< La secchia rapita (1930)
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Canto nono Canto undecimo

CANTO DECIMO

ARGOMENTO

     A Napoli se ’n va la dea d’amore,
e ’l principe Manfredi a l’armi accende.
Al conte di Culagna infiamma il core
Renoppia, che di lui gioco si prende.
Ei d’uccider la moglie entra in umore
con veleno, e sé stesso incauto offende.
Fugge la moglie al campo, e si procaccia
d’amante, e fagli al fin le corna in faccia.


1
     Il carro de la notte era giá fuora
del cerchio che divide Africa e Spagna;
e non dormiva e non posava ancora
il glorioso conte di Culagna.
Va tra sé rivolgendo ad ora ad ora
con quant’onore in campo egli rimagna,
poiché mercé di sua felice stella
l’incantato guerrier tratto ha di sella.
2
     Quindi, pensando a la cagion che spinto
Melindo avea su ’l favoloso legno,
pargli non pur del ricco scudo vinto,
ma de la bella donna esser piú degno.
Gli somministra il naturale istinto
e la ragion del suo elevato ingegno,
che, poiché ’l campo il cavalier gli cede,
d’ogni onor, d’ogni premio il lascia erede.

3
     E su questo pensier vaneggia in guisa
che di Renoppia giá si finge amante,
e le bellezze sue fra sé divisa
cupidamente, e n’arde in un istante.
Or ne’ begli occhi suoi tutto s’affisa,
or negli atti leggiadri, or nel sembiante;
e come lusingando il va la speme,
or gioisce, or sospira, or brama, or teme.
4
     Moglie giovane e bella ei possedea,
ma ogni pensier di lei se n’è fuggito;
e in questo nuovo amor s’interna e bea
tanto, che pargli il ciel toccar col dito.
Cosí la carne giá ch’in bocca avea
su ’l fiume il can d’Esopo un dí schernito
lasciò cader nel fuggitivo umore,
per prender l’ombra sua ch’era maggiore.
5
     Tutta la notte andò girando il conte
le piume senza mai prender riposo;
e Febo giá, con l’infiammata fronte
rimovendo dal ciel l’aer ombroso,
colta l’Aurora avea su l’orizonte
ignuda in braccio al suo Titon geloso;
ond’ella rossa in volto, alzando il petto,
con la camicia in man fuggia del letto.
6
     Quand’il conte levato anch’egli mosse
colá dove Renoppia era attendata,
cantando a l’improviso a note grosse
sopra una chitariglia discordata:
e giudicando che la lingua fosse
di gran momento a intenerir l’amata,
s’affaticava a trovar voci elette
di quelle, che i toscan chiamano prette.

7
     — O, diceva, bellor de l’universo,
ben meritata ho vostra beninanza;
ché ’l prode battaglier cadde riverso,
e perde l’amorosa e la burbanza.
Giá l’ariento del palvese terso
non mi brocciò a pugnar per desianza;
ma di vostra parvenza il bel chiarore,
sol per vittoriare il vostro quore. —
8
     Cosí cantava il conte innamorato
a lei che del suo amor fra sé ridea.
Ma Venere fra tanto in altro lato
le campagne del mar lieta scorrea:
un mirabil legnetto apparecchiato
a la foce de l’Arno in fretta avea;
e movea quindi a la riviera amena
de la real cittá de la Sirena,
9
     per incitar il principe novello
di Taranto ad armar gente da guerra,
e liberar di prigionia il fratello
che chiuso sta ne la nemica terra.
Entra ne l’onda il vascelletto snello,
spiega la vela un miglio o due da terra.
Siede in poppa la dea, chiusa d’un velo
azzurro e d’oro agli uomini ed al cielo.
10
     Capraia a dietro e la Gorgona lassa,
e prende in giro a la sinistra l’onda;
quinci Livorno e quindi l’Elba passa,
d’ampie vene di ferro ognor feconda;
la distrutta Faleria in parte bassa
vede e Piombino in su la manca sponda,
dov’oggi il mare adombra il monte e ’l piano
l’aquila del gran re de l’Oceàno.

11
     Tremolavano i rai del sol nascente
sovra l’onde del mar purpuree e d’oro;
e in veste di zaffiro il ciel ridente
specchiar parea le sue bellezze in loro:
d’Africa i venti fieri e d’oriente
de le fatiche lor prendean ristoro;
e co’ sospiri suoi soavi e lieti
sol Zefiro increspava il lembo a Teti.
12
     Al trapassar de la beltá divina
la fortuna d’amor passa e s’asconde.
L’ondeggiar de la placida marina
baciando va l’inargentate sponde.
Ardon d’amore i pesci, e la vicina
spiaggia languisce invidiando a l’onde;
e stanno gli Amoretti ignudi intenti
a la vela, al governo, ai remi, ai venti.
13
     Quinci e quindi i delfini a schiere a schiere
fanno la scorta al bel legnetto adorno;
e le ninfe del mar pronte e leggiere
corron danzando e festeggiando intorno.
Vede l’Umbrone ove sboccando ei père
e l’isola del Giglio a mezzogiorno;
e in dirupata e ruinosa sede
monte Argentaro in mezzo a l’onde vede.
14
     Quindi s’allarga in su la destra mano,
e lascia il Porto d’Ercole a mancina;
vede Civitavecchia, e di lontano
biancheggiar tutto il lido e la marina.
Giaceva allora il Porto di Traiano
lacero e guasto in misera ruina;
strugge il tempo le torri e i marmi solve
e le machine eccelse in poca polve.

15
     Giá la foce del Tebro era non lunge,
quando si risvegliò Libecchio altiero
che ’n Libia regna, e dove al lido giunge,
travalca sopra il mar, superbo e fiero:
vede l’argentea vela, e come il punge
un temerario suo vano pensiero,
vola a saper che porti il vago legno,
e intende ch’è la dea del terzo regno.
16
     Onde orgoglioso e come invidia il move,
a Zefiro si volge, e grida: — O resta,
o io ti caccierò nel centro dove
non ardirai mai piú d’alzar la testa.
A te la figlia del superno Giove
non tocca di condur: mia cura è questa.
Va’ tu a condur le rondini al passaggio,
e a far innamorar gli asini il maggio. —
17
     Zefiro, ch’assalito a l’improviso
da l’emulo maggior quivi si mira,
ne manda in fretta al suo fratello aviso
che su l’Alpi dormiva, e ’l piè ritira.
Corre Aquilon, tutto turbato in viso,
ch’ode l’insulto, e freme di tant’ira,
che fa i tetti cader, gli arbori svelle,
e la rena del mar caccia a le stelle.
18
     Libecchio che venir muggiando insieme
i due fratelli di lontano vede,
si prepara a l’assalto; e giá non teme
del nemico furor, né il campo cede:
tutte raguna le sue forze estreme,
e dal lido african sciogliendo il piede,
chiama in aiuto anch’ei di sua follia
Sirocco regnator de la Soria.

19
     Vien Sirocco veloce; onde s’accende
una fiera battaglia in mezzo a l’onde.
Si turba il ciel, si turba l’aria, e stende
densa tela di nubi e ’l sol nasconde:
fremono i venti e ’l mar con voci orrende,
risonano percosse ambe le sponde:
e par che muova a’ suoi fratelli guerra
l’ondoso scotitor de l’ampia terra.
20
     Si spezzano le nubi, e foco n’esce
che scorre i campi del celeste regno:
il foco e l’aria e l’acqua e ’l ciel si mesce;
non han piú gli elementi ordine o segno.
S’odono orrendi tuoni, ognor piú cresce
de’ fieri venti il furibondo sdegno;
increspa e inlividisce il mar la faccia
e l’alza contra il ciel che lo minaccia.
21
     Giá s’ascondeva d’Ostia il lido basso,
e ’l Porto d’Anzio di lontan surgea;
quando senti il romor, vide il fracasso,
che ’l ciel turbava e ’l mar, la bella dea:
vide fuggirsi a frettoloso passo
le Ninfe dal furor de la marea;
onde tutta sdegnosa aperse il velo,
e dimostrò le sue bellezze al cielo.
22
     E minacciando le tempeste algenti
e le procelle e i turbini sonanti,
cacciò del ciel le nubi, e gli elementi
tranquillò co’ begli occhi e co’ sembianti.
Corsero tutti ad inchinarla i venti
a le minacce sue cheti e tremanti.
Ella in Libecchio sol le luci affisse;
e mordendosi il dito, irata disse:

23
     — Moro, can, senza legge e senza fede,
t’insegnerò, con queste tue contese,
come si tratta meco e si procede,
e ti farò tornare in tuo paese. —
Quel s’inginocchia e bacia il divin piede,
chiede perdon de l’impensate offese;
e fa partendo in Africa passaggio:
segue la navicella il suo viaggio.
24
     Le donne di Nettun vede su ’l lito
in gonna rossa e col turbante in testa:
rade il porto d’Astura ove tradito
fu Corradin ne la sua fuga mesta:
or l’esempio crudele ha Dio punito
ché la terra distrutta e inculta resta.
Quindi monte Circello orrido appare
col capo in cielo e con le piante in mare.
25
     S’avanza, e rimaner quinci in disparte
vede Ponzia diserta e Palmarola,
che furon giá della cittá di Marte
prigioni illustri in parte occulta e sola.
Varie torri su ’l lido erano sparte:
la vaga prora le trascorre, e vola;
e passa Terracina, e di lontano
vede Gaeta a la sinistra mano.
26
     Lascia Gaeta, e su per l’onda corre
tanto ch’arriva a Procida e la rade:
indi giugne a Puzzòlo, e via trascorre,
Puzzòlo che di solfo ha le contrade.
Quindi s’andava in Nisida a raccorre,
e a Napoli scopria l’alta beltade:
onde dal porto suo parea inchinare
la regina del mar la dea del mare.

27
     Da Nisida la dea spedisce un messo
al principe Manfredi, e ’n terra scende;
e cangia volto, e ’l bel sembiante espresso
de la contessa di Caserta prende.
Il principe e costei d’un padre stesso
nacquero, se la fama il vero intende,
ma di madri diverse; e fur nudriti
per alcun tempo in differenti liti.
28
     Condotti in corte poi fanciulli ancora,
ne l’albergo real crebbero insieme
senza riguardo, infin che venne l’ora
che ’l fior di nostra etá spunta col seme.
Erano gli anni quasi uguali, e allora
de l’uno e l’altro le bellezze estreme;
onde il fraterno amor, non so dir come,
strano incendio divenne, e cangiò nome.
29
     Sospettonne, osservando i gesti e i visi,
il padre; e maritò la giovinetta:
ma i corpi fûr, non gli animi divisi,
e restò l’alma in servitú ristretta.
Or che vede venir con lieti avisi
Manfredi il messaggier da l’isoletta,
cuopre la poppa d’una navicella,
e solo e chiuso va da la sorella.
30
     Trovolla a piè d’una distrutta ròcca,
che passeggiava in un giardino ameno.
Subito scende; e, come Amore il tocca,
corre e l’abbraccia e la si strigne al seno,
e la bacia negli occhi e ne la bocca:
e da la dea d’amor tanto veleno
con que’ baci rapisce e tanto foco,
che tutto avvampa e non ritrova loco.

31
     Volea iterar gli abbracciamenti e i baci,
ma con la bella man la dea s’oppose;
e respignendo l’avide e mordaci
labbia, si tinse di color di rose.
— Frenate, signor mio, le mani audaci
e le voglie, dicea, libidinose;
ché non son questi a gli andamenti, ai cenni
baci fraterni: e udite perch’io venni. —
32
     Il principe ristette: ed ella, poi
che d’Enzio il fiero caso ebbe narrato,
ch’estinto il fior de’ cavalieri suoi,
prigioniero pugnando era restato;
le lagrime asciugando: — Or, disse, a voi
che mio padre in sua vece ha qui lasciato,
tocca mostrar, s’in voi non niente il sangue,
che la destra di Svevia ancor non langue.
33
     Voi che reggete il fren di questo regno,
potete vendicar di nostro padre
e di nostro frateil l’obbrobrio indegno,
armando in terra e in mar diverse squadre.
Né giá piú glorioso o bel disegno,
né piú famose prove e piú leggiadre
poteva in terra o in mar da parte alcuna
al valor vostro appresentar fortuna.
34
     Io, se non fossi donna, andrei con questa
mano a spianar le temerarie mura;
né vorrei che giammai l’iniqua gesta
si vantasse d’aver parte sicura,
se prima non venisse in umil! vesta
con una fune al collo o la cintura
a chiedermi perdono e a consegnarmi
il mio fratello e la cittade e l’armi.

35
     Ah Dio! perché fui donna, o non usai
a l’armi, al sangue anch’io la destra molle? —
Qui sfavillò di sí cocenti rai,
che trafisse il meschin ne le midolle.
Trema il cor come fronda; e tutto omai
fuor di ghiaccio rassembra e dentro bolle:
vorria stender la man, vorria rapire;
ma un segreto terror smorza l’ardire.
36
     Al fin con voce tremula risponde:
— Sorella mia, reina mia, dea mia,
andrò nel foco, andrò per mezzo a l’onde,
e nel centro per voi, s’al centro è via.
Lo scettro di mio padre in queste sponde,
con libero voler, tutto ho in balia:
disponetene voi come v’aggrada,
ché vostro è questo core e questa spada. —
37
     Cosi dicendo apre le braccia e crede
strigner de la sorella il vago petto:
ma l’amorosa dea che ’l rischio vede,
subito si ritira e cangia aspetto.
Ne la forma immortal sua prima riede;
e alzandosi ne l’aria, al giovinetto
versa, al partir, dal bel purpureo grembo
sopra di rose e d’altri fiori un nembo.
38
     — O bellezza del ciel viva immortale,
dove fuggi da me? perché mi lassi?
Né mi concedi almen, che in tanto male
io possa in te sbramar quest’occhi lassi? —
Cosí parlava il giovane reale;
e in tanto rivolgea gli afflitti passi
a l’onda giú dove l’attende il legno,
disegnando d’armar tutto quel regno.

39
     Ma il conte di Culagna avendo in tanto
vista Renoppia uscir del padiglione,
rassettato il collar, la barba e ’l manto
e tiratosi in fronte un pennacchione,
l’era gita a incontrar da un altro canto,
salutandola quasi in ginocchione;
ond’ella instrutta di sue degne imprese,
l’avea chiamato a sé tutta cortese.
40
     E avendo il suo valor molto esaltato,
la dispostezza e’l fior de l’intelletto,
giurato avea di non aver trovato
chi piú paresse a lei degno suggetto
de l’amor suo, quand’ei non fosse stato
in nodo marital congiunto e stretto:
onde il burlar de la donzella avia
posto il meschino in strana frenesia.
41
     Trovollo Titta in un solingo piano,
ch’ei passeggiava a l’ombra d’una noce,
e gía fra sé con la corona in mano
parlando, a passo or lento, ora veloce.
Come egli vide il cavalier romano,
gli si fece a l’orecchia, e a mezza voce,
— Frate, gli disse, per uscir di doglie,
io son forzato avvelenar mia moglie.
42
     A me certo ne spiace in infinito,
ma cosí porta la crudel mia stella. —
Quindi gli narra quanto era seguito,
e quel che detto gli ha Renoppia bella.
Mostra di rimaner Titta stupito,
e lo chiama felice in sua favella:
— Conte, tu se’ nu papa, e t’ajo detto
che no’ c’è che te pozza stare a petto. —

43
     Gli va poscia di bocca ogni pensiero
cacciando a poco a poco, e lo millanta:
ed ei, com’è di cor pronto e leggiero,
si ringalluzza e si dimena e canta.
Gli scuopre de l’interno il falso e ’l vero,
e del disegno rio si gloria e vanta.
Nota Titta ogni cosa, e lo conforta
ch’alcun non saprá mai chi l’abbia morta.
44
     Era Titta per sorte innamorato
de la moglie del conte; e mentre fue
ne la cittá con atti a lei mostrato
l’avea, e con voci a le serventi sue.
Or che si vede il modo apparecchiato
di far che resti il mal accorto un bue,
scrive il tutto a la donna, e in che maniera
il pazzo rio d’attossicarla spera.
45
     Lo ringrazia la donna, e cauta osserva
gli andamenti del conte in ogni parte;
e informa del periglio ogni sua serva,
perché sieno a guardarla anch’esse a parte.
Il conte, fisso giá ne la proterva
sua voglia, tratto avea solo in disparte
il medico Sigonio; e in pagamento
offertogli in buon dato oro ed argento,
46
     se gli prepara un tossico provato,
cui rimedio non sia d’alcuna sorte;
dicendo che di fresco avea trovato
la moglie che gli fea le fusa torte,
e ch’avea risoluto e terminato
di darle di sua man condegna morte.
Lungamente pregar si fe’ il Sigonio,
e al fin gli diè una presa d’antimonio.

47
     Per tossico se ’l piglia il conte; e passa
a Modana improviso una mattina;
saluta la moglier che non si lassa
conoscer sospettosa, e gli s’inchina.
Va scorrendo la casa, e al fin s’abbassa,
per dispensare il tossico, in cucina;
ma la trova guardata in tal maniera
che non sa come fare, e si dispera.
48
     Torna a salir su per l’istessa scala
tutto affannato e conturbato in volto:
e aspetta fin che sian portati in sala
i cibi, e su la mensa il pranzo accolto.
Allora corre, e la minestra sala
de la moglier col cartoccin disciolto,
fingendo che sia pepe; e a un tempo stesso
scuote la peparola ch’avea appresso.
49
     La cauta moglie e sospettosa viene;
e, mentre ch’ei le man si lava e netta,
gli s’oppone co’ fianchi e con le rene,
e la minestra sua gli cambia in fretta.
Mostra che s’è lavata; e siede, e tiene
l’occhio pronto per tutto, e non s’affretta
a mettersi vivanda alcuna in bocca,
che non abbia il marito in prima tocca.
50
     Il conte in fretta mangia e si diparte,
che non vorria veder la moglie morta.
Vassene in piazza ov’eran genti sparte
chi qua, chi lá, come ventura porta.
Tutti, come fu visto, in quella parte
trassero per udir ciò ch’egli apporta.
Egli cinto d’un largo e folto cerchio,
narra fandonie fuor d’ogni superchio.

51
     E tanto s’infervora e si dibatte
in quelle ciance sue piene di vento,
ch’eccoti l’antimonio lo combatte,
e gli rivolta il cibo in un momento.
Rimangono le genti stupefatte;
ed egli vomitando, e mezzo spento
di paura, e chiamando il confessore,
dice ad ognun ch’avvelenato more.
52
     Il Coltra e ’l Galiano, ambi speziali,
correan con mitridate e bollarmeno;
e i medici correan con gli orinali,
per veder di che sorte era il veleno.
Cento barbieri e i preti coi messali
gli erano intorno e gli scioglieano il seno,
esortandolo tutti a non temere
e a dir devotamente il Miserere.
53
     Chi gli ficcava olio o triaca in gola,
e chi biturro o liquefatto grasso.
Avea quasi perduta la parola,
e per tanti rimedi era giá lasso;
quand’ecco un’improvisa cacarola,
che con tanto furor proruppe a basso,
che l’ambra scoppiò fuor per gli calzoni
e scorse per le gambe in su i taloni.
54
     — O possanza del ciel, che cosa è questa?
disse un barbier quando senti l’odore:
questo è un velen mortifero ch’appesta,
io non sentii giammai puzza maggiore.
Portatel via, che s’egli in piazza resta,
appesterá questa cittá in poche ore. —
Cosí dicea: ma tanta era la calca,
ch’ebbe a perirvi il medico Cavalca.

55
     Come a Montecavallo i cardinali
vanno per la lumaca a concistoro,
stretti da innumerabili mortali
per forza d’urti e con poco decoro;
cosí i medici quivi e gli speziali
non trovando da uscir strada né fòro,
urtati e spinti, senza legge e metro
facean due passi innanzi e quattro indietro.
56
     Ma poiché l’ambracane uscí del vaso,
e ’l suo tristo vapor diffuse e sparse;
cominciò in fretta ognun co’ guanti al naso
a scostarsi dal cerchio e a ritirarse;
e abbandonato il conte era rimaso,
se non ch’un prete allor quivi comparse,
ch’avea perduto il naso in un incendio,
né sentia odore; e ’l confessò in compendio.
57
     Confessato che fu, sopra una scala
da piuoli assai lunga egli fu posto;
e facendo a quel puzzo il popol ala,
il portâr due facchini a casa tosto.
Quivi il posaro in mezzo de la sala;
chiamaro i servi, e ognun s’era nascosto,
fuor ch’una vecchia, che v’accorse in fretta
con un zoccolo in piede e una scarpetta.
58
     Giá pria la nuova in casa era venuta,
che ’l conte si moriva avvelenato:
onde la moglie accorta e proveduta
aveva in fretta il suo destrier sellato;
e in abito virile e sconosciuta
con un cappello in testa da soldato
tacitamente giá s’era partita,
e a trovar Titta al campo era fuggita.

59
     A cui fatto saper con lieto aviso
che l’attendea del conte un paggio in sella
per cosa di suo gusto, a l’improviso
l’avea fatto venir dove stav’ella.
Com’egli alzò le luci al vago viso,
tosto conobbe la sua donna bella;
onde s’avventa, e de l’arcion la prende,
e la si porta in braccio a le sue tende.
60
     E baciandola in bocca avidamente,
or la strigne, or la morde, or la rimira;
ed ella in lui, fra cupida e dolente,
le belle luci sue languida gira.
Parve l’atto ad alcun poco decente,
che l’ebbero per maschio a prima mira:
né distinguendo ben dal pèsco il fico,
dicevano di lui quel ch’io non dico.
61
     Stette tutto quel giorno il conte in letto,
tutta la notte e la seguente ancora,
sempre con gran timor, sempre in sospetto
di doversi morire ad ora ad ora;
ond’ebbero gli amanti agio a diletto
di star anch’essi e l’una e l’altra aurora,
giunti a goder de le sciocchezze sue,
discorrendo fra lor com’ella fue.
62
     Giá Titta dal Sigonio intesa avea
la beffa del veleno, e l’avea detta
a la donna gentil, che ne ridea
e godeva fra sé de la vendetta;
disegnando di star, s’ella potea,
col nuovo amante e non mutar piú detta:
poiché questa le par tanto sicura
che sarebbe pazzia cangiar ventura.

63
     Ma il conte poi che fu certificato
dal collegio de’ medici ch’egli era
fuor di periglio, a la campagna armato
uscí per ritrovar la sua mogliera.
Al campo venne: e quivi indizio dato
gli fu del suo caval da la sua schiera,
cui sopra un giovinetto era venuto,
né l’un, né l’altro piú s’era veduto.
64
     Il conte di trovarlo entra in pensiero,
e vuol saper chi ’l giovinetto sia;
e promette gran premio a chi primiero
indizio gli ne porta o gli ne invia.
La mattina seguente uno scudiero
gli dice che ’l caval veduto avia
ne le tende di Titta, e ’l premio chiede:
ma il conte ride e ’l suo parlar non crede.
65
     E manda un uomo suo, ch’a Titta dica
quel che gli fa saper l’accusatore.
Giura Titta che questa è una nemica
fraude per sciorre un sí leale amore:
ma fra tanto si studia e s’affatica
di far tignere il pel del corridore
con un color di sandali alterato,
e di leardo il fa sauro bruciato.
66
     Poi chiama il conte, e fa vedergli in prova
tutti i cavalli suoi cosí al barlume.
Il conte che ’l candor del suo non trova
e che di Titta ciò mai non presume,
si scusa che non gli era cosa nova
de la sua limpidezza il chiaro lume,
ma tace che da lui fuggita sia
la donna che trovar cerca e desia:

e gli giura che un paggio gli ha rubato
il suo caval né sa dove sia gito;
ma se può ritrovarlo in alcun lato,
che ’l tristo ladroncel fará pentito.
Titta, che giá si vede assicurato
comincia a ruminar nuovo partito
di ritenersi ancor la donna appresso,
senza che ne sospetti il conte stesso.
68
     Con lei s’accorda, e trova acqua stillata
da scorza fresca di matura noce;
e ’l bel collo e la faccia dilicata
de la donna e le man bagna veloce.
Si disperde il candore e sembra nata
in Mauritania, lá, dove il sol cuoce:
d’un leonato scuro ella diviene;
ma grazia in quel colore anco ritiene.
69
     Come panno di grana in bigio tinto
ritiene ancor de la beltá primiera,
e nel morto color d’un nero estinto
purpureggiar si vede in vista altera;
cosí di quella faccia il color finto
ritiene ancor de la bellezza vera;
splende nel fosco, e de’ begli occhi il lume
folgoreggia anco al solito costume.
70
     D’una giubba azzurrina ornata d’oro
quindi ei la veste, e le ricopre il seno;
e tutto d’un leggiadro abito moro
l’adorna sí, che non gli piace meno.
Indi la mostra al conte, e dice: — I’moro
per questa ingrata schiava e spasmo e peno;
e a lei di me non cal, né so che farmi;
pregala, conte mio, che voglia amarmi. —

71
     Il conte la saluta in candiotto,
ed ella gli risponde in calabrese.
— Bella mora, ei dicea, deh fate motto
al signor vostro e siategli cortese. —
Ella volgendo a Titta un guardo ghiotto,
sporge la bocca; ed ei con voglie accese
que’baci incontra, e da’ bei labbri sugge
l’alma di lei che sospirando fugge.
72
     Teneva il conte immoto e stupefatto
a gli amorosi baci i lumi intenti;
e gli parea che Titta fosse matto
a sentir per colei pene e tormenti.
Durava quella beffa lungo tratto:
se non che de la giovane i parenti
seppero il tutto e fêr saperlo al Potta,
e subito la tresca fu interrotta.
73
     Il Potta fe’ condur segretamente
la donna fuor del campo: e perché Titta
percosse in quella mena un insolente
birro e gli fu grave querela scritta,
fe’ pigliarlo anche lui subitamente,
e in carcere condur per la via dritta
a la cittá per metterlo in palazzo:
quand’egli cominciò fiero schiamazzo;
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     ch’era «pariente de gliu papa,» e ch’era
baron romano, e gir «bolea en castello».
Ma il buon fiscal Sudenti e ’l Barbanera
giudice criminale e Andrea bargello
gli mostrar con destrissima maniera,
che l’albergo in palazzo era piú bello
e che l’avrian parato e ben fornito;
onde a la fin d’andar prese partito.

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