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ATTO II.
SCENA I.
Giacomino, Cappio.
Giacomino. Paggi, scopate ed inacquate per tutto, portate qui la tavola e le sedie... . O Cielo, come sète pigri, non è maggior tarditá di quella che s’usa ov’è bisogno di prestezza.... Togli tu il mantile da quella parte ed io da questa, che penda egualmente da tutte le parti.... Or sí, che sta bene. Accendete il fuoco che sia a bastanza, lavate i bicchieri, calate giú il giarro e il baccile per dar l’acqua alle mani, portate la saliera e i salvietti e i cortelli. Diasi fuoco alla profumiera, ch’essali il fumo odorato. Fate che serviate a cenno, ché il cenno è il segno delle taberne; se non, che voleranno per l’aria i piatti, e i bicchieri per la testa e su’ volti.
Cappio. Ecco i piccioni, polli, capponi e porchette, spiedi di fegatelli, pasticci e l’altre manifatture.
Giacomino. O che sia tu benedetto, che con prestezza e diligenza hai avanzata la necessitá.
Cappio. Me l’ho fatti prestar da un’altra taberna, pagandoli quello che si consumerá; e l’aremo in un tempo arrosti e allessi caldi caldi.
Giacomino. Veramente, quando a te piace, non hai par in astuzia e diligenza.
Cappio. Andrò ad attendere al fuoco e a vestirmi da tedesco.
Giacomino. Ed io attenderò ad accomodar la taberna.SCENA II.
Antifilo, Spagnolo.
Antifilo. (Giá son stato a Posilipo con molti amici, e con gridi e rumori abbiam gridato: «turchi! turchi!»; e s’è posto in bisbiglio tutto il luogo, com’è solito farsi tutta l’estate: stimo che Giacoco sará tornato, che tutti son fuggiti. Giá vedo l’apparato che s’ordina; cercherò alcuni che turbino questa festa e conduchino il pedante al Cerriglio).
Spagnolo. ¡Oh cuanto mejor querria llegar á una venta adonde pudiese descansar esta noche, que estoy tan cansado que no puedo más menearme! Pobre pasajero, que de la guerra de Flandes ya que me debían veinte pagas, por no poder ser pagado, nos havemos alborotado y hecho los bandoleros, y viniendo á Napoles por tan largo viaje sin un maravedís, me he visto mil veces muerto de hambre, muchas veces desvalijado, y por tantas desdichas hay más de veinte dias que no como un bocado de pan ni un trago de vino, que no puedo tenerme en pié.
Antifilo. (O come costui viene a proposito! svaligiato e morto di fame e prosontuoso. Basterá questo solo a disturbar tutto il convito e far manifesto l’inganno).
Spagnolo. Oh Dios, cuando sera V. M. servida volverme á mi tierra, que volvieria á mis manadas de ovejas y carneros para hartarme de queso y lache y de mucha fruta; partirne de allá para hacerme caballero, y vine á estas partes del diablo, que nunca me veo harto de pan.
Antifilo. Compañero, che vai cercando cosí a notte per qua?
Spagnolo. Una venta adonde pudiese comer, dormir y descansarme.
Antifilo. Mira esta venta, aquí está un ventero muy rico, y da las cosas muy barato, y están esperando unas putas y alcahuetos; sèntate y coma que son medrosos, y con una cuchillada comerás sin pagar nada.
Spagnolo. Doy muchas gracias á V. M. por el aviso; y entraré.
Antifilo. Entraos allá, y haceis dar bien de comer.
Spagnolo. Oh Dios, me pudiese hallar un poco de pan, vino y carne para comer esta noche, que en la guerra he estado pereciendo de hambre.
SCENA III.
Giacomino, Cappio, Spagnolo.
Giacomino. Olá, chi sei che con tanta presunzione entri nella taberna?
Spagnolo. Soy don Juan Cardon de Cardona.
Cappio. Don Giovan Ladron de Ladroni, lascia quel pezzo di carne.
Spagnolo. Era caido en tierra, y porque algun perro no lo comiese, lo he alzado de la tierra.
Cappio. E per salvarlo te l’avevi posto sotto l’ascelle?
Spagnolo. Ventero, quiero alojar esta noche en esta venta.
Cappio. Qua non son ravanillos y cevollas; non ci è cena per te, ché la taberna è fatta per signori e cavalieri e non per un tuo pari.
Spagnolo. Pese á tal, voto á tal, que yo soy tan bien nacido como el rey de España.
Cappio. Povero re di Spagna, ch’ogni villano e capraro che vien da Spagna in Napoli dice esser cosí ben nato come lui!
Spagnolo. Soy capitan aventajado y pariente de todos los grandes de España, y vengo de la guerra de Flandes.
Cappio. Ará guardato capre tutto il tempo di sua vita, e ora è parente di tutti i grandi di Spagna. Qua non ci è da mangiare né da dormire; va’ in alcun’altra osteria.
Spagnolo. No quiero más que dos anchovas con el aceite.
Giacomino. Mira dimanda, che vuol mangiar chiodi con l’aceto! In questi paesi non si mangiano queste vivande.
Spagnolo. «Anchovas» digo, «sardinas» con l’olio.
Cappio. Oggi è giorno di carne: non avemo né sardelle né olio.
Spagnolo. Almeno una minestra de garvansos.
Giacomino. Vuole una minestra di canevaccio. Andate alle botteghe di tele, che arete canevaccio quanto volete.
Spagnolo. Vos quereis que os quebre la cabeza.
Giacomino. Vuole la capezza dell’asino. E che ti vuoi appiccare? Va’ in un’altra taberna.
Spagnolo. Yo non me partiré de aquí, si me echasen todos los diablos del infierno. Si pongo mano á la espada, en dos golpecillos, chis chas, haré pedazos cuantos bodegones hay en todo el reino de Napoles.
Giacomino. Cappio, caccia costui, ché un trattenimento tale non è bon per noi.
Cappio. Se non vuoi partirti in buon’ora, te n’anderai in malora per te.
Giacomino. Cappio, chiama quei smargiassi forastieri che alloggiano di sopra, ché diano quel castigo a costui che merita.
Spagnolo. Con un tajo ó un rebés haré mil pedazos á cuantos quisieren echarme de aquí.
Cappio. Vado a chiamarli.
Giacomino. Camina presto.
Spagnolo. Y llama todos los bandoleros de Flandes y todos los diablos del infierno, que de todos haré un monton.
Cappio. O buon Dieu de Grandazzo, o diavolo de Paliermo, chi è cheddo cornuto, caparrone, viddano, pezziente, che mi va facendo lo giorgiu? ca se nesco fuori, co no pontapiede lo ietto sopra li ciaramiti. Taliate, quante parole ha sto beccu castratu, moneluso. Sto iannizzo battiam; aspetta no morziddu, ca pe ll’arma de patremu e de chi me figliau — e sia acciso, se me meno la chiavetta, lo sandali e lo guardanasu — piglio lo broccoliero e scindo a bassu, li scippo entrambu gli occhi e metteceli in mano, le sgangerò le corna e li scippu la lingua pe lo cozzu, con chista daga ienzo la stanza delle carne soie! E che pensi ch’haiu lo fecatu blancu come a tia, che te vuoi accoteddare co no canazu morretuso, fidenti? Non me tenite! Vostra Signuria me perdugne; ca se m’aspetta na picca, le scareco na coteddata che le taglio le nasche e le gambe co no cuorpo!
Spagnolo. Aquí es menester menar las manos.
Giacomino. Meglio per te che meni i piedi, ch’hai piú bisogno de’ piedi che delle mani.
Spagnolo. Válame Dios, ¿que hombre es este?
Giacomino. Un siciliano indiavolato.
Cappio. Mira che criar, che zanze, che bravositá xe questa. Donca un ladro, mariol, zaffo, razza de zaffi, assassin, gramo, disgraziatazzo, schiuma de canaia, mostazzo de cavra, piegora grinza, ingenerao d’un castronazzo, becco de quattro corna, s’è cazzao in questa osteria da por sottosovra questa casa? Al sangue de le seppie e de mie pantofole, se pongo mano alla cinquedea n’ará cattao la mala ventura: una stoccata che dago dentro il cor, te trarrò la testa in levante e ’l cao in ponente. Ti xe matto, a questa foza se tratta con un zentiluomo veneziano? A ti dico, spagnolo impettolao, pezzo d’aseno, se pi’ stai qua un giozzetto, ti xe morto.
Giacomino. O che terribil veneziano!
Spagnolo. ¡Voto al Cielo que yo soy muerto!
Cappio. Potenz in terra, pover spagnol meschinaz, al corpo de mi mader, che se te cazo in tel polmon questo temperarin, ti fare’ tanti busi in tel polmon che non ne ha tanti un crivel, e ti fazo in mille pezzi. Ti venghi il cancher in tel cor, se cercasse in tutto el mondo, en Turcheria, en India e assai pi’ en lá, ti non purisse accattar un oter come mi: mi son auter bravus che ’l sicilian, mi son un oter Rotolan che ammazzi pi’ de trenta omen: va’ via! ah venghi, ah venghi! A chi dic mi? partit con tutt’i diavoli del mondo, a chi die mi?
Spagnolo. ¡Dios me libre de tantos mirables hombres!
SCENA IV.
Pedante, Altilia, Lima, Lardone, Cappio.
Pedante. Deo gratias. Giá siamo pervenuti all’antica Palepoli e moderna Napoli, uberrimo seminario degli oci e delle delizie. Salve o terque quaterque bella Napoli!
Altilia. Oh che gentil Napoli! veramente piú bella e piú magnifica assai di quel che il mondo ne ragiona. Questo è il perpetuo nido di gentilezza, la reggia d’Amore che ha lasciato il suo Cipro per abitare in Napoli; questo è il palaggio delle grazie, riposo de’ miei pensieri, ricetto delle mie speranze. Oh, come par che qui il sol piú chiaro risplenda che altrove! oh, quanto goderebbe il cor mio se non avesse a partirmi di qui mai!
Lardone. Oh come biancheggia il grasso in quei quarti di vitella! oh come gialleggiano quelle groppe de capponi, e come corporeggia quel rosso su le liste del bianco in quei presciutti, come carboneggia quel nero fra quelle reti di fegatelli, come pavoneggiano quelle provature fra quei riccami di salsiccioni!
Pedante. Oh tu come asineggi e bufaleggi fra queste tue ingordigie!
Lardone. O fegadelli, trofei della mia fame! o salami, spoglie de’ miei trionfi! o ricotte, o provature, gloria delle mie vittorie! o porchetta, come ti darei la man dritta passeggiando meco!
Pedante. Oste, oh con quanta venerazione venemo a te lietabondi e gratulabondi!
Lardone. Domine magister, e io affamabondo e bibebondo!
Cappio. Ben venute le Vostre Signorie! par di vere ca mi voler far scazzar: ponere le cappelle en teste. Ma mi nit intender quel «famabonde» e «bibebonde».
Lardone. Dico che vengo per disfamare l’affamata affamatagine del famoso mio affamamento.
Pedante. Oste, nomina desinentia in «bondo» significant at tum come «moribondo» e «gemebondo», cioè, idest cum maxima voluntate moriendi et gemendi.
Lardone. Quanto dice in gramuffa, tutto viene dalla saviaggine e dalla sua litteratumma.
Pedante. È questo il xenodochio del Cerriglio?
Lardone. Domine ita, non videbis quantum fegadellos, pullos, picciones e salsicciones?
Pedante. Lardone, andiamo per i supellettili.
Lardone. Domine nonne; bisogna prima assaggiare i vini, apparecchiarsi da cena, e poi tornare a dietro per le robbe.
Cappio. Lassa faghe a mi: prova cheste pottagie falsamico, scippacapelli e moscatelli.
Pedante. Refiuto questi nomi infondi e nefandi di «scippacapelli » e «falsamico».
Cappio. Patrone, cheste... cheste «falseamiche» star tanto dolce che, quando se beve, ti pensare che ire in curpe; no, va alle gambe a fare sgambette e cadere in terre. «Scippacapelli» stare tant gagliarde, ire al capo, e pare che scippe i capelli.
Pedante. Dictum hoc per antonomasiam.
Lardone. Detto per cornamusa.
Pedante. Lardone, tu sei cervello ottuso, apri il bugio dell’orecchie. «Antonomasia» è nome greco: «antos» vuol dir «contra»; «onoma onomatos» vuol dire il «nome»: quasi, idest «contra nomen». «Scippacapelli», dolce che va fin a’ capelli.
Cappio. Mi non intender, signor d’ottobre.
Lardone. E tu intendi a me, che son signor novembre. Fa’ che assaggi tutti i vini e prima il scippacapelli.
Cappio. Eccolo, che star mirando.
Lardone. Miro questo mirabil vino come schizza, brilla e saltella da se stesso; mostra la schiuma, poi la risolve in perle grandi, poi in piú picciole e le picciole in nulla. O che bevanda celeste piú che nettare e pania che inveschia!
Pedante. Accelera il bere.
Lardone. Non son questi vini da bersi subito, ma prima farci un pochetto l’amore; poi accostarselo alla bocca pian piano con una maestá grande, poi con una regal riverenza sporger le labra fuori e gire ad incontrarlo, torne un saggio e darlo alle prime labra; poi un altro che ne bagni la lingua e il palato, poi spargerlo per tutta la bocca, e succhiarlo a poco a poco e non traboccarlo giú nel ventre come fusse una medicina; e bevuto che n’arai un bicchiero, sta contemplando la battaglia che fan le membra, che tutte vogliono esser le prime a gustarlo: il cuor, primo, ne cava la quinta essenza, il polmone tutto se ci tuffa dentro, le budelle se ne riempiono e la milza all’ultimo se ne succhia la parte sua. All’ultimo ti fa’ una succhiata de mostacci ammolliti nel detto liquore, perché ti servirá per una seconda bevuta, per un sciacquadente.
Pedante. Presto, che stai addormentato sul bicchiere.
Lardone. Metti pian piano il vino, di grazia, per vita tua, ché vorrei piú tosto sparger tutto il mio sangue che n’andasse una goccia per terra. Questo è vino d’una orecchia.
Pedante. I vini dunque sono auriculati?
Lardone. «Vin d’una orecchia» è quello che è eccellente, che quando l’hai bevuto, va in testa e inchini la testa sopra alla spalla; ma quando si scuote la testa dall’una parte all’altra, è segno che non val nulla. Oste, poni dell’altro vino.
Pedante. Che rumore è questo che fai con la gola, glo glo, quando ingiotti?
Lardone. Lo fo accioché il vino cali a poco a poco; e quel «glo glo» son le trombette, i pifari e i tromboni con i quali io l’onoro. Questo come si chiama?
Cappio. Malvasia.
Pedante. Lascia questo, ché il nome t’addita che è malvaggio.
Lardone. Anzi il contrario; ché «malvasia» non dice che sia malvaggio, ma dice: «mal, va’ via», perché egli ti pone la sanitá nel corpo. E questo?
Cappio. Lacrima.
Pedante. Cattivo augurio: annunzia lacrime e pianto.
Lardone. Dicesi «lacrima», ché per la sua gagliardia ti fa venir le lacrime agli occhi.
Pedante. Lardone, vorrei che tu libassi i vini e non ne ingurgitassi nella voragine del tuo ventre le cotile, le exabasi, gli acetabuli, i gutturni, i cantari, l’anfore, le paropsidi e i ceramini intieri intieri: hai bevuto per sei tedeschi.
Lardone. Lasciamo «quae pars est» e nomi da scongiurar gli spiriti.
Pedante. Tutti son nomi significativi ch’esprimono le forme di quei vasi. Oste, hai tu del cecubo, dell’amineo e de’ «spumantia vina Falerni»?
Cappio. Non intendere vostre linguagie.
Pedante. N’hai del cecubo di Pozzuolo, dell’amineo di Vesuvio e del razente de’ monti Falerni?
Cappio. Aspette ne poche a io, che te porte le falanghine de Pezzulle, greco vesuviano e del trebiano.
Pedante. Nomina desinentia in «ano» maximam dulcedinem significant et mihi summopere placent. Andiamo per i supellettili.
Lardone. Come posso partirmi, se queste porchette infilzate mi tengono incatenato, né posso distaccar la vista da questi salami, pollami? lasciatemi far un altro poco l’amore.
Pedante. Dii talem avèrtite pestem, o sarcofago, o lupus luporum, o asine asinorum!
Lardone. Io asino e tu un bue, siamo bene accoppiati!
Pedante. Tabernarie, io non cerco lauti obsòni né tanti pulpamenti, ché non ho quadranti da spendere. Una cena frugale.
Cappio. Tas teich Gotz: te venghe le cancarelle, volere essere fregate!
Lardone. Oste, al tornar mi farai trovar apparecchiato un piatto di ravioli e di maccheroni strangolatori, tanto l’uno. Per Altilia uno di questi salsicciotti, che non è avvezza a mangiarne ancora. Tu, Lima, attáccati a questi salsiccioni, che so che ti piacciono.
Lima. M’appigliarò al tuo consiglio.
Cappio. Tutte cheste cose trovare apparecchiate.
Lardone. Ma sopratutto il presto sia in capo della lista, che importa piú di tutto; ché non è peggio aver fame e stare aspettando a tavola. Se ci farai una minestra di trippa grassa, mettici della menta e zaffarano; che se per disgrazia non fosse ben netta e sentisse della madre, se è verde, abbiamo iscusa che sia la menta, se gialla, il zaffarano.
Cappio. Tornare presto a cca.
Lardone. Quelle groppe pelate e grasse di quei capponi mi farebbon volare, non che trottare, e m’han posto in tanto appetito che sarei per mangiarmele crude.
Pedante. Andiamo, che fai?
Lardone. Oste, riempi il ventre di questa porchetta di ficedole, tordi e altri uccelletti che, aprendo il ventre, si cavino ad uno ad uno, come uscivano i greci dal ventre del cavallo di Troia; fa’ che si cuoca col suo succo e con quella sua crostina tenerella. Ahi, che non vorrei mai perderla di vista!
Pedante. Galante innamorato! altri amoreggia con le donne, egli con li animali morti. Teutonice, potremo lassar qui le donne sole?
Cappio. In cheste nostre ostelerie alloggiano vecchie fámine e con merdate.
Lardone. Ti sia dato al mustaccio.
Pedante. Requiescite e date pausa alla lassitudine; fate che si prestoli la cena, ché da un pauculo di tempo tornaremo.
Lardone. Avertite, non mangiate senza noi.
SCENA V.
Giacomino, Altilia, Lima, Cappio.
Altilia. Il Ciel vi dia ogni contento, anima mia.
Giacomino. E che maggior contento potria darmi la sorte che darmi voi?
Altilia. E vi sia sempre lieta e propizia ogni stella.
Giacomino. E qual piú gioconda e graziosa stella poteva oggi appresentarsi agli occhi miei? il cui splendor ne’ suoi begli occhi con benignissimi aspetti influiscono nell’anima mia tante felici e sovraumane dolcezze e preziose rugiade di gioie, che vagheggiandole non posso conoscere qual sia maggiore, o lo splendor de’ suoi raggi o quel ferventissimo fuoco che apporta seco; o qual sia piú la gioia di mirargli o l’ardor che ne succede, che non so come l’angustia del mio petto lo possa capire e ne possa godere insieme tante felicitadi.
Altilia. E qual piú chiara luce poteva oggi rappresentarsi all’anima mia, nel cui lampeggio arde la piú chiara sfera del cielo? O vita dell’anima mia, o vita dell’anima mia!
Cappio. State in cervello, padrone, che le sue parole son pregne di sostanza: è figlia di mastro ed è una dottoressa che l’impatta a Platone — ed ha le veste e tele.
Giacomino. Ma che posso rispondere, s’alla tua presenza me si liga la lingua, stupefanno i sensi e in me stesso muoio? Le mie parole sono semplici, come m’escono dal cuore, solo avvivate dal desiderio del mio cuore. Bisognaria che avessi la sua dolcissima lingua in bocca per poterle ben rispondere.
Altilia. A tanto amore non so come rispondere; non posso altro, in ricompensa, che donar me stessa a voi: e voi amando me, non amate me, ma una cosa vostra; né io son piú padrona di me stessa, ma sono una guardiana delle cose vostre.
Giacomino. Ed io abbissato nel centro del mio niente, come posso pagar cosí gran dono? perché se possedessi la monarchia del mondo, non tanto potria donarvi che non restasse piú di quel che dato avessi. Troppo è grande la vostra bellezza, troppi sono i meriti dell’onore, della saviezza e di tante altre sue leggiadrissime parti, che partite in molte donne, molte se ne arricchirebbono: basta dir solo che in voi sieno tutte le grazie, costumi e bellezze che si trovano sparte in tutte l’altre, e che in voi sola la natura ha voluto mostrare l’eccellenza del suo valore.
Altilia. Vorrei che poteste ascoltar quello che nel silenzio della lingua desidera palesargli il core: che se vi è pur alcuna cosa di buono, tutto vien da’ raggi del tuo sole che m’indorano tutta; da quello viene ogni mio bene. Ma ditemi, cor mio, come avete sopportata l’assenza di tanti mesi che non m’avete veduta?
Giacomino. In questa assenza ho provato di quelle crudeli e acerbe passioni che sanno far provare i vostri meriti. Ma pur in cosí infinito dolore m’ho meritato e guadagnato il premio della costanza e del valor della mia fede. Ho arso e bruciato bensí, ma in quelli miei incendi ho trovato quello alleggiamento che m’ave apportato la speranza di aver presto a rivederla, sperando che quegli occhi che mi avevano aperto il fianco, quelli poi avessero a risanar le mie piaghe. E voi, cor mio, come l’avete passata?
Altilia. Io rapita nel pensiero delle vostre qualitá rare e inimitabili, ho pasciuto l’intelletto di certo inusitato diletto che solo m’ha sostenuto in vita, e fra cosí dolci inganni ingannando me stessa, ho passata la vita mia; né so che altro rispondervi che tutte le parole che devrebbono uscir dalla mia bocca, tutte escono dalla vostra.
Giacomino. Che dici, o fedelissima ministra de’ nostri secreti amori?
Lima. Che il Cielo stringa e conservi stretto cosí bel nodo d’amore, che non sia per sciorsi giamai.
Giacomino. Non si sciorrá ben certo, ché non è il maggior ligame nell’amore che la somiglianza de costumi; onde il nodo è cosí strettamente ordito per le mani d’Amore che non bastare sciorsi dalla morte.
Lima. Ma poiché sète patti e contenti, ricevete l’un dall’altro il premio di tanto amore.
Giacomino. Ma perché trattengo me stesso, dove la voglia mi sferza e mi sospinge?
Cappio. A me par sciocchezza perdere il tempo in belle parole, che si potrebbe spendere in uso piú desiato e gradito: avete poco di tempo, e quel poco che avete ve lo torrá il ritorno del mastro or ora.
Lima. Giacomino, ve la do in podestá: vi prego a serbar con lei quel decoro che si conviene alla qualitá vostra e al suo onore.
Giacomino. Anima mia, dal tempo che v’ho amata, v’ho amata sempre da sposa, che tal mi pareva che meritassero le vostre parti; io per sposa v’accetto se ne son degno.
Lima. Or andate a riposarvi, o bella coppia d’amanti e sposi.
Cappio. Anzi a faticar piú che mai.
SCENA VI.
Lima, Cappio.
Cappio. Lima, quei si vanno a godere, e noi vogliamo qui far la saliva in bocca?
Lima. Il tuo amore è come quello degli asini, che non dura se non la primavera; ma dimmi, che hai apparecchiato per darmi?
Cappio. Il fuso per la tua conocchia e il pistello per il tuo mortaio; ché se non hai il pistello, come vorresti far la salsa, e se ti mancasse il fuso, come vorresti filare? E tu che m’hai apparecchiato?
Lima. La berretta per il tuo capo e la lanterna per la tua candela; ché non aresti con che coprirti il capo quando piove, e non avendo lanterna, il vento ti smorzarebbe la tua candela.
Cappio. Orsú, entriamo ad accenderla; va’ prima e ponti in ordine.
Lima. Noi stiamo sempre in ordine; ponti a ordine, e per non farmi aspettare, entra innanzi tu o vienmi dietro.
Cappio. Entriamo, ché innanzi o dietro, poco m’importa.