e riprendere il suo domicilio.

— Così, se gl’indiani giungono, invece di trovare noi si accapiglieranno coll’orso.

— Perfettamente, John.

— Ciò vuol dire che il primo dei quattro imbecilli è diventato il più furbo di tutti — disse l’indian-agent. — Ecco un gran furbo che non lascerà mai la sua capigliatura fra le mani degli Sioux.

«Camerati, sgombriamo dei viveri il nostro magazzino inferiore.

— Una parola, amico — disse Harry. — E come faremo poi a uscire da questa prigione se abbiamo un tale guardiano?

— Lo uccideremo — rispose John — e giudicheremo poi se i suoi prosciutti erano teneri o coriacei.

«I nostri rifles non sono già carichi con palle di burro.

«Andiamo!...

I quattro avventurieri ridiscesero la scala ed in pochi minuti accumularono le loro provviste nel piano superiore.

L’orso intanto, furioso per non poter più entrare nel suo covo, s’accaniva ferocemente contro la porta, cercando di strapparla o di sfondarla.

Grugniva rabbiosamente, mandando di quando in quando dei fremiti sonori somiglianti ai nitriti d’un mulo, e le sue poderose unghie, quantunque dovessero essere smussate, si piantavano profondamente nella corteccia del big-tree.

I quattro avventurieri, terminato il trasporto delle loro provviste, abbastanza abbondanti per nutrirli quattro o cinque giorni, tolsero la sbarra che assicurava la porta, poi risalirono precipitosamente nel piano superiore, ritirando la scala.

Il grizzly che continuava ad accanirsi contro l’ostacolo, nel tentare di ritirare le unghie che aveva affondate nella corteccia piuttosto tenera del big-tree, la strappò facendola cadere a terra. Un grugnito di soddisfazione uscì da quel corpaccio, poi il terribile animale fece la sua entrata nella sua tana andando a coricarsi su un ammasso di foglie secche e di ossami.

— Eccolo contento — mormorò Turner il quale, insieme a John, lo spiava attraverso la botola socchiusa.

Per quanto avesse pronunciate quelle parole a voce bassissima, agli orecchi acutissimi del grizzly non sfuggì quel lieve rumore.

Si alzò manifestando una vivissima inquietudine, alzò la testa villosa e fiutò rumorosamente, a varie riprese, l’aria, dondolandosi comicamente.

Ad un tratto mandò un fremito sonoro e si mise a trotterellare per la tana, rasentando le pareti e disperdendo i mucchi di ossami.

John e Turner non avevano potuto trattenere un gran scoppio di risa.

Il vecchio Jonathan si arrestò di colpo, guardò la botola e si rizzò subito sulle zampe deretane colla speranza di giungere fino alla vòlta e mandò un urlo feroce che si ripercosse lungamente entro la stanza superiore.

.... e mandò un urlo feroce che si ripercosse lungamente...

— Vattene all’inferno!... — esclamò Turner, lasciando ricadere la botola. — Già non riuscirai mai a prenderci.

— Ceniamo — disse Giorgio, a cui l’appetito non mancava mai. — Se il grizzly vuole imitarci si accomodi pure.

La cena purtroppo era assai magra poichè, come abbiamo detto, gli avventurieri non avevano raccolto che dei pinon e per dissetarsi dei gambi di cactus a bocce appena tollerati dal bestiame, quantunque ricchissimi d’acqua.

Rotti però a tutte le vicende e le privazioni della vita, i quattro avventurieri si divorarono i loro pinon, crudi come erano, succhiandoci dietro alcuni gambi di cactus.

Tre o quattro pipate compirono il magro pasto, possedendo ancora un po’ di tabacco. La notte frattanto era calata e la luce era scomparsa dentro la stanzetta.

L’orso pareva che si fosse calmato poichè non si udiva più brontolare. Forse vegliava o forse dormiva tranquillamente in mezzo agli ossami delle sue vittime, certamente con un occhio semi aperto.

Gli avventurieri che avevano portato con loro le coperte di lana, si accomodarono alla meglio coll’intenzione di fare anch’essi una buona dormita.

Agl’indiani non pensavano quasi più. Forse il solo John, la cui capigliatura era minacciata più di quelle dei suoi compagni, si ricordava un po’ vagamente di aver Minnehaha, la sanguinaria Scotennatrice, alle calcagna.

La notte trascorse senza allarmi, cosicchè i quattro avventurieri poterono riposarsi completamente dopo tante fatiche sopportate.

L’orso grigio probabilmente aveva dormito non meno bene di loro, poichè quando ai primi albori Turner sollevò cautamente la botola, lo vide ancora sdraiato in mezzo agli ossami ripiegato su se stesso e colla testa nascosta fra le zampe anteriori.

— Ecco un guardiano assai poltrone che non prenderei ai miei servigi nemmeno per due dollari al mese — disse. — Buon segno però se russa ancora; ciò vuol dire che gl’indiani non hanno ancora scoperte le nostre tracce.

Stava per svegliare i compagni, i quali russavano anch’essi non meno placidamente del vecchio Jonathan, quando uno sparo rimbombò propagandosi sotto la foresta e ripercuotendosi entro il rifugio.

— Satanasso!... — esclamò. — Mi rallegravo troppo presto!...

Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.