< La sifilide
Questo testo è completo.
Introduzione Libro II

DELLA SIFILIDE

OSSIA

DEL MORBO GALLICO

POEMA

DI GIROLAIO FRACASTORO

A PIETRO BEMBO

LIBRO I.

 
Quai varii casi, e germi, un morbo strano,
E non pria visto unquanco, abbian recato;
Morbo, che a’ nostri dì per tutta Europa,
E le città d’Asia, e di Libia in parte,
5Incrudelì; nel Lazio poi, dei Galli
Per l’empie guerre, irruppe, ond’ebbe il nome;
E qual cura, e d’aita uso comporti,
La grande arte dell’uom negli aspri eventi,
E dai Celesti i doni conceduti,
10Quinci a cantar, e le cagioni ascose
Per i campi a cercar del vasto Olimpo,
Comincerò: come gentile amore
Di novità m’invita, e i placidi orti
Di Natura, e i portenti aman le Muse.
15Bembo, d’Ausonia chiaro onor, se mai
Leon t’allenti dei consigli magni
L’alta mole, ond’El regge il mondo tutto,
E darti alquanto ami a le dolci Muse:
Quest’opra non spregiar, nè la fatica
20Medica, qual che sia. Di tale Apollo

Degnossi; ed anco lievi cose àn pregio,
Che in ver sott’esto tenue vel s’asconde
Grande origin di fati, e di Natura.
Urania tu che astri e cagion conosci,
25E le plaghe, e del ciel gli effetti varii,
(Così mentre che scorri il puro Olimpo,
E ne misuri le lucenti stelle,
Tutte t’applaudan con divin concento)
Dea, vien meco a scherzar fra l’ombre chete,
30Ve’ dolci spiran l’aure, e i mirti spessi,
E risponde dai cavi antri il Benaco.
Narra quai cause, o Dea, da tanta etade
Diero sì strana lue? Forse condotta
Dal mar occiduo a noi sen venne, quando
35Eletta gioventù dal lido Ibero
Sciolse, l’ignoto mar tentando ardita,
A cercar terre in altro mondo poste?
Poi ch’è fama che eterno il morbo infetti
Ognor quei siti per maligno influsso
40Di ciel, vagando, e la perdoni a pochi.
Or crederem, che del commercio a colpa
Tal ne venisse lue, che, lieve in prima,
A poco a poco indi acquistando forze,
E pasco, s’espandesse in ogni terra?
45Spesso così, se a caso una favilla
Cade da lume in su le stoppie, e in campo
Riman negletta dal pastor, serpeggia
Piccola e tarda sul principio, e poi
Cresciuta s’erge, e vincitrice invade
50Le messi, i solchi, il vicin bosco, e al cielo
Vibra le fiamme: crepitando stride
Di Giove la foresta, e l’aria e i campi
Splendono intorno. — Ma così non déssi
Creder, se merta fè quanto vedemmo.
55Venuta d’oltremar certo non lice

Stimar tal peste, e noi sappiam che molti
Fuor di contatto alcun questa medesma
Lue spontanea a patir furono i primi.
Ma più correr tant’orbe una sol peste
60E in breve, e a un tempo, non avria potuto.
Ve’ i popoli del Lazio, e quei che i paschi
Del Sagra erbosi, e i boschi Ausonii, e cole
Di Puglia il suol: guarda ove corre il Tebro,
E ve’ il Po corre al mar con fiumi cento,
65E d’onde cento città chete irriga.
Non vedi come a un tempo sol la peste
Fiera tutti ne trasse a sorte pari?
Ch’anzi è fama, non pria d’allor gli esterni
Esserne stati infetti, e non gli Iberi,
70Osi solcar per mar ignoto, averla
Contratta pria di lor cui parte il mare,
L’alta Pirene, il Ren bicorne, e l’Alpe;
O pria di lor cui la fredd’Orsa agghiada.
Voi pur, Cartaginesi, al tempo istesso
75E la sentiste voi che il lieto Egitto,
E mietete pel Nilo i campi opimi,
E le palme Idumee. Ciò vero essendo,
Alta più dunque e più riposta causa
(S’i’ non erro) qui v’ha d’origin grave.
80E pria, nell’alto ciel quanto ed in terra,
E nel mar vasto la natura edúca,
Non tutto con egual modo procede.
Spesso e frequente appar quanto da tenui
Sorge primordii, e per contrario rade
85E a certi luoghi circoscritte, e tempi
Si manifestan cose, che principio
Àn più forte e riposto, ed altre in luce
Non escon fuor da fitta notte, pria
Che scorrano mill’anni e larghe etadi.
90Tanto stan giunti i genitali semi!

Dunque poichè non una i morbi tutti
Àn dal nascer cagion, la maggior parte
Facil mostra principio e nascimento;
Altri emergon più radi, e lungamente
95L’ardue a vincer cagioni, e il fatto arcano
Durano, e l’alte a superar tenèbre.
Così l’elefantiasi al cielo ausonio
Lungamente fu ignota, ed il lichene
Che quei del Nilo, e i lor vicini, opprime.
100Di spezie è tal la dira lue, che or ora
Uscita alfin dalla caligin atra
Si trasse, e a’ suoi natali infranse i ceppi.
La qual però (scorrendo eterno il tempo)
È da stimar sovente in terra vista,
105Benchè sin ora, nè di nome, nota
Fosse tra noi, da quando tutte cose
L’età remota involve, e i nomi strugge,
Nè viddero degli avi le memorie
Tardi i nepoti. Pur nasce, ed è nota,
110Nell’ampio oceano occidental fra quella
Gente ch’abita l’orbe or or scoperto:
Tanto per varïar d’anni e di cielo
E principii e ragion mutan di cose;
E il mal, che l’aer ivi, e la terra acconcia,
115Da sè genera, a noi qui tardo addusse
Corso d’età. Di che se brami tutte
Saper mai le cagion, pria guarda intorno
Quante infettò città, quanto di mondo.
Veggendo allor di tanta tabe i germi
120Non poter della terra, e non del mare
Capire in sen, forza ti fia per certo
Stimar posta del mal la sede prima
Nello stesso aër, che sparso ovunque intorno
Penetra i corpi tutti in ogni parte,
125Di tai pesti a infettar uso i viventi.

E a tutte cose in ver principio è l’aere:
Ei gravi spesso all’uomo i morbi apporta,
Nato nei molli corpi in mille modi
A infracidire, e a pigliar presto, e i presi
130Mali a recare. — Or come abbia il contagio
Preso, e il tempo mutar chè vaglia, apprendi.
Prima il nitido Sole e gli astri tutti
Scuotono, e a mutar dansi e cielo e terra,
E il liquid’aere, e come anche su in cielo
135Cangiar le stelle e corso e sedi, al pari
Gli elementi quaggiù piglian pur essi
Aspetti varii. Or vedi allor che all’Ostro
Piegò i presti destrieri il sol d’inverno,
E basso più vede il nostr’orbe, dura
140Per gel farsi la bruma, il suol cosparso
Di pruina, ed in ghiaccio i fiumi stretti.
Se poi vicino al Cancro alto ci guarda,
Boschi arde, asseta prati, e in polverosi
Campi squallor piglia l’estate; e certo
145Lo splendor della notte, l’aurea Luna,
Cui serve il mare ed ogni umor, e il grave
Astro Saturnio, e quel di Giove all’orbe
Più mite, e Cipria bella, e l’igneo Marte,
E l’altre stelle mutano pur esse
150Con moti strani gli elementi ognora:
E più se molte insiem congiunte sieno,
O segnino altre vie con vario corso.
E ciò dopo molt’anni, e molti giri
Del ciel rapido avvien, volgendo i fati
155Al cenno degli Dei: ma quando accada,
E maturinsi i tempi e i dì prefissi,
Quai casi ai salsi mari, e ai campi eterei,
Quai sovrastano al suol! Qui tutto è nube
Che in ciel s’addensa, e lo distempra in pioggia,
160Onde travolti a precipizio i fiumi

Dagli alti monti, i boschi seco, i sassi
Seco trarran gli armenti: urtando forte
O il padre Gange, o il Po torbido, sopra
Tetti e boschi, fia pari al mar sonante.
165L’estati altrove fien cocenti, e anch’esse
Sugli arsi fonti gemeran le Ninfe,
O i venti tutto inverdiranno, o chiusi
Scuoteran l’orbe, e le città turrite.
E dì forse v?rrà, dei fati al cenno
170E di Natura, in cui non sol la terra
Or colta andrà dal mar coperta, o nuda;
Ma il Sol medesmo — (e fia chi ’l creda?) — nuovo
Prenderà corso, e il muterà pur l’anno
Inusato calor, freddi inusati
175Verranno, e un cotal dì nuovi animali
Darà al mondo, e da sè fere ed armenti
Spirto trarranno dall’origin prima.
Forse e maggiori osa produr la terra
Darà Enceladi e Cei, col gran Tifeo,
180Presti i Numi a cacciar dal patrio cielo,
E svelto impor l’Ossa al nevoso Olimpo.
Locchè veggendo, è nulla a tempo certo
Guasto l’etra veder per morbi nuovi,
E nuove pesti da stelle prefisse,
185Egro l’uomo patir per lunghe etadi.
Due secoli passar da poi che Marte
Coll’infausto Saturno i rai cocenti
Commisti in orïente ed in ira i campi
Inaffiati dal Gange, arse una febbre,
190Che (o Dio!) sputo di sangue, ansando il petto,
Dèsto, morte affrettava al quarto giorno.
Cotal morbo agli Assirii e i Persi, e quelli
Che beon Tigri ed Eufrate, a tempo breve,
Colse, e l’Arabo ricco, e il molle Egizio;
195Indi i Frigi, e oltremar miseramente

Il Lazio, e crudo Europa tutta invase.
Tu dunque meco a veder vien girarsi
In sé l’etra costante, e le superne
Sedi, e le stelle ardenti, e nota quale
200Fosse lo stato lor, quai segni desse,
Che cosa abbia predetto il Cielo a noi.
Forse che in ciò tutta vedrai del nuovo
Morbo la causa, e di cotanto evento.
Guarda dal vasto Olimpo ov’egli il Cancro
205Veglia all’ardenti porte, a branche aperte.
Quindi gli orridi aspetti, e quindi i varii
Mostri vedrai dei morbi, e quivi solo
Tutti gli ardenti rai degli astri uniti
Congiurate vibrar fiamme per l’etra.
210Fiamme cui da lontan, della Sirena
Dall’alto avel, vide l’antiquo Vate,
Cui la divina Urania apprese tutte
Le sedi eteree, ed il futuro, e disse:
Salvate, o Numi, le infelici terre;
215Veggo inusata errar tabe che il cielo
Infetta; a guerre inique Europa in preda,
E correr sangue i campi ausonii. — Ei disse,
E i suoi presagi consegnò allo scritto.
Usan gli Dei, come percorso à il Sole
220Certo giro d’età, che Giove assegni
I fati, apra il futuro, e quanto deggia
Terra e cielo aspettar. Tal tempo urgendo
A’ nostri dì, Giove, de’ Numi il padre
E delle cose, a sè chiamò compagni
225Saturno e Marte nell’oprar. — Dischiude
Delle porte le soglie bipatenti
Il Cancro ai Numi, che dei fati àn cura.
Presto Marte guerrier fra tutti in armi
E per foco lucente, il petto colmo
230Di vendette e di guerra, al sangue anela.

Giove, placido Re, su d’aureo cocchio
Vien dopo, equo ad ognun, se assenta il fato.
Ultimo, e tardo per etade e lunga
Via, giunge il Veglio, che à la falce, e sente
235Antico incontro al figlio, cui ricusa
Egli obbedir, l’odio, onde spesso addietro
L’orme volge, e minaccia indispettito.
Ma Giove, da quel trono u’ s’erge ei solo,
Apre i fati e il futuro, e molto i mali
240Della terra infelice egli compiagne,
Le guerre, i casi umani, le rovine
Degli imperi e le prede, e a morte schiuse
Le vie; ma più l’incognito contagio
Di mal nuovo, cui l’uom domar non puote.
245Assentir gli altri Dei; tremò l’Olimpo,
E l’aer tocco da novelli influssi
L’aeree piagge a poco a poco, e il vano
Infettarsi del ciel, donde inusata
Tabe pel cielo si disperse ovunque.
250Sia che, molli astri coll’ardente sole
Congiurando, traesse ignea una forza
Da terra e mar vapori, che, commisti
Ai venti lievi, esto novel contagio
Raro a veder recassero; ossia ch’altro
255Sceso dall’etra corrompesse ogni aura:
Sebben; ned erro, arduo egli è dir quel ch’opri,
E con qual norma, il ciel, certe di tutto
Cause cercando; che talor lunghi anni
Differisce gli effetti, e meschia in tutto
260(Donde l’error) le sorti ai casi varii.
Or via; ciò soprattutto apprendi: strana
Dei contagi e sì varia esser natura,
Che l’aer talvolta i soli alberi offese
E i molli germi e i fior: talora tolse,
265Stento d’un anno, seminati e liete

Messi; ruggine scabra i gambi invase,
E diè la madre terra infetti i semi.
Soli talora gli animali, e d’essi
O molte, o qualche spezie, ebberne pena.
270Tal maligna stagione io pur ricordo,
E tal per Austro umido Autunno, in cui
Sol le capre perian: lieto il pastore
Le traea dalle stalle ai paschi, e mentre
Ei cantava securo all’ombra densa,
275Molcendo il gregge coll’umil zampogna,
Irrequïeta ecco una tosse alcuna
Prenderne, e morir tosto: a salto spinta
Ruinoso, versando il fiato estremo,
Moribonda cadea fra le compagne.
280A primavera quindi, e alla seguente
State ria febbre la belante greggia
(O stupor!) tutta quasi a rapir venne.
Son dell’infetto ciel varii cotanto
E germi, e spezie, e il numero a vicenda
285Tra cose mosse, e tra moventi, è fisso.
E non vedi la lue, benchè sien gli occhi
Molli, ed esposti più che il petto anelo,
Ficcarsi in fondo del polmone? — È l’uva
Molle dei pomi più, pur non per essi
290Guastasi, e l’uva stessa offende l’uva.
Che forze qui, quivi alimento manca,
Gli indugi altrove ànno influenza, e i pori
Or troppo fitti, or troppo radi, anch’essi.
Nei contagi poichè dunque sì varia
295Natura e spezie, e in modi portentosi
I germi ancor, tu ben t’affisa in questo
Che origine à celeste, ed inusato,
Quanto ammirando, apparse. Ei non corruppe
Del mar i muti abitator, non belve
300Pei boschi erranti, non augelli o bovi

Non gregge, non destrier; ma l’uom fra tutti,
Forte di mente, e ne pasceo le membra.
Nell’uomo poi quanto à di crasso il sangue
La turpissima assalse, dalle parti
305Più molli a sè traendo un pingue pasto.
Tai norme procedean fra morbo e sangue:
Or tutte io dir le affezïoni e i segni
Vo’ della peste rea: così mi doni
Favor la Musa, e tal difesa Apollo,
310Signor dei carmi e dell’età lontane,
Ch’aggian le mie memorie eterna vita.
Forse ai nostri nepoti e’ fia che giovi
Aver appreso di tal peste i segni.
Che dei fati al voler, gli anni volgendo,
315Tempo verrà, che in notte atra sopita
Anco morrà; dopo cent’anni e cento
La stessa rivedrà quindi le stelle,
E fia nuovo stupor d’età venture.
Mirabil era in pria, che il morbo appreso
320Certi spesso di sè segni non desse;
Che già di Luna empiuto un quarto corso,
E sebben entro penetri una volta,
Tosto per questo e’ non si mostra, e occulto
Cova, finchè si nutra e pigli lena.
325Da insolito torpor gravato intanto
E da spontanea languidezza vinti
Pigri e più tardi si moveano all’opre.
Anche il color natio degli occhi e spento
Cadea il color della non lieta fronte.
330Nata la carie fra pudende turpi
Coll’inguine rodeale invitta e lenta.
Feansi più chiari poi del morbo i segni:
Perchè, come fuggia del puro giorno
L’alma luce, e le tristi ombre notturne
335Cadeano, e quel calor, che suole innato

Addentrarsi la nolle, avea fomento
Tolto all’estreme parti; allor le doglie
Fiere prendeano ascelle, e braccia, e polpe.
Che la tabe, com’era entro alle vene
340E i nutritivi umori avea macchiato,
A separare il mal Natura avvezza
Fuor dal corpo spignea la parte infetta,
E perchè tarda per crassizie ell’era,
Tenace e lenta uscendo, s’attaccava,
345Nè poca, ai membri ed ai lacerti esangui:
Stesa ai nodi indi fiero un duol recava.
Pur più presta ad uscir la sottil parte
Feria la prima cute, e i membri estremi.
Tosto invadean pustule informi il corpo,
350E fean turpe la faccia, orrendo il petto.
Nuova specie di mal; punta di ghianda
Rassembrava la pustula, di crassa
Marcia rigonfia, ch’indi a poco rotta
Molta sanie grondava, e muco, e tabe.
355Ch’anzi scavando, e con celarsi in fondo,
Poscia miseramente i corpi, e spesso
Arti di carne brulli, e squallid’ossa
Io stesso vidi, e bocche in sozzi modi
Squarciate, che metteano un fil di voce.
360Come stillar dall’umida corteccia
Suol ciriegio o di Fille il tronco infausto
Pingue licor, che in lenta gomma indura:
Suole così da questa peste un muco
Correr pel corpo, che s’addensa in callo,
365Onde alcun, sospirando il fior degli anni
E sua beltà, visti con guardo bieco
I membri informi, e il gonfio viso, i Numi
Misero! chiamò spesso e gli astri crudi.
Dolci sonni notturni intanto lassi
370Tutti traeano gli animali in terra;

Ma quïete per essi e sopor nullo:
Odïata sorgea l’alba, e nimica
Della notte e del giorno avean l’imago.
Cerere in nulla, e in nulla i don di Bacco
375Loro valean: non dolci e in copia i cibi,
Non di città piaceri, agi di villa,
Benchè nitide fonti, e Tempe amene,
E cercasser sui monti aure tranquille.
E preci sparse, ed arsi incensi ai Numi
380Fur anco, ornate l’are a ricchi doni:
Ma non mosser gli Dei preghiere e doni.
Dei Cenomani io stesso, io mi rammento,
Ve’ con onda Sebina Oglio trascorre
I pingui paschi, insigne aver veduto
385GIOVANE il più felice, ed in Ausonia
Illustre più, di pubertà sul fiore,
Per auro ed avi, e per beltà potente,
Cui studio era frenar destrier focosi,
O cinger l’elmo, o sfolgorar tra l’armi,
390E in dura lotta avvalorar le forze,
E cervi preoccupar, dar caccia a fere.
Le fanciulle del Pò, le Dee dell’Oglio
Lui bramaro, e le Dee delle foreste,
E della villa le fanciulle: tutte
395Ne desïar le nozze. — Alcuna forse
Da lui negletta, i Numi, e non invano,
Mosse a punirlo; ed ei, nulla temente
E di sè baldo, sì ria peste incolse,
Che più crudel non fia, nè fu giammai.
400A poco a poco allor sparve quel fiore
Di coraggio e di età; squallida strinse
La tabe gli arti — (orrendo a dirsi!) — e l’ossa
Maggiori si gonfiar per tumor sozzi.
Dei che pietà! Deformi ulceri i vaghi
405Occhi, e l’amor pascean dell’alma luce:

Rôse acre umor le nari; e così alfine
A tempo breve l’infelice l’aure
Odïate lasciò. — L’Alpi vicine,
E i vaghi fiumi il piansero, e dell’Oglio
410Le Dee, le Ninfe Eridanine, e quelle
Della villa, e le Dee dei boschi, e il lago
Sebin lo pianse amaramente. — Adunque
Cotal peste mescea crudo Saturno
Per l’ampie terre, e Marte al par crudele
415Empie sorti aggiungea; che d’essa lue
Coll’apparir, cred’io, tutte sventure
Vaticinar le dire Furie a noi,
E tutti i guai dal fondo imo e dall’atra
Palude i laghi vomitar d’Averno
420E peste, e orribil fame, e guerra, e morte.
Patrii Numi di cui posa in tutela
Italia, o tu del Lazio, o tu Saturno
Padre, e che tanto mal mertaro i tuoi?
Che ci resta a soffrir d’aspro e di grave?
425Chi mai s’ebbe sì avverso il ciel? Tu prima
O Partenope narra i danni tuoi,
Le rapine, i Re spenti, e i tuoi cattivi.
Forse dirò la strage infanda, e il sangue
Franco ed Italo sparso in lotta pari,
430Quando sanguigno, e d’uomini e cavalli
Corpi estinti traendo, ed elmi, ed armi,
All’Eridano in sen correva il Taro?
E te di stragi nostre Adda spumante,
Te lo stesso Eridan padre infelice
435Quinci non molto al seno accolse, e teco
Pianse, e ti diè d’amiche onde conforto.
Povera Ausonia! ecco il valor tuo prisco,
E a che l’impero tuo Discordia addusse!
Avvi un angolo in te che non soffrisse
440Barbara servitù, rapine e stragi?

Ditelo voi vitifere colline
Ai tumulti non use, ove il Retrone
Ameno scorre, e al mar con piene corna
Tendendo, all’onde Euganee unirsi affretta.
445O Patria a lungo lieta, e a lungo in pace
Più ch’altra mai, santissima di Numi
Stanza; o Patria d’eroi feconda e d’auro,
Per pingui campi, e d’Adige e Benaco
Per l’onde altera, i mali tuoi ridire
450Chi potrà mai? Chi ai dolor nostri i detti
Far pari, e all’onte ed ai comandi iniqui?
Copri il capo Benaco, e in te l’ascondi,
Nè più rigar, già Dio, fastosi allori.
Ed ecco, quasi che lagrime a noi
455E mancassero guai, fra tanti lutti,
Ecco del Lazio quella speme, e quella
Speme di Palla estinta: al sen rapito
Te delle Muse per morte crudele
D’anni in fior te vedemmo ANTONIO-MARCO,
460Del Benaco sepolto in su l’estrema
Riva, cui bagna la Sarca sonante.
Te dell’Adige piansero le rive:
Te chiamar l’ombre di Catullo, e nuova
Intesero dolcezza i patrii boschi.
465Il Re Franco di guerre allora empiea
L’opima Italia, a fren stretta Liguria,
Mentre Cesare altrove a ferro e a foco
Mettea gli Euganei, e il Sil placido, e il Carno
Ribelle, e il Lazio tutto era nel pianto.

Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.