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CANTO QUINTO
ARGOMENTO
È preso Castelfranco: e con auspici
poco fausti a Bologna il Nunzio giunto,
de’ Bolognesi e dei paesi amici
vede marciar l’esercito congiunto,
che ’l dí seguente addosso agl’inimici
giunge improviso e di battaglia in punto.
E ’l Potta anch’ei da l’espugnate mura
tragge e schiera il suo campo a la pianura.
1
Giá il termine prescritto era passato,
né la piazza Nasidio ancor rendea,
da contrasegni e lettere avisato
che l’esercito amico uscir dovea.
Il Potta che si vide esser gabbato,
ne consultò col re vendetta rea:
e l’alba era ancor dubbia e ’l cielo oscuro,
quando assaltò da cento parti il muro.
2
Rimasero i tedeschi e i cremonesi,
che da Bosio Duara eran guidati,
e la cavalleria de’ modanesi
con loro insegne a la campagna armati.
Il Potta avea de’ suoi gli animi accesi
con premi utili insieme ed onorati;
promettendo a colui ch’era di loro
primo a salir, due mila scudi d’oro.
3
Mille n’avea al secondo e cinquecento
promessi al terzo: onde correa a salire
e a far di suo valore esperimento,
stimulando ciascun la forza e l’ire.
Ma l’inimico in cosí gran spavento
si difendea con disperato ardire,
sicuro omai di non trovar mercede
dopo l’error de la mancata fede.
4
Pioggia cadea da le merlate mura
di saette e di pietre aspra e mortale:
ma con sembianza intrepida e sicura
movea l’assalitor machine e scale.
I mangani al ferir maggior paura
facean da lunge e irreparabil male;
ché subito ch’alcun scopriva il busto,
mastro Pasquin te l’imbroccava giusto.
5
Non credo ch’Archimede a Siracusa
facesse di costui prove piú leste.
Fra gli altri colpi suoi nota la Musa,
ch’un certo Bastian da Sant’Oreste,
sbracato, lo scherma sí come s’usa,
mostrandogli le parti poco oneste:
ed egli tosto gli aggiustò un quadrello
nel fóro a pel de l’ultimo budello.
6
Rinforzossi tre volte il fiero assalto
sottentrando a vicenda ordini e schiere:
e giú nel fosso e su nel muro ad alto
morti infiniti si vedean cadere:
quando il fiero Ramberto ergendo in alto
una scala, di man trasse a l’alfiere
l’insegna, e ’n tanto i suoi con le balestre
disgombravano i merli e le finestre.
7
Sandrin Pedoca e Battistin Panzetta
e Luca Ponticel gli furo appresso;
fu morto il Ponticel d’una saetta
ch’uscì di man di Berlinghier dal Gesso:
ma Ramberto salito in su la vetta
si trovò incontro il capitano istesso,
ch’armato d’una ronca era venuto
correndo in quella parte a dare aiuto.
8
Tosto ch’ei può fermar tra’ merli il piede,
pianta l’insegna; e oppone il forte scudo
a Nasidio, che l’urta e che lo fiede
con la ronca a due man d’un colpo crudo.
L’aspra percossa ogni riparo eccede,
l’armi distrugge, e lascia il braccio ignudo
e ferito a Ramberto, e ’l cor ripieno
di furor e di rabbia e di veleno.
9
A Nasidio s’avventa; e con le braccia
pria ne la gola, indi ne’ fianchi il cigne;
Nasidio ratto anch’ei seco s’abbraccia,
lascia la ronca, e al paragon si strigne:
l’uno di qua, l’altro di lá procaccia
d’atterrare il nemico e lo sospigne;
gli avviticchia le gambe e lo raggira;
or l’urta a destra, or a sinistra il tira.
10
Grida Nasidio che ’l guerrier sia preso
o quivi in braccio a lui di vita casso;
egli di rabbia e di furore acceso,
l’alza su ’l petto e tira in dietro il passo,
e su l’orlo del muro il tien sospeso,
indi si lancia a precipizio a basso:
Gesú chiama per aria in suo sussidio
il discendente del famoso Ovidio.
Giu ne la fossa in loco assai profondo
giaceva a piè de l’assalite mura
una gran massa di pantano immondo
e di fracido stabbio e di bruttura.
Quivi caddero entrambo, e andaro al fondo,
e d’abito mutati e di figura,
tornar senz’altro danno a rivedere
l’almo splendor de le celesti sfere.
12
E di nuovo correan per azzuffarsi,
come due verri d’ira e d’odio ardenti
corron ne la belletta ad affrontarsi
con dispettosi grifi e torti denti:
ma i soldati potteschi intorno sparsi
furon lor sopra a quel fier atto intenti,
e da le man del vincitore altero
trasser Nasidio vivo e prigioniero.
13
Fu condotto Nasidio innanzi al Potta,
che lo fece castrar subitamente
per ricordanza de la fede rotta
e per esempio a la futura gente:
ed a la cima del gran naso a un’otta
con un filo d’acciar fatto rovente
gli fé’ attaccare i testimoni freschi
de’ mal sortiti suoi tiri furbeschi.
14
La bandiera fra tanto era spiegata
che Ramberto al salir trasse con esso,
da Battistino e da Sandrin guardata
e da molti altri che salîro appresso;
ma contesa in quel luogo era l’entrata
da Pinimico stuol sí folto e spesso,
che quivi si facea tutta la guerra,
né si potea calar giú ne la terra.
15
Ed ecco in su la fossa al gran Voluce
improvisa apparir la Dea d’Amore
chiusa d’un nembo d’òr, cinta di luce,
ed infiammargli a la battaglia il core;
preso gli mostra il miserabil duce,
e l’inimico stuol pien di terrore
tutto rivolto a la bandiera alzata,
e la vicina porta abbandonata.
16
Al magnanimo cor basta sol questo,
e l’usato valor dentro raccende:
volge lo sguardo ai suoi soldati presto,
e seco il fior de’ piú lodati prende:
corre a la porta, e ne’ compagni è desto
emulo ardor ch’a gli animi s’apprende;
onde Folco, Attolino e Bagarotto
corrono anch’essi, e fanno a gli altri motto.
17
Egli infiammato di feroce sdegno
sta su la soglia minacciando morte,
e con una bipenne il duro legno
percuote e risonar fa l’alte porte:
mettono gli altri un ariete a segno,
e ’l sospingon con impeto sí forte,
che giá l’imposte e le bandelle sono
tutte allentate, e ne rimbomba il suono.
18
Quei pochi, ch’ivi in guardia eran fermati,
lanciano sassi, e mettono puntelli,
e di paura afflitti e sconcacati
vanno mirando a questi buchi e a quelli;
ma dal fiero cozzar rotti e spezzati
giá cadono le spranghe e i chiavistelli,
e Voluce dai gangheri a fracasso
getta la porta tutt’a un tempo a basso.
19
Come al cader di quella sacra avviene,
ch’ad ogni cinque lustri apre il gran Padre,
quando la gente di lontan se ’n viene
a Roma a riverir l’antica madre;
che non giovan le sbarre e le catene
a trattener le peregrine squadre
ch’inondano a diluvio, e chi s’arresta
lo soffoga la turba e lo calpesta:
20
tale, al cader de le nemiche porte,
l’impetuosa turba inonda e passa;
e di pianto, d’orror, di sangue e morte
ogni cosa al passar confusa lassa:
il feroce e l’imbelle ad una sorte
cade; ogn’incontro il vincitor fracassa:
fugge il vinto e s’appiatta, o l’armi cede,
e s’inginocchia a domandar mercede:
21
ma non trova mercé né cortesia,
e in van s’inchina e in van la vita chiede:
il Fotta vuol che Castelfranco sia
esempio eterno a non mancar di fede.
Furore ha luogo, ogni pietá s’oblia,
veggonsi in ogni parte incendi e prede:
e cade in poca cenere un castello,
di cui non era in Lombardia il piú bello.
22
E giá su le ruine il vincitore
dal lungo faticar stanco sedea,
quand’ecco di lontan s’udí un romore
che rimbombar d’intorno il pian facea.
Venia il campo nemico a gran furore,
che ’l periglio de’ suoi giá inteso avea:
ed era quel che la foresta e i lidi
fea risonar di trombe e corni e gridi.
23
Musa, tu che cantasti i fatti egregi
del re de’ topi e de le rane antiche,
sí che ne sono ancor fioriti i fregi
lá per le piagge d’Elicona apriche;
tu dimmi i nomi e la possanza e i pregi
de le superbe nazion nemiche,
ch’uniron l’armi a danno ed a mina
de la cittá de la salciccia fina.
24
Poscia che gli apparecchi e la contesa
di Bologna la fama intorno sparse,
trasse il desio di cosí degna impresa
quattordici cittá seco ad armarse.
Tremò l’Imperio, e invigorí la Chiesa,
sentí l’Italia in freddo giel cangiarse:
e credo che ’l soldan de’ mammalucchi
ne mandasse ragguaglio al re de’ cucchi.
25
Il Papa, ch’era padre e protettore
de la parte de’ guelfi e de la Chiesa,
avendo udito in Francia il gran romore
e la cagion di sí crudel contesa,
per aggiungere a’ suoi fede e valore,
spedí subito nunzio a quell’impresa
da Vienna un suo domestico prelato,
che monsignor Querenghi era nomato.
26
Questi era in varie lingue uom principale,
poeta singular tosco e latino,
grand’orator, filosofo morale,
e tutto a mente avea sant’Agostino;
ma il Papa non lo fece cardinale,
ché ’n sospetto gli entrò di ghibellino,
dopo ch’ei ritornò di nunziatura,
e perdé la fatica e la ventura.
Nocquegli ancora l’esser padovano,
suddito d’Ezzelin, bench’innocente;
non volendo il Pontefice romano
aver fede ad alcun di quella gente:
ma certo ei fu prelato e cortigiano,
fra gli altri in quell’etá, molto eminente;
e da lo sprezzo d’uom sí saggio e prode
il papa non ritrasse alcuna lode.
28
Egli partí da Vienna in su le poste:
e nel passar de l’Alpi, a un ponte rotto,
il perfido caval per certe coste
lasciò cadersi, e non gli fece motto:
anzi da discortese e bestia d’oste,
stava di sopra e Monsignor di sotto:
onde la nunziatura indi levata
con mal augurio fu mezzo spallata.
29
Quivi ei montò in lettiga: e seguitando
con una spalla fuor d’architettura,
giunse a punto a Bologna il giorno quando
l’esercito uscía fuora a la ventura:
si fe’ porre il rocchetto, in arrivando,
da don Santi, e salí sopra le mura;
dove a l’uscir de la cittá le schiere
chinavano a’ suoi piè lance e bandiere.
30
Et egli con la man sovra i campioni
de l’amica assemblea tutto cortese
trinciava certe benedizioni,
che pigliavano un miglio di paese.
Quando la gente vide quei crocioni,
subito le ginocchia in terra stese,
gridando: — Viva il papa e Bonsignore,
e muoia Federico imperadore. —
31
Ma perché la man destra avea fasciata
e gli benedicea con la mancina,
fu scritto al Papa ch’egli avea mandata
una persona marcia ghibellina.
Or basta, in ordinanza usciva armata
la gente, e prima fu la perugina:
tre mila, che mandati avea la Chiesa
col capitan Paulucci a quell’impresa.
32
Questi di cortegian fatto soldato
disertò gli ugonotti e i calvinisti,
fe’ vermiglia la Schelda, indi passato
in Francia guerreggiò co’ navarristi;
navigò nel Danubio; e al fin voltato
in occidente a piú sublimi acquisti,
fra i monti Pirenei passò in Ispagna,
e riportò per mar guanti d’Ocagna.
33
L’armatura dorata e rilucente
con sopraveste avea cangiante e varia;
e camminava sí leggiadramente,
che parea ch’ei ballasse una canaria:
disperata guidava e altera gente,
che la fortuna amica e la contraria
egualmente disprezza, e si diletta
sol di sangue, di morte e di vendetta.
34
Seguía l’insegna di Milano, e avea
gran gente in su le scarpe e in su le selle,
ch’ovunque il guardo di lontan volgea
rincarava le trippe e le fritelle.
Sei mila pacchiarotti a piè reggea
Marïon di Marmotta Tagliapelle:
mille cavalli avean per capitani
Galeazzo e Martin de’ Torriani.
36
La terza insegna fu de’ fiorentini
con cinque mila tra cavalli e fanti,
che conduceano Anton Francesco Dini
e Averardo di Baccio Cavalcanti.
Non s’usavano starne e marzolini,
né polli d’india allor, né vin di Chianti:
ma le lor vittuaglie eran caciole,
noci e castagne e sorbe secche al sole.
36
E di queste n’avean con le bigonce
mille asinelli al dipartir carcati,
acciò per quelle strade alpestre e sconce
non patisser di fame i lor soldati:
ma le some coperte in guisa e conce
avean con panni d’un color segnati,
che facean di lontan mostra pomposa
di salmeria superba e preziosa.
37
Ma piú di queste numerosa molto
la quarta schiera e bella in vista uscia.
La gran donna del Po tutto raccolto
quivi di sua milizia il fiore avía.
La ricca gioventú superba in volto,
di porpora e di fregi ornata gía:
fiammeggia l’oro, ondeggiano i cimieri,
passano i fanti armati e i cavalieri.
38
Tre mila i cavalier sono, e due tanti
premon col piè de la gran madre il dorso:
Maurelio Turchi è il capitan de’ fanti,
e de’ cavalli il Bevilacqua Borso.
Ma splende sovra questi e sovra quanti
vengono di Bologna al gran soccorso,
il magnanimo cor di Salinguerra,
che fa del nome suo tremar la terra.
39
Occupata di fresco avea Ferrara
Salinguerra, e nemico era a la Chiesa,
ma i Petroni l’avean solo per gara
tratto con larghi doni in lor difesa.
Il Nunzio che sapea la cosa chiara,
tenne sopra di lui la man sospesa;
lasciò passarlo e poi segnò la croce:
ma se n’avide e rise il cor feroce.
40
Ha seco il fior de la Romagna bassa,
che volontaria segue i segni suoi;
Lugo, Bagnacavallo, Argenta e Massa,
Cotognòla e Barbian madri d’eroi.
Questa gente con l’altra unita passa,
ma sua chiara virtú la scevra poi;
è ’l capitan, che la conduce a piede,
Faceo Milani, uom d’incorrotta fede.
41
Ravenna e Cervia sotto una bandiera
seguono i ferraresi a mano a mano,
di lance e spiedi armate a la leggiera;
e Guido da Polenta è il capitano.
Di Cervia sol la numerosa schiera
potea ingombrar per molte miglia il piano,
se non spargeano l’aria e ’l sito immondo
i cittadini suoi per tutto il mondo.
42
Passano in ordinanza i fanti armati,
poscia di cavalier segue un drappello;
due mila a piè, trecento incavallati
(vocabol fiorentino antico e bello).
Va pomposo il signor de’ ravennati
sopra un nobil corsier di pel morello,
stellato in fronte, che col piè balzano
par che misuri a passi e salti il piano.
43
Rimini vien con la bandiera sesta:
guida mille cavalli e mille fanti
il secondo figliuol del Malatesta,
esempio noto agl’infelici amanti.
Il giovinetto ne la faccia mesta
e ne’ pallidi suoi vaghi sembianti
porta quasi scolpita e figurata
la fiamma che l’ardea per la cognata.
44
Halli donata al dipartir Francesca
l’aurea catena a cui la spada appende;
la va mirando il misero, e rinfresca
quel foco ognor che l’anima gli accende:
quanto cerca fuggir tanto s’invesca,
e ’l suo cieco furore invan riprende,
ché giá su la ragione è fatto donno,
né distornarlo omai consigli il ponno.
45
— Perché, donna, dicea, di questo core,
legarmi di tua man di piú catene?
Non stringevano assai quelle, onde Amore
de le bellezze tue preso mi tiene?
Ma tu forse notasti il mio furore,
dissimulando il mal che da te viene:
furore è il mio, non nego il mio difetto;
ma mi traesti tu de l’intelletto.
46
Tu co’ begli occhi tuoi speranza desti
a la fiamma d’amor viva e cocente,
che sfavillar da questi miei scorgesti
e chiederti pietá del cor languente.
Ma, lasso, che vo io torcendo in questi
vani pensier l’innamorata mente,
e sinistrando il caro pegno amato,
che da sí nobil petto in don m’è dato?
47
Bella de la mia donna e ricca spoglia
che donata da lei meco te ’n vieni,
acciò che dal suo amor non mi discioglia
e mi leghi in piú nodi e m’incateni;
tu sarai refrigerio a la mia doglia,
tu sarai nuovo pegno a le mie speni. —
La bacia e la ribacia in questi accenti,
e va seco sfogando i suoi tormenti.
48
Passa il giovane amante: e dopo lui
la gente di Faenza arriva e passa.
Tutti son cavalier, fuora che dui
staffieri a piè del capitan Fracassa.
Del buon sangue Manfredo era costui,
onor di quell’etá cadente e bassa;
secento ha seco, e cento, i piú garbati,
di maiolica fina erano armati.
49
Indi Cesena vien sotto l’impero
di Mainardo d’Ircon da Susinana,
che s’è fatto signor di condottiero
di gente disperata empia e scherana.
Ottocento pedoni ha seco il fero,
usati a vita faticosa e strana;
non ha cavalleria, ma i fanti sui
vagliono piú ch’i cavalieri altrui.
50
La nona squadra fu de gl’imolesi
che da Pietro Pagani eran condotti:
mille e cento tra fanti e banderesi,
saccomanni, briganti e stradiotti.
Dopo questi venieno i forlivesi,
da gli Ordelaffi in servitú ridotti;
Scarpetta di condurgli ebbe l’onore,
che de gli altri fratelli era il maggiore.
51
Forlimpopoli segue, allor cittade
non men de le vicine illustre e degna.
Sinibaldo, il fratel minor d’etade,
regge la schiera sua sott’altra insegna.
Sono ottocento armati d’archi e spade;
mille son gli altri; e vanno a la rassegna
distinti in guisa, che distinta splende
la gara che fra lor gli animi accende.
52
Con la gente di Fano a tergo a questa
Sagramoro Bicardi il nunzio inchina,
e guida mille fanti a la foresta,
usati a corseggiar quella marina.
A lo scettro ubbidian del Malatesta
Pesaro, Fossombruno e la vicina
Senigaglia: e passâr con la bandiera
di Paulo dianzi entro la sesta schiera.
53
Poiché fu di Romagna il fior passato,
ecco il carroccio uscir fuor de la porta,
tutto coperto d’òr, tutto fregiato
di spoglie e di trofei di gente morta.
Lo stendardo maggior quivi è spiegato:
e cento cavalier gli fanno scorta,
fra gli altri, di valor chiaro e sovrano;
e Tognon Lambertazzi è il capitano.
54
Dodici buoi d’insolita grandezza
il tirano a tre gioghi; e di vermiglia
seta hanno la coperta e la cavezza,
le sottogole e i fiocchi in su le ciglia.
Il pretor di Bologna in grande altezza
sopra vi siede, e intorno ha la famiglia,
tutta ornata a livrea purpurea e gialla,
con balestre da leva e ronche in spalla.
55
Nomato era costui Filippo Ugone,
brescian di quei da la gorgiera doppia;
e di broccato indosso avea un robone,
che stridea come sgretolata stoppia.
Secondavano il carro e ’l gonfalone
quattrocento barbute a coppia a coppia,
co’ cavalli bardati in fino a terra,
ch’avea mandate Brescia a quella guerra.
56
Seguiva il battaglion dopo costoro
de’ Petronici fanti e l’apparecchio.
Eran vintisei mila; e ’l duca loro,
il buon conte Romeo Pepoli vecchio,
avea l’armi d’argento a scacchi d’oro
fregiate, e Braccalon da Casalecchio
col braccio manco e con la spalla destra
gli portava lo scudo e la balestra.
57
Finita di passar la fanteria
passarono i cavalli in tre squadroni,
guidati da Bigon di Geremia,
ch’era in Bologna, in quell’etá, de’ buoni;
e da due figli del Malvezzo Elia,
Perinto e Periteo, che fra i campioni
del petronico stuol piú illustri e chiari
risplendean gloriosi e senza pari.
58
Usciti in armi a la campagna quanti
Petroni e romagnoli avea la terra,
marciâr le schiere; e sette miglia avanti
presero alloggio al solito di guerra.
Indi tosto ch’ai re de’ lumi erranti
le finestre del ciel l’alba diserra,
al suon di mille trombe al mattutino,
fresco tornò l’esercito in cammino.
59
Né molto andò che da diversi intese
la nuova, che temea, di Castelfranco;
tosto le squadre in ordinanza stese
per giugner sopra l’inimico stanco.
Il destro corno Salinguerra prese,
ritennero i Petroni il lato manco,
presaghi ch’il valor tedesco e sardo
dovea quivi pugnar col re gagliardo.
60
Con Salinguerra a destra i fiorentini
giunsero l’ordinanze e i milanesi,
e la squadra con lor de’ perugini,
e la cavalleria de’ riminesi:
il signor di Ravenna e i faentini,
Fano, Imola, Cesena e i forlivesi,
Pesaro, Fossombruno e Sinigaglia,
il mezzo ritenean de la battaglia.
61
Il carroccio restò, com’era usanza
tra i bolognesi, appo il sinistro corno,
con molti cavalier di gran possanza
e gente a piedi e machine d’intorno.
Indi si mosse il campo in ordinanza;
e giunse, che drizzava al mezzo giorno
Febo i cavalli, a l’inimico a fronte,
rintronando di gridi il piano e ’l monte.
62
Da l’altra parte i Gemignani usciti
di Castelfranco a la battaglia in fretta,
col magnanimo re de’ sardi uniti
fermar l’insegne a tiro di saetta:
e posti in fronte i piú feroci e arditi,
slargaro i fianchi a l’ordinanza stretta,
per non esser rinchiusi e circondati
dal numero maggior di tanti armati.
63
A manca man, dove un torrente stagna,
con quattro mila suoi mangiafagioli
stava Bosio Duara a la campagna;
né seco aveva i cremonesi soli,
ma quanti scesi giú da la montagna
eran mazzamarroni in vari stuoli:
e la cavalleria del buon Manfredi
copriva i fianchi de la gente a piedi.
64
Ma incontro a l’austro era nel destro corno
la bandiera real d’Enzio spiegata,
e Garfagnana seco, e quivi intorno
la milizia del pian tutta schierata.
Regiamente pomposo era quel giorno
di sopravesta bianca e ricamata
d’aquile d’oro il re, con un cimiero
di piume bianche, e sopra un gran corsiero.
65
Diciannov’anni il giovane reale
non compie ancor, ed è mezzo gigante.
Bionda ha la chioma: e ’n tutto il campo eguale
non trova di valor né di sembiante.
Se maneggia destrier, s’avventa strale,
se move al corso le veloci piante,
se con la spada o con la lancia fiede,
sia in giostra o sia in battaglia ogni altro eccede.
66
Giva intorno esortando in ogni lato
a ben morir que’ poveri villani.
Ma il Potta in mezzo a la battaglia armato
d’ira e di rabbia si mordea le mani
di non trovarsi allor Gherardo a lato:
e consegnando a Tomasin Gorzani
i Gemignani a piè, con cambio secco
in luogo del coltel mettea uno stecco.