< La tabernaria
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Atto III Atto V

ATTO IV.

SCENA I.

Giacomino, Cappio.

Giacomino. O Cielo, che soave dolcezza, che ineffabile armonia può trovarsi in questa vita che due cori congionti in un sol core, due vite in una vita e due alme in un’alma d’un reciproco amor congionte, dopo tante pene, lacrime e tormenti, giongere a quel da loro tanto bramato bene? O diletto indicibile, o soavitá eroica, o piacere che supera e avanza ogni altro piacere e diletto! Deh, ch’io non posso trovar parole con le quali possa esprimere cotanta gioia! O veramente felici e ben avventurati coloro che giongono a tanta altezza di gioia! Misero me, che avendo gustato tanta dolcezza e accesomi in tanto incendio intorno al core, come potrò mai vivere senza lei? ché essendo d’un cor congionti insieme, d’un’alma e d’una fede, tanto sarebbe separar l’un dall’altra quanto l’uno e l’altra viver senza la vita. Disporrò quanto posso mio padre; e vedendolo ostinato a non voler compiacermi, alfin farò a mio modo. Doppo l’effetto mi disse piangendo: — Vi raccomando l’onor mio! — O che mirabile effetto è quello che fan le lacrime delle donne ne’ cuori degli amanti. Gli risposi: — E come posso io compensar tanta liberalitá con tanto onore, con che voi stessa concessa m’avete e la persona e l’onor vostro, se non con l’atto del matrimonio? — Veramente la natura delle donne è tanto dolce che, per duro che sia un cuore, lo fa subito tenero e liquefare in lacrime. Ma par che mi senta un messo nel cuore, mandatomi dal mio continuo pensiero, che dice che speri bene.

Cappio. Padrone, vorrei lasciaste cotesto prologo, e pensiamo allo scandolo che sia per avvenirne quando saprá il pedante che Altilia sia stata trafugata e toltole l’onor suo; e sapete che Antifilo, vostro contrario, non sta con le mani a cintola, ché una ne pensa l’oste e l’altra il pellegrino. L’aiuterá per la gelosia che lo rode.

Giacomino. Ma io con che occhio potrò mirar mio padre, quando egli mirando negli occhi miei vedrá scolpita la mia disobedienza e che della sua casa io n’abbi fatto taverna, fattolo aggirar per le strade dal servitore? che gastigo aguaglierá la mia forfantaria? Amor mi sollecita, il timor del padre mi spaventa e la ragion vuol ch’io l’ami. Cappio, non so che farmi, son rovinato del tutto.

Cappio. Non siamo rovinati mentre siam vivi e vogliamo aiutarci.

Giacomino. Io non so se son vivo o morto, né dove mi sia: son tanto attuffato nel mar delle delizie ch’io non so che mi faccia. Pensa tu, Cappio, che sei fuora di passione.

Cappio. Né io son libero di passione, ché sapendo il padrone ch’io son stato l’inventore ed essecutore del tutto, non lascierá crudeltá che non voglia esperimentar contro di me. Per ora non so pensar altro modo che condur Altilia al Cerriglio e pregar il tedesco che dica al pedante che, dall’ora che Altilia e la balia son state menate da lui nell’osteria, l’hanno aspettato tutta la notte e anco senza cibo e senza sonno; e che sappino ben fingere questa bugia.

Giacomino. A prieghi aggiongerò qualche scudo, ché dica quella bugia: ché se delle bugie se ne dicono le migliaia senza pagamento, quante se ne diranno per denari? I danari son l’unguento de tutti i mali. Io vo a chiamar le donne.

Cappio. Presto, ch’ogni tardanza ci potrebbe apportar danno. (Questi giovanetti doppo conseguito il lor desiderio non pensano piú allo scandolo che ne può succedere. Io temo che de loro piaceri io n’abbi a patir la pena).

SCENA II.

Giacomino, Altilia, Lima, Cappio.

Giacomino. Anima mia, quanto la fortuna ci è stata favorevole in avervi condotta a casa mia, tanto poi voltandoci le spalle n’è stata disfavorevole, facendo venir mio padre da Posilipo e trovar la sua casa fatta taberna, e venir poi lo spagnolo, poi venir vostro padre. Giá avete visto il contrasto col mio padre. Noi per ovviare a questo disordine avemo concertato condurvi al Cerriglio; e faremo che l’oste dica che voi tutta la notte avete aspettato il suo ritorno.

Altilia. Vita mia, potrete commandarmi e dispor di me come di cosa vostra; solo vi priego m’adempiate quella promessa che per vostra buona grazia m’avete fatta con quella volontá e prontezza con la quale ho adempita la mia, e considerate quanto mal stanno insieme amore e ingratitudine.

Giacomino. Sappiate, signora, che voi sola sète l’oggetto d’ogni mio pensiero, e che il vostro cuore è nel petto mio come il mio nel vostro; e son fatto tanto suo che non spero esser mai piú mio, né possedendo voi, curo di posseder piú cosa al mondo. E pensando che ho da star questo poco di tempo senza voi, mi sento svellere il cuore dalle piú interne viscere del mio petto. Sia per me maledetta quell’ora e quel ponto che, stando senza voi, mai pensi ad altro che a voi.

Altilia. Vi ricordo che l’amor de’ giovani ha per fine il diletto de’ loro amori, e che conseguito l’effetto svanisce l’affetto.

Giacomino. Altilia, vita dell’anima mia, se ben ho avuto sempre l’anima e gli occhi invaghiti della sua nobile sembianza, ho sempre riverita l’onestá, i costumi e le rare sue qualitadi, e considerato che nell’amore non è piú stretto ligame che la conformitá de’ costumi. Or queste qualitá fanno che conseguito l’effetto, piú vien sempre a crescere l’affetto.

Altilia. Io non merito d’essere amata né per bellezza né per raritá di costumi, che in me non sono, ma perché v’ho amato con tutta la tenerezza dell’anima mia: perché non son tanto ignorante che amandovi tanto non meriti di esser riamata; ma essendo l’amor mio straordinariamente grande, dubito che non mi abbiate fatto qualche malia.

Giacomino. La malia che l’ho fatta, mia reina, è che l’ho amata con quella schiettezza di amore e lontana da ogni simulazione, che si convenia; e saprá bene che il ricompenso d’amore è lontano da ogni spezie di pagamento, ché l’amor si paga con amore.

Altilia. Ahi, che il timor m’uccide!

Giacomino. E di che temete, anima mia?

Altilia. Che non può esser grand’amore ove non è gran téma, gran sollecitudine e gran sospetto di quel che si deve e non deve temere.

Giacomino. Questo dovrei temer io, che sapendo la natura delle donne esser fragile, dolce e tenera e pronta alla mutazione, dubito che lontano dagli occhi vostri non mi sepelliate nell’oblio; ché non è cosa che nell’assenza piú si raffreddi che l’amore, e col nuovo successore non si marcisca.

Altilia. Se voi miraste nel centro dell’anima mia, vedreste veramente ch’io in me muoio per vivere in voi; e la donazion che ho fatta di me stessa a voi, è irrevocabile tra vivi, e ve ne ho dato giá il pacifico possesso.

Lima. Signor Giacomino, se l’amor vostro nella lingua non è lontano dal core, e se voi desiderate corrispondere al suo desiderio com’ella ha corrisposto con i fatti ad ogni vostro desio, acciò l’essempio della sua disonestá overo della troppa violenza d’amore non passi nell’altre donne, ora m’assalta una improvisa astuzia di far che Altilia sia vostra per sempre, né basterá uomo del mondo trarvela di mano.

Giacomino. Io con questo bagio che stampo nelle gote della mia reina, ratifico quella promessa che l’ho fatta d’esser mia sposa e le ne do la fede; e giuro per la sua, piú cara che la mia propria vita, che non lascierò far cosa, per impossibil che sia, per conseguir lei, che solo l’amor non conosce difficoltá.

Lima. Ecco, v’apro il modo che non può ritrovarsi il migliore. Sappiate ch’essendo assediata Napoli da’ francesi sotto il general monsieur de Leutrecche, una crudelissima peste assaltò il suo essercito, Napoli e quasi tutto il Regno. I signori del governo, per remediare alla commune ruina, strassinavano gli appestati su un carro dalle proprie case ad un lazzaretto a San Gennaro, poco lontano da Napoli, dove si governavano, e morendo si seppellivano in una grotta quivi appresso. Ritrovandosi impestato Limoforo suo padre e Cleria sua madre e Antifilo suo fratello, furo anch’essi come gli altri portati in quel loco. Rimasi io sola con questa bambina in casa; io per non incorrere nella medesima sciagura, la portai meco a Salerno, patria mia. Era la mia casa appresso a quella del mastro di scola, il qual veggendo la fanciulla bella e di spirito vivace e che portava nel fronte scolpiti i suoi natali, le prese tanta affezione che se la prese in casa insieme con me che l’allevasse — veggendo che la mia povertá non bastava a sopplire, — dove l’ha nodrita e allevata sin al dí d’oggi.

Giacomino. Balia, io t’ho ascoltato fin ora con molta attenzione, né posso imaginarmi dove sei per riuscire.

Lima. Ecco l’inganno. Ritrovate un amico confidente, informatelo di quanto v’ho detto, e fate che s’incontri col maestro. Dichi chiamarsi Limoforo, sua moglie Cleria, suo figlio Antifilo; mostrar i segni, i tempi, l’istoria; e all’ultimo per testimonio chiamar me che confermerò il tutto: che vuol che se gli restituisca la figlia. Egli la restituirá, anzi l’ará a caro, liberandosi di averla a dotare e condurla seco a Roma, e liberandosi da me, ché non ha molto a caro la conversazion delle donne. Con questa finzione inorpellata di veritá l’arete nelle mani; ed egli è uomo che crede la metá piú di quello che se gli dice.

Giacomino. O che sottilissima invenzione, e mi par proprio venutami dal Cielo, né si potrebbe mai altra imaginarsi migliore. Le mano all’opere.

Cappio. Che sapete voi se Limoforo fosse morto dalla peste?

Lima. Rotto il campo, venni in Napoli; né per sovraumana diligenza che vi oprassi, potei mai averne contezza di lui che, per esser dottore e ricco, era in Napoli riconosciutissimo.

Giacomino. O vita mia, se ti ho amata figlia d’un maestro di scola, quanto or debbo amarti figlia d’un gentiluomo! E veramente i costumi non m’hanno ingannato, che di gran lunga avanzano ogni nobiltade.

Cappio. Non si perda piú tempo: andiamo al Cerriglio e cerchiamo questo futuro nuovo Limoforo.

Lima. Giacomino mio, vi raccomando la mia figlia.

Giacomino. Non bisogna raccomandare a me le cose mie né l’anima al suo corpo. Cappio, batti la porta.

SCENA III.

Tedesco, Cappio, Giacomino, Altilia, Balia.

Tedesco. Chi stare quelle grande asine che battere le porte delle mie ostellerie con tanta furia?

Cappio. Son io; apri.

Tedesco. Avere detto bene che stare un grande asene.

Cappio. E tu arciasino ad aprire.

Tedesco. Mi patrone, che comandare Vostre Signorie?

Giacomino. Tedesco mio, m’hai da fare un piacere di che non ti pentirai.

Tedesco. Eccomi a vostre piacere.

Giacomino. Vien questa gentildonna con la sua balia ad alloggiar nella vostra osteria; vorrei che ti fosse raccomandata come la mia propria vita.

Tedesco. Cheste stare poche servizie.

Giacomino. Poi quando verrá suo padre a dimandarla, dirai che dall’ora che l’ha lasciata in quest’osteria, hanno aspettato tutta la notte senza cena e senza sonno.

Tedesco. Sue padre esser state cheste notte a mie ostellerie, e mi aver risposto che non stare alogiate in case mie.

Giacomino. E questo è quel piacere che ricerco da te, che dichi una bugia per amor mio; e per questo piacere togli questo scudo e, riuscendo bene il negozio, da questo principio conoscerai se saprò remunerar bene il fine.

Tedesco. De cheste bugie noi avere grande abbondanzie e le vendemo a bon mercato, anzi per nulla. Noi altre tedesche avere gran privilege fare quanto piacere a nui, poi dire che stare imbriache.

Cappio. Bisognarebbe, padrone, che fusse bene informato di quel che è passato con l’altro tedesco, acciò le risposte fossero conforme alle domande.

Giacomino. Dici bene, però restati con queste signore e avvisa di tutto quello che passò nella nostra taberna; e io andrò a trovar un amico che finga Limoforo. Son vostro, anima mia.

Altilia. Cor mio, non fate che, lontana dagli occhi, resti sepolta nell’oblivione.

Giacomino. Voi sète piú viva nell’anima mia che non ci è l’anima istessa. Sparito è il mio sole, il mondo è in tenebre: come andrò dove debbo, senza occhi e senza luce?

SCENA IV.

Limoforo, Lardone, Pedante, Antifilo.

Limoforo. Dimmi, Lardone, minutamente e veramente il fatto come è andato, ch’esser non può che tu non abbi tenuto le mani in questa pasta.

Antifilo. Comincia a narrar il fatto per lo filo.

Lardone. Se mi perdonate un fallo che ho commesso in questo fatto, strassinato dalla gola, vi spianare il tutto in due parole.

Limoforo. Se dici il vero, ti sará perdonato.

Lardone. E che sicurtá me ne date?

Antifilo. Io sarò il tuo mallevadore.

Pedante. Ed io il tuo fideiussore.

Lardone. Se bene il gastigo che merito saria molto, pur perché non è altro che una burla, merito piú liberamente il perdono. Giacomino, mentre studiò leggi in Salerno, amò saldamente e onestissimamente Altilia sua figliuola, desiderandola piú tosto per sua sposa che per amore; e volendo andare il mio padrone in Roma, quando passava per Napoli, mi commandò che io n’andassi al Cerriglio per preparargli l’alloggiamento; e per mia mala sorte venendo qui, m’incontrai con Cappio. ...

Limoforo. Chi è questo Cappio?

Lardone. Il servo di Giacomino, l’inventore e l’essecutore di tutte le forfanterie, un che fa veder la luna nel pozzo; e gli fu posto nome Cappio dalla cuna, che durerá finché finirá con un cappio su la forca. ... Tanto fe’ che mi persuase che conducessi Altilia in casa sua; ché essendo gito il padre a Posilipo, arebbe trasformata la sua casa in taberna. ...

Pedante. O mirabile excogitatum, o inventum diabolicum: una bestia venir in una stalla di Napoli per accoppiarsi con un’altra bestia!

Lardone. ...Venne Altilia in Napoli; la condussi in casa di Giacomino col suo padre, invece del Cerriglio. ...

Pedante. Ed io inscio et errabundo venni in questa taberna; e fummo ricevuti con sedulo servizio e uberrimo apparato.

Lardone. ... Poi con iscusa di portar le restanti robbe, tornammo a dietro e lasciammo Altilia e la balia nella taberna. Venne allor il padre da Posilipo: fu necessario che sparisse la taberna; e tornando io e il maestro, ché non si scoprisse l’astuzia, fummo discacciati dalla casa. ...

Pedante. Per cosí nefando flagizio meritaresti che fussi legato in un asino al roverscio, con le braccia recinte al tergo, disnude, e poi da uno inflammabondo e irabondo carnefice instantemente con un flagello acuto fussi gastigato e con belluina rabie cruentato, adeo ut, usque donec, finché querulo, miserabili eiulatu, efflassi la tua nefanda animula. Ma che prima fusse disradicata la tua insaziabil mandibula infin dalle fauci, che mai potessi abligurire. Ma vegnamo al quatenus.

Lardone. ... Questo è quel peccato del quale v’ho chiesto da prima il perdono e che la gola mi aveva condotto a fare. La qual, ora, è tanto vacua quanto mi pensava che or di soverchio mi doveva esser piena.

Limoforo. Or, perché hai detto il vero, ti si perdoni.

Pedante. Restò dunque Altilia e la balia, la notte, in poter di Giacomino?

Lardone. Come v’ho detto.

Pedante. Saran giá venuti all’illecebre amorose, agli amplessi cupidinei e a’ bagi desiderati! Come farem dunque per riconoscerla?

Limoforo. Poiché non potiamo entrare nell’altrui case senza licenza del Regente, andiamo, informiamolo del fatto, ché ne doni licenza d’entrare in casa sua e porgli le mani adosso.

Lardone. Andiamo a dormire.

Pedante. Abbiam piú voglia d’uccidere che di dormire.

Lardone. Giá s’è dato fuoco alla mina; poco stará a scoppiare e far andar per l’aria l’inganno di Giacomino, se Cappio non rimediará con alcun’altra contramina.

SCENA V.

Giacomino, Pseudonimo.

Giacomino. Tu sai, Pseudonimo mio, se mi son sempre affaticato ne’ tuoi commandi; né mai ne feci tanti che non mi fosse restato desiderio di farne de maggiori.

Pseudonimo. Né io ho cessato di ricevergli, perché ho sempre avuto desiderio de riservirceli: ché colui che rifiuta i servigi mostra che non si diletta di farne ad altri; ed io resto vinto da tante cortesie, e tanto piú mi sono stati cari quanto che gli ho ricevuti senza dimandargli.

Giacomino. Ricordatevi ancora.

Pseudonimo. Non bisogna rammentarmi i benefici, né tanti prieghi né tante parole, di forza che mi spingano piú degli oblighi che vi debbo.

Giacomino. E sempre dove conoscerò servirvi, ancorché v’andasse la vita, non mancarò mai.

Pseudonimo. Queste vostre tanto amorevoli offerte le pagherò ben io con piú efficaci operazioni.

Giacomino. Ed or avendo bisogno di fidarmi d’un amico per tormi dinanzi l’ostacolo di Antifilo, ho eletto voi fra i piú cari; poiché in voi concorrono tutte quelle parti che sono necessarie in questo effetto: voi forastiero non conosciuto in Napoli, sagace, accorto, ricco di partiti e da sapersi risolvere in ogni occorrenza; talché stimo sicuramente che voi sarete il principio, mezo e fine d’ogni mio contento.

Pseudonimo. Voi non potevate trovar uomo che volesse e potesse servirvi meglio di me: ho animo e rissoluzione. Fate che me si mostri quell’uomo, che mi confido potervi condurre Altilia in casa vostra.

Giacomino. Io non vorrei che confidaste tanto in voi stesso, perché sogliono occorrere nel fatto cose che non si pensano mai: bisogna pensar prima a quello che ne potrebbe occorrere.

Pseudonimo. Non bisogna trovar il medico prima che venghi la malatia; né io mi curo di pericoli che siano per avvenirmi, purché di me restiate sodisfattissimo.

Giacomino. Ricordatevi i nomi delle persone e dell’osteria e de’ segni delle persone.

Pseudonimo. So ogni cosa tanto bene che lo potrei insegnare a voi, e occorrendo rispondere ad alcuna cosa che io non sappi, non sarò tanto goffo che non sappia risolvermi.

Giacomino. Andiamo verso il Cerriglio, ché lo troveremo. Intanto io andrò rammentando l’istoria, i nomi e i segni delle persone.

SCENA VI.

Limoforo, Capitano, Pedante, Giacoco.

Limoforo. Poiché il Regente ci ha favorito nella giustizia e ordinato che si cerchi la casa di Giacoco, e ritrovandovisi Altilia e la balia, si menino a casa nostra, e Giacomino in Vicaria; se avanzarete di diligenza in esseguir questo mandato, noi avanzaremo nel premio di quel che vi si deve.

Capitano. Mostratemi la casa e vedrete ch’io vi servirò di buona voglia e di miglior fede. Ma siate sicuro che Giacoco è un grand’omo da bene.

Limoforo. Per questa volta la bontá del padre poco valerá alla cattivitá del figlio.

Pedante. Me subscribo alla vostra sentenza.

Limoforo. Maestro, mostratici la casa.

Pedante. Ecco la malefica, prestigiosa, personata e larvata taberna che parvo tempore, instantulo, si metamorfeo in casa d’un viro probo; che se fosse nell’etá degli errabondi circumvaganti cavalieri di Gallia, direi che fosse un de’ palaggi incantati di Amadis de Gaula, ove io con ludibriosa ludificazione, merente e lamentabile, ne fui expulso. Tic, toc.

Giacoco. Che buoe, capitanio, frate mio, che con tanta auterezza e sobervia e con tanti sbirri vieni a scassar le porte della casa mia, manco se fussemo dello Mandracchio o dello Chiatamone?

Capitano. Cosí m’è stato ordinato dal Regente della Vicaria.

Giacoco. Che bolete, in concrusione?

Limoforo. La figlia e la balia di costui.

Giacoco. In casa mia non c’è autro ca na vaiassella, carosa, coccevannella, cacatalluni; e se ci truovi autra perzona, voglio che de zeppa e de pésole me portate presone.

Limoforo. Capitano, entrate e fate l’offizio vostro. Non ti bisogna recalcitrare con la giustizia.

Giacoco. Ommo da bene mio, che hai a fare con la casa mia?

Pedante. Io venendo in Napoli per ospitare al Cerriglio, vostro figlio — o maximum scelus! — ha posto una maschera a questa casa e ne fece un xenodochio, dove lasciai la mia sobole con la balia; poi tornando con le reliquie delle robbe, la taberna evanisce e trovai la mia figlia sincopata.

Giacoco. Che era deventata copeta?

Pedante. Sincope de medio tollet quod epentesis auget. Dico «sincopata», ché avendola lasciata nella taberna, non ci trovai la figlia né la balia: audistine?

Giacoco. Noi poco avemo abbesogno de sse gramuffe. Ma io non t’aggio fatto accompagnare allo Cerriglio che la cercassi?

Pedante. Testor tutti i celicoli e i terricoli che non ce la trovai, et testor quel rutilante sidereo lume ch’io ne rimasi absorto e dementato.

Capitano. Padron, qui non son donne, altro che una fanciulla.

Giacoco. Iate into allo Cerriglio; cercate meglio, ca la trovarite.

Pedante. Orsú, drizzamo colá il nostro gresso.

Lardone. Ecco il Cerriglio; io batto. Tic, toc.

SCENA VII.

Tedesco, Pedante, Limoforo, Antifilo.

Tedesco. Got morgon.

Pedante. Chiama il dio Demogorgone, bono augurio. Bona dies et annus!

Tedesco. Che volere, care padrune, de cheste ostellerie?

Pedante. Duo verbiculi.

Tedesco. Non avere vermicoli cca.

Pedante. Siam qui venuti con passo celere et pernice.

Tedesco. Non stare cca pernice né fasane; ire a cheste altre ostellerie.

Pedante. Voi conoscete me?

Tedesco. Sí certe: voi stare quel Tutto Merde Stronze de patriarche.

Pedante. Io mi chiamo Tito Melio Strozzi gimnasiarca. Non venni iersera ad ospitare in questo vostro ospizio?

Tedesco. Dico ca mie ostellerie non stare ospitale; e veneste con uno imbriago che se bevé tutte le vine de mie ostellerie.

Pedante. Aedepol, maxime verum!

Tedesco. Bevé vine fauzamiche, scippacapil, moscatelle, trebiane e vine falanghine de Pezzulle; e dicere vui che tutti li vini che finivano in «ano», tutti stare vini eccellenti.

Pedante. Sí bene.

Tedesco. Poi dicere ca volive ire a portare li sopraletti.

Pedante. Le suppellettili, dissi.

Tedesco. E intanto apparecchiasse una cena da fregare.

Pedante. Dissi: — Una cena frugale. — Non ti ho lasciato qui due donne?

Tedesco. Sí bene; e avere aspettate vui tutte le notte senza cena e senza dormire.

Pedante. Non fui io qui a prestolar questa mia figlia?

Tedesco. Voi non avete prestato figlie a me, ma sobole e bálice.

Pedante. La mia sobole e balia.

Tedesco. E tornaste a portar mule e giumente.

Pedante. Dissi: — Et alia muliebria indumenta.

Tedesco. Vui parlare con me d’une linguaggie turchesche, biscaino; e me nit intender.

Pedante. Mi dicesti che non v’erano donne, e mi serrasti le ianue nel volto.

Tedesco. E mi stare ancora mezze imbriaghe, facere brindese con mie compánie, e tutta la notte stare a scazzare.

Antifilo. Queste son cose da far diventar pazzo altro cervello che non è il mio! Voi parlate con tutti come se parlaste con i vostri scolari: questo è che vi fa cadere in molti errori; che nuovo genere di pazzia è questo?

Pedante. Io non vuo’ contaminare e imbastardire il mio mero ciceroniano eloquio, con il vostro vernaculo, della piú eccellente frase che si trova e ornato tutto delle figure di Ermogene.

Limoforo. Fate venir le donne.

Tedesco. Le donne mò venire. Bisogna pagar le ostellerie del vine che si ha bevute quell’imbriago e dell’alloggiamento delle donne.

Limoforo. Quanto debbiamo per questo?

Tedesco. Duie ducate per le vine bevute, mez ducate per la stanza delle donne e mez altre per il buon pro vi fazze.

Limoforo. Eccoli.

Antifilo. Maestro, come dite che vi sieno state trabalzate le donne, se le trovate nel luogo dove le lasciaste?

Limoforo. Non ci ha detto Lardone che Giacomino l’avea ricevute in casa sua, mettendo la sua casa in taberna?

Pedante. Io resto absorto e trasecolato: cose da insanire! Ma avendo la mia figlia, son compote d’ogni mio desiderio.

Antifilo. Certo, che saranno invenzioni di Cappio; ma pur che abbiamo le donne, non si parli piú del passato.

SCENA VIII.

Altilia, Lima, Pedante, Limoforo, Antifilo.

Altilia. O caro mio padre, come m’avete abbandonata cosí sola e con tanto mio poco onore? ché, se non avesse avuta la mia balia meco, m’avreste trovata morta di dispiacere.

Pedante. Ecco che non m’ave abbandonata l’opifera speme, che giá era per essalar l’anima! Tanto timor m’avea invaso d’averti smarrita che stimava mai piú vederti; or possedo quanto l’animo mio ha concupito.

Lima. Senza cena e senza sonno non abbiam mai chiuso occhi per timore.

Pedante. Limoforo, secondate a favorirmi, che «melius est non incipere, quam ab vicepto turpiter desistere».

Limoforo. Voi entrate in casa mia con le donne e riposatevi, mentre noi andremo attorno col capitano a prender Giacomino che, secondo m’ha referito Lardone, egli è stato l’autore dello strattagemma.

Antifilo. Ed io restarò in casa a far compagnia alle donne.

Limoforo. Tu vieni meco, ché il maestro ara cura di loro: che come aremo Giacomino in Vicaria, cercheremo come passò il fatto e, trovatolo colpevole, cercheremo il modo come le sia restituito l’onor suo.

Antifilo. Ma bisogna si facci il tutto con prestezza, ché Cappio con un’altra nuova invenzione non ce la ritoglia dalle mani.

Limoforo. Andiamo.

Antifilo. Io in tantoaggiaccio e ardo: aggiaccio per la tema e ardo per la speranza.

Pedante. Ite bonis avibus. Figlia, entriamo in casa.

SCENA IX.

Giacomino, Pseudonimo, Pedante.

Giacomino. Una bugia ben detta è madre dell’inganno...

Pseudonimo. ... ed è sorella carnale del verisimile.

Giacomino. All’amante è lecito usar ogni inganno e astuzia per conseguir la sua amata.

Pseudonimo. L’inganno è tanto verisimile che non mi dispero della riuscita.

Giacomino. Veramente le donne sono mirabili nelle invenzioni cattive, come nelle buone non vagliono nulla; e meglio quelle che sovvengono all’improvviso che le studiate.

Pseudonimo. «D’inganno e di bugie si vive tutto il die, di bugie e d’inganno si vive tutto l’anno».

Giacomino. Di grazia, stiate in cervello che non andiamo per ingannar altri e noi restiamo gl’ingannati; ché l’inganno molto mi preme.

Pseudonimo. A me non sol preme ma m’opprime.

Giacomino. Pseudonimo, vedete quel vecchio vicino alla porta? quello è desso; accostatevi.

Pseudonimo. M’accostarò pian piano. Questa è la casa che m’è stata insegnata? Dimanderò costui; forse me ne dará contezza. O padrone!

Pedante. Hem, quid est? domine, quid quaeris? perché infixis oculis e con petulante obtúto mi guardate?

Pseudonimo. Se mi sapeste dar nuova d’un Tito Melio Strozza gimnasiarca.

Pedante. (Costui non potrá esser se non un gran letterato e mio devoto, sapendo il mio prenome, nome, cognome e officio). Quem quaeritis, adsum.

Pseudonimo. Voi dunque sète quel ch’io dimando?

Pedante. Quellissimo — un superlativo volgarizato.

Pseudonimo. O mia ventura che l’abbi trovato al primo.

Pedante. Che prestolate da me?

Pseudonimo. Cose d’importanza; né posso dirlevi se non ho prima piú certa informazione della sua grandezza e mirabil sua sapienza.

Pedante. (Costui è un gran rettorico, perché al principio capta la benevolenza con le lodi). Non vedete la digna imperio facies? la mia maestosa presenza? e che tutti cominus et eminus mi riveriscono?

Pseudonimo. O amatissimo e venerabil Tito Melio Strozza gimnasiarca! In quanto obligo mi trovo: mi trovo in un obligo obligatissimo, obligato in modo senza potermene sciorre.

Pedante. Die, quaeso, di che cosa?

Pseudonimo. Che senza altra richiesta m’avete raccolta e allevata una mia figliola, e con tanta diligenza e dottrina che non averei potuto allevarla io che le son padre.

Pedante. Chi sète voi?

Pseudonimo. Per non tenervi a bada, io son Limoforo, padre di Aurelia che voi m’avete nodrita.

Pedante. Voi, voi Limoforo?

Pseudonimo. Io, io Limoforo al vostro servigio.

Pedante. Di che cognome?

Pseudonimo. De’ Pignattelli.

Pedante. Quanto tempo è che la perdeste?

Pseudonimo. D’intorno a dicisette anni.

Pedante. Di che etá era la figliuola?

Pseudonimo. Di tre anni incirca.

Pedante. Avea alcun’altra donna al suo famulizio?

Pseudonimo. Una sua balia chiamata Lima.

Pedante. Voi come la perdeste?

Pseudonimo. Nel tempo della peste di Napoli, io appestato con la mia moglie e figli fummo portati al lazaretto a San Gennaro, dove morí mia moglie e il figlio, e restò la casa sola; e la balia, per timore che non sortisse la medesima sciagura, se ne venne a Salerno.

Pedante. Come sète stato tanto tempo a non cercarla?

Pseudonimo. Come fui guarito, tornai a casa e la trovai tutta svaliggiata. E perché non era ancor la peste estinta, andai a Surrento mia patria, ove son dimorato molti anni; ritornato, feci ogni diligenza per aver novella di lei o della sua balia. Or avutane novella, son stato a Salerno per ritrovarvi; e m’han riferito che eravate in Napoli nell’osteria del Cerriglio, per passare in Roma; e ora ho inteso ch’eravate a questa casa.

Pedante. Sapete alcuni stimmati ch’aveva ella nella persona?

Pseudonimo. Nella mano sinistra una ferita che le fe’ la balia, cadendole dalle braccia; e un nevo rosso nella destra del collo, che fu gola di sua madre d’una cirieggia.

Pedante. Rivolgendomi per le cellule della memoria le cose prima recensitemi da Lima, si conformano con tutte queste: estimo absque dubio che costui sia il suo vero padre.

Pseudonimo. Se la balia fosse viva, sarei certissimo che mi conoscerebbe e sarebbe buon testimone della mia veritá.

Pedante. La balia è viva; e curriculo l’andrò a chiamare.

Pseudonimo. Ma ditemi, di grazia, come Aurelia mia venne in poter vostro?

Pedante. La balia, fuggendo da Napoli, venne a Salerno ad alloggiar vicino alla mia casa. Io veggendo quella puellula di precellente figura, con una cesarie aurea, con cincinni capreolati e vertigini errabondi, d’una preclara indole che mi presaggiva la nobiltá del suo sangue, mi rapí ad amarla e nodrirla come propria mia figlia.

Pseudonimo. Io mi sforzarò pagarvi le spese fatte in quanto posso; ché son certissimo che, per pagarvi l’amor con che l’avete allevata, non sarei bastante pagarlo mai, se non con obligo di avervi a servir mentre son vivo.

Pedante. Io non vo’ altri riscontri che sia vostra figlia; e ve la ritorno volentieri, per essere io di genio molto alieno dalla natura muliebre; e avendo a conferirmi in Roma, mi sarebbe molto incomodo condurvi donne; né essendo cumulato de’ beni della fortuna, come potrei dotarla?

Pseudonimo. Io non so se sogno o se son desto, poiché conseguisco cosa, in un punto, che ho desiderato dicisette anni. Di grazia, chiamatela ché la veggia, ché ogni momento mi par mill’anni.

Pedante. Lima, Lima, vien qui con Altilia.

SCENA X.

Lima, Altilia, Pedante, Pseudonimo.

Lima. Che commandate, padrone?

Pedante. Chiama qui fuori Altilia.

Altilia. Eccomi, che commandate, padre?

Pedante. Lima, conosci quel gentiluomo?

Lima. Mi par di conoscerlo e di non conoscerlo. Giá mi par di conoscerlo; ma non so dove... .

Pseudonimo. Mirami bene.

Lima. Or lo raffiguro assai meglio. O Cielo, questo è Limoforo mio antico padrone!

Pseudonimo. O Lima, ch’io subito in vederti t’ho riconosciuta!

Lima. O padron caro, lascia che ti baci questi piedi e queste mani.

Pseudonimo. Lascia che mi consoli un poco con mia figlia.

Pedante. Altilia, riconosci il tuo vero padre?

Altilia. Io mai ebbi altro padre che voi.

Pedante. Io son stato tuo padre equivoco; questi è tuo padre univoco.

Pseudonimo. Figlia, non posso piú tenermi che non ti abbracci. O figlia ritrovata a tempo, quando meno sperava di ritrovarti!

Pedante. Figlia, questo è quel tuo vero padre qual io stimava morto di peste.

Altilia. Padre, se non son venuta tosto a farvi riverenza, è stato che io ho sempre stimato che costui fosse il mio vero padre.

Pseudonimo. Lascia che t’abbracci un’altra volta, o cara figlia.

Altilia. E ch’io di nuovo ti baci le mani, o mio carissimo padre.

Pedante. O che lacrime stillanti dagli occhi per tenerezza!

Pseudonimo. Questo mi par incredibile, e pur è possibile per mia ventura, carissimo Tito Melio. Io non veggio mai l’ora di portarmela a casa e consolarmi pienamente con lei; però datimi licenza, ché fra due ore sarò con voi: ragionaremo del merito, e dell’obligo che vi devo, e degli amorevoli offici prestiti a mia figlia, acciò prima che partiate di qua per Roma, conosciate la mia affezione. Vi prego che mangiamo insieme questa mattina in questa casetta, la qual da oggi innanzi sará piú vostra che mia.

Altilia. Padre mio, non mi abbandonate e non mi private di voi cosí presto. Desidero che oggi ci riveggiamo insieme, e rendervi le grazie di tanti favori e grazie che in tanto tempo m’avete fatte in casa vostra.

Pedante. Silenzio; faciam. Andate, ch’oggi ci rivederemo; che vuo’ dar conto a questi gentiluomini che m’han tanto favorito, di quanto è successo.

Pseudonimo. A rivederci.

Pedante. A rivederci.




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