< La testa della vipera
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X XII

XI.

«Caro Cesare,

«Eccomi di ritorno in patria, ma ben diverso da quello d’un tempo. Gli anni, l’esperienza del mondo, la mia volontà hanno domato il mio umore, vinto gl’irosi impulsi del mio carattere. Mi sono fatto umile come un povero e mite come un agnello. E sono solo, senza legami, senza affetti, mentre un prepotente bisogno mi è nato di voler bene ad altrui, e che altri mi voglia bene.

«Pensare che questo tesoro d’affetto potrei averlo nella tua famiglia! Il mio padrino, io lo amerei, sento d’amarlo come un padre: te e Matilde, come fratello e sorella. Ma non oso neppure presentarmi alla soglia della vostra casa. Che accoglienza mi farete voi, e quale Alberto Nori?... Certi momenti m’imagino che io, andando a lui con una mano tesa e dicendogli: «Dimentica: io nell’avversario d’una volta, non vo’ veder più che un nuovo congiunto,» egli accetterebbe la mia destra e mi chiamerebbe cugino. Credo di ciò capace il carattere generoso del Nori; ma poi mi sgomento e non oso espormi al pericolo che un ostile accoglimento ridesti in me l’antico dèmone dell’ira.

«Ma di te almeno, spero e confido che tutta affatto spenta non sarà quella benevolenza, che mi dimostrasti un giorno, e ad essa faccio appello, come un assetato per soccorso d’un bicchier d’acqua. Vediamoci; poichè io non posso venire da te, vieni tu da questo povero solitario. Benvenuto tanto più se mi recherai la faccia e il cuore dell’animo di prima: benedetto se potrai darmi da parte dei tuoi una parola di pace.

«Tuo aff. Emilio Lograve


Il fratello di Matilde si affrettò di comunicare quella lettera al padre, alla sorella, al cognato. I due uomini credettero scorgervi sincerità di pentimento, vere intenzioni di accordo e desiderio di affetto: e Alberto, coll’impeto della sua generosa e subitanea natura, manifestò il proposito di andar tosto egli stesso a pigliare per mano il reduce, e trarlo seco, e introdurlo nella famiglia. Ma non fu di questo parere Matilde, la quale con molta freddezza, anzi con molta diffidenza, accolse l’atto di resipiscenza del cugino.

— Cambiato? diss’ella, sarà! Ma prima di ammetterlo in casa, vorrei averne delle prove migliori che le semplici parole. Andare da lui, tu Alberto, no sicuramente. Cesare gli rechi pure il nostro perdono. Viva perdonato, ma lontano; è il meglio per tutti.

Emilio fu con Cesare un commediante perfettissimo. Si commosse di gioja, di tenerezza, di gratitudine; perorò, pianse. Comprese dalle impacciate parole del poco destro Cesare, che Matilde impediva la riconciliazione di andare fino all’espansione dell’amicizia, e disse che essa aveva ragione: che il passato le dava innegabile diritto di diffidare; ma che egli sperava, col tempo, vincere i dubbî e i sospetti anche di lei, e giungere allo scopo tanto agognato di essere pei Nori come pei Danzàno un vero fratello. Intanto non gli si negasse almeno la consolazione di poter vedere il caro padrino, il protettore della sua infanzia, cui egli amava più di tutto al mondo.

Il vecchio Danzàno lo accolse molto freddamente, ma Emilio mostrò non accorgersi di quella freddezza. Cominciò per venire dal padrino una volta la settimana, poi due, poi quasi tutti i giorni. Non cercava mai di vedere Matilde; se la incontrava per caso, la salutava e tirava via. Sapeva svagare il vecchio raccontandogli i suoi viaggi, facendolo discorrere del passato, leggendogli libri e giornali. Lo accompagnava anche a passeggio, sostituendosi a Cesare che preferiva esser libero ed a Matilde e Alberto che consacravano viepiù il loro tempo ai figli. Il caso venne ancora in suo ajuto. Il padre di Matilde cadde gravemente ammalato: ed Emilio, richiamatosi alla memoria quanto aveva studiato di medicina, partecipò alla cura, seppe agli altri medici persuadere le sue idee in proposito, e l’infermo dovette credere che a salvarlo aveva giovato più di tutti e quasi unicamente la cura del figlioccio. In verità egli non risparmiò nè tempo, nè attenzioni, nè tratti servizievoli intorno al giacente, vegliando il più delle notti e sapendo così bene interpretare, indovinare i bisogni di lui, i desiderî, le idee, che nessun altro valeva a soddisfare ugualmente il malato, anche quando già entrato in convalescenza.

Matilde, da principio s’era adattata assai malvolentieri a trovarsi sempre in compagnìa di Emilio, ma poi vedendone la buona, zelante e giovevole opera, si era dipartita a poco a poco dalla primitiva ostile freddezza, e grazie pure alle umili, insinuanti, affettuosamente bonarie maniere di lui, aveva lasciato introdursi fra loro una certa famigliarità che aveva anche le apparenze dell’amicizia. E così non era trascorso un anno dal suo ritorno, che Emilio vedeva effettuato il voto da lui espresso nella lettera a Cesare, di essere cioè accolto nella casa di Alberto e da Alberto stesso come un congiunto. Con Matilde egli continuava nella sua fredda riserbatezza: non cercava mai di essere solo con lei, anzi, ne sfuggiva l’occasione; se la cosa avveniva, egli accresceva ancora la espressione di indifferenza, che aveva di solito, e più presto che poteva, partivasene. Due sole volte quell’interno fuoco, ch’egli così abilmente nascondeva, fu sul punto di manifestarsi.

La prima nella camera del convalescente, quando questi era appunto ritornato da una passeggiatina fatta in compagnìa e col sostegno di Emilio. Stanco il vecchio erasi abbandonato sulla poltrona, e Matilde, che era accorsa sulla soglia del quartiere a riceverlo, e lo aveva guidato fin là, gli accomodava dietro la testa e le spalle i cuscini. Era essa così bella in quell’atto, con una sì seducente espressione di amorevolezza, che Emilio, nel contemplarla, sentì le fiamme salirgli al capo. Nell’ajutarla ad accomodare un guanciale, Emilio incontrò colla sua la mano di lei, e involontariamente la prese, la strinse. Matilde liberò vivamente la destra, e levò in volto al cugino uno sguardo stupito, quasi offeso, interrogatore. Ma il giovane aveva già ripreso il possesso della sua volontà, e il dominio della sua passione; spense con meravigliosa rapidità il lampo degli occhî, atteggiò le labbra ad un sorriso innocente, e disse colla calma d’una discreta ammirazione:

— Che brava infermiera, e che buona figliuola sei tu!

Matilde non ci pensò altrimenti.

La seconda volta così avvenne. Emilio sorprese la famigliuola Nori in uno di quei momenti d’espansione della mutua tenerezza che sono così cari e soavi. Marito e moglie abbracciati avevano intorno i figliuoletti che facevano ressa per essere accolti e carezzati in quell’amplesso anche loro. Quelle testoline bionde, ricciute, quei visini rosei, paffutelli, quegli occhietti vividi, furbicciuoli, amorosi, quei labbruzzi porporini, da cui usciva la cara melodìa di parole nella tenera voce infantile, e in mezzo quelle due belle figure d’uomo e di donna giovani che avevano intorno l’aureola della felicità e della tenerezza, formavano uno spettacolo da commuovere e rendere invidioso qualunque. Emilio impallidì, si scusò di venire a disturbare. La sua presenza pose fine a quella intima festicciuola. Dopo un breve discorso, Alberto si alzò e disse dover uscire.

— Conducimi teco, incominciò il maschietto più grande, conducimi a spasso, babbino mio.

— Sì, sì, conducine, conducine a spasso: gridarono gli altri quattro, serrandoglisi ai panni.

— Adesso, subito, no, no, non posso: disse il padre. Ma fate vestir la mamma, e con essa vi attendo tutti fra un’ora sulla piazza grande... Va bene, così?

— Sì, sì, sì, gridarono i piccini, battendo le mani e saltando. Andiamo, mamma, vieni a vestirti.

— Eh! ci ho il tempo! rispose Matilde ridendo. Andateci intanto voi altri che ci impiegate un anno. Tu Alberto, accompagnali di là, e di’ alla cameriera che li acconci.

Alberto prese in braccio il più piccino, gli altri si attaccarono alle falde dell’abito, ed egli ridendo, gridando, baciando quello che gli si era appeso al collo, senza nemmen più pensare a salutare il cugino, se ne uscì dalla stanza. Fu come un piccolo turbine di allegrìa che si partisse.

Emilio seguì quel padre e sposo avventurato con uno sguardo che si sarebbe potuto dire feroce.

— Ah! si lasciò sfuggire a mezza voce. Che cosa non avrei dato, che non darei per la felicità di quell’uomo!

Matilde sollevò vivamente la testa, e fissò su di lui il suo sguardo limpido e penetrante.

— Che cosa dici?

Emilio fu sollecito a riprendere la sua maschera d’indifferenza.

— Nulla... Che Alberto è un uomo felice, e che se lo merita... e che tu hai avuto ragione a preferirlo... a tutti gli altri.

E si partì.

Lo spettacolo di simili scene, a cui la sua frequentazione in casa Nori lo faceva assistere sempre più sovente, a cui anzi egli cercava di assistere con quella fiera voluttà che altri prova nell’inasprire un forte dolore che lo tormenta; lo spettacolo di queste scene accresceva in Emilio l’odio, la rabbia, l’invidia, gli lacerava il cuore così da mandarlo in furore, quando solo nella sua camera egli ripensava ad esse. Allora il tristo malediceva, bestemmiava, si mordeva i pugni, giurava e spergiurava al suo odio che un giorno l’avrebbe la sua rivincita; l’avrebbe a ogni modo, a costo di qualsiasi delitto, a costo di qualsiasi infamia.

Meditava intanto il suo disegno colla pazienza d’un odio eterno e d’una passione maniaca, camminando guardingo per non metter piede in fallo.

Una mattina, Emilio, entrando colla sua solita famigliarità nella camera di Cesare, assente da casa, sorprese il domestico che si faceva un generoso regalo dei sigari del padrone.

— Cesare non c’è? domandò egli, facendo mostra di non aver visto nulla.

— No, signore, rispose il servo, cacciando destramente in saccoccia i sigari e richiudendo la scatola con mano franca.

— Bene; ma non tarderà a venire, perchè eravamo intesi che sarei venuto a quest’ora: lo aspetterò.

E sedette presso la tavola, prendendo un libro e mettendosi a sfogliarlo.

— Come le piace, disse il domestico; e si mosse per partire.

— Ma voi non avete mica finito di rassettar la camera? notò Emilio.

— No, signore, ma smetto per non disturbare. Là... tornerò più tardi.

— No, no, fate la vostra bisogna; non mi disturbate niente affatto.

Il domestico s’inchinò e riprese il suo lavoro.

Emilio, voltando le pagine del libro, lo guardava di sottecchi. Non era la prima volta che egli facesse attenzione a quel giovane; tutto quello che apparteneva alla casa egli l’aveva esaminato e studiato: la cuoca, una buona donna senza nessuna nota speciale; la cameriera, abbastanza bellina per essere civetta, e giovandosi della facoltà, ma contenuta dalla severità della padrona che non avrebbe tollerato neppure una leggerezza nella sua condotta; fra lei e il domestico, Emilio aveva creduto di osservare alla sfuggita, molto alla sfuggita, qualche lieve cenno d’intelligenza, e si era permesso di appurare la cosa. Il domestico era un giovinotto di venticinque anni, di statura bassotta, tarchiato, con capelli rossigni, fronte bassa, testa quadra, labbra grosse, una falsa aria da nesci, il portamento da contadino rincivilito e negli occhî vivaci, a lampi, la rivelazione d’una intima furberìa che si voleva nascondere.

Su questo cotale, Emilio aveva fondato alcune speranze.

— È da molto tempo che siete in questa casa? domandò Emilio colla indifferenza di chi parla tanto per non istare in silenzio.

— Sì, signore; più di sei anni, fin da prima ancora che il signor Alberto si ammogliasse.

— Vuol dire che siete proprio affezionato al vostro padrone?

— Si figuri!... Sono figliuolo d’un suo contadino. Sono nato, si può dire, al servizio di questa famiglia. Siccome il lavoro dei campi mi piaceva poco e il vivere a polenta e acqua mi piaceva niente, mi sono raccomandato al signor Alberto; ed egli credendo, per sua bontà, di vedere in me qualche disposizione a diventare un buon servo di casa, mi prese con sè...

— E vi ci tiene in panciolle, interruppe Emilio ridendo.

— Eh! non ci si sta male certo... Ma ci si stava meglio quando il signor padrone era scapolo.

— Ah sì?

— Poco da fare... parecchie mancie per commissioni delicate... che ora non si fanno più.

— Ah! briccone! sclamò Emilio con un sorriso incoraggiatore, approvatore. E poi, unendosi anche la famiglia della signora, il lavoro è cresciuto di certo.

— Oh! non mi lamento: i padroni son tutti buoni... Madama è un angelo, severa in certe cose, anche rigorosa, ma un angelo!... Suo padre, povero vecchio, che cosa ne può se la sua malattia ci ha dato tanto da fare? Il signor Cesare è una perla... Oh! eccolo appunto.

Cesare entrava; il servo riprese con zelo la sua finzione di spolveramento. Scambiate appena alcune parole con Emilio, il fratello di Matilde, come soleva, offrì dei sigari e aprì la cassetta. Il domestico raddoppiò di ardore nell’agitare lo strofinaccio.

— Ah, ah! sclamò Cesare che si accorse della sparizione dei migliori sigari. Qui c’è stato un leva ejus... Battista, sapresti darmene notizia?

Il domestico voltò verso il padrone una faccia stupidamente franca e sicura.

— Notizie di che? disse.

— Dei sigari che mancano.

— Oh! ce ne mancano?... Io non so nulla: io non ho manco mai visto che lì dentro ci fossero dei sigari.

Cesare stava per montare in collera.

— È vero, saltò su Emilio: Battista non ne sa nulla, e non ne può nulla, perchè quei sigari sono io che te li ho presi.

— Tu!

— Ne sono rimasto senza; me no son fatta una piccola provvista, che ti restituirò alla prima occasione.

— Va bene, va bene: non parliamone più.

Battista guardò Emilio coll’aria stupita e quasi spaventata, che avrebbe avuto vedendo qualche mostro meraviglioso e arrossì leggermente sotto le lentiggini della sua carnagione: poi girò vivamente sui tacchi e uscì sollecito, forse per andare a meditare intorno a quell’indovinello, di cui non gli si presentava subito la soluzione.

Emilio aveva ammirato la franchezza di menzogna in Battista che, come non aveva scrupoli a rubare i sigari, poteva, per interesse, non averne nemmeno per altre azioni od omissioni. Da quel giorno ogni qual volta s’incontravano il signor Lograve e il servo Battista, quegli aveva un sorriso di compiacenza protettrice, quasi di segreta intelligenza, e questi abbassava gli occhî e tirava dritto a capo chino. Vi era quasi una tacita complicità fra quei due, e il servo sentiva come se l’amico dei suoi padroni gli avesse lanciato nelle carni un uncino e lo tenesse per esso, e anzi questo uncino penetrasse ogni giorno più addentro. Emilio trattava quel servo coi modi più amorevoli e generosi; lo chiamava suo caro, aveva sempre un elogio da fargli, e prendeva ogni menoma occasione per dargli delle buone mancie, a lui e a Lisa la cameriera.

Un giorno, venuto a fargli una commissione da parte di Cesare, Battista trovò il signor Lograve in un lungo corridojo della sua abitazione, ch’egli aveva ridotto a tiro a segno, dove ogni giorno si esercitava per delle ore colla pistola da sala.

— Lo disturbo? disse Battista rimanendo sulla soglia.

— Niente affatto: parlate pure, e io intanto continuo il mio tiro.

Mentre Battista espose la sua ambasciata, Emilio cacciò tre pallottole nel centro del bersaglio, l’una spingendo dentro l’altra.

— Corpo di Bacco! esclamò il servo meravigliato. Che sicurezza d’occhio e che fermezza di mano!

— Peuh! esclamò con indifferenza Emilio, gettando in là la pistola; e voltandosi a un tavolino dov’era un servizio da liquori, si mescette un bicchierino di acquarzente che tracannò d’un fiato. Ne caccierei nello stesso buco cinquanta, cento delle pallottole, l’una dopo l’altra.

— Ah! non sarebbe molto propizio alla salute l’andare a soffiare sotto il naso di vossignorìa.

— Una volta s’aveva poco da scherzare meco; ero un solfino, m’accendevo subito; ma ora ho messo tanto ghiaccio nel mio sangue, che a farlo ribollire ce ne vuole!...

Battista, compiuta la sua missione, prendeva commiato.

— Aspettate, gli disse Emilio. Assaggiatemi un po’ questo cognac.

E gli mescette un buon bicchierino, atto a sciogliere lo scilinguagnolo.

— Ditemi un po’ se vi gusta.

— Oh! eccellente! esclamò Battista, centellinando quel fuoco liquefatto e facendo schioccare la lingua contro il palato.

— I vostri padroni non ne hanno di simile.

Battista fece un gesto evasivo.

— Non è punto cattivo quello di casa Nori, ma io ritengo che il mio è migliore. Che cosa ne dite?

— Mah!... non saprei... Quello di casa non l’ho mai assaggiato.

— Possibile. Avete avuto tanto scrupolo?

— Sissignore... Gli è che lo tengono sotto chiave.

— Ah!...

— Già, in casa tutto è chiuso a chiave: vino, liquori.

— Sigari? soggiunse Emilio sorridendo.

— Bè!... Il signore vuol dire?...

— Voglio dire, s’affrettò a interrompere Emilio, che è un brutto sistema, quello di non lasciar godere alla servitù quel poco di buono che c’è in casa. Per me i servi sono parte della famiglia, e quello che è mio è anche loro.

— Oh bravo! Lei sì ch’è proprio un buon signore!

— La più rigorosa dev’essere madama, mia cugina.

— Proprio!

— C’è quella buona Lisa, la cameriera... bellina, non è vero?

— Peuh! fece ipocritamente Battista, chinando gli occhî.

— Scommetto che vi piace.

— Oh! io faccio i miei affari e lei fa i suoi.

— Ne son persuaso... Ebbene, volevo dire che quella buona ragazza è un po’ vittima dei capricci della padrona.

Battista allargò lo braccia, si strinse nelle spalle colla diplomazìa d’un ingenuo che non vuoi dir nulla.

— Voi siete affezionato al Nori, e non ne lascierete il servizio, a nessun patto, non è vero?

— Sono affezionato ai miei padroni... sissignore... Uscire di quella casa... sicuro... che mi farebbe dispiacere... Ma però... sa bene... se si può migliorare il proprio stato... onestamente, s’intende... è da matto il non farlo.

— Quanto vi danno al mese?

— Trenta lire... e non è molto.

— È poco, in verità, per un uomo come voi... Ci sono di quelli che non vi valgono che guadagnano cinquanta, sessanta lire.

Battista mandò un gran sospiro.

— Eh, bisogna nascere fortunati a questo mondo.

— Ma la fortuna vuol anche essere cercata.

Il domestico fissò i suoi occhietti furbi, penetranti, nel sorriso compiacente e incoraggiatore del Lograve.

— Se alcuno mi ci ajutasse... se s’interessasse per me... Dove sono non ci sto male, non mi lamento, ma via, se potessi stare anche meglio...

— Chi sa! disse con aria misteriosa Emilio, chi sa che un’occasione non si presenti, in cui io stesso possa far qualche cosa per voi!...

— Ah, signore!... Le sarei tanto riconoscente!...

Emilio mise mano al portabiglietti e fece scivolare nella destra di Battista un fogliolino da cinque lire.

— Signore! soggiunse Battista con calore. Se mai avesse bisogno di me, non ha che da comandarmi.

— Va bene, va bene... Chi sa?... Forse più presto di quel che credete.

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