< La virtù di Checchina
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V

VI.

Susanna cavava la roba che aveva comprato pel pranzo, dal grande fazzoletto di cotone rosso, e andava dicendo:

— Questi sono i cannelloni fatti a mano, due libbre, come mi avete detto; queste sono le sardelle da cucinarsi in tegame con olio, mollica di pane e origano: si vendevano a sedici soldi il chilo, ho dovuto gridare per averle a quattordici; questo è un fascetto di pomidoro, per la salsa dei cannelloni...

— E questo, che è? — chiese Checchina, che guardava e ascoltava ancora spettinata, tanto pallida che pareva gialla.

Allora Susanna tirò fuori qualche cosa di bianco, una carta, una lettera che si era bagnata e macchiata di sugo rosso, stando tra il fascio di pomidoro a fiaschetti e un mazzetto di agli.

— È una lettera — disse la serva; — me l’ha data il postino per lei.

Sulla busta di carta inglese diceva: Signora Fanny Primicerio; giusto una macchia era sul nome e l’aveva insudiciato. Dentro, diceva: «Quanto siete stata crudele, oggi! che vi avevo fatto per farmi soffrir tanto? Vi ho aspettato dalle tre alle sette, spasimando. Verrete domani? Siate buona con me infelice. Mi avevate promesso di venire; venite. Vi aspetterò di nuovo, solo, bella creatura destinata all’amore, invocandovi col desiderio. Oh, non mancate, ve ne scongiuro, in ginocchio — Ugo di Aragona.»

D’un tratto, dopo la lettura, a Checchina parve di vederselo inginocchiato innanzi, il bel marchese d’Aragona, in quella cucina umida e buia; e cominciò a tremare tutta e tutto le girò intorno, vorticosamente, la casseruola sul focolare, la graticola sospesa al muro, i ferri da stirare poggiati sull’orlo della cappa del camino, — e il rumore della fontanella che sgorgava nello sciacquatoio, le parve una tempesta.

— Ora casco a terra — pensò tra sè e si appoggiò alla tavola.

— Ha freddo? — disse la serva, sentendola battere i denti.

— Sì, ho freddo — mormorò la padrona, ficcandosi la lettera in tasca, istintivamente.

— Fuori non ne fa tanto, è scirocco. Fosse per caso pena di stomaco? Vuole che le frigga due sardelle, così, alla lesta?

— No, no — e se ne andò lentamente in camera sua, tenendo sempre la mano in tasca, sulla lettera. Ma per lungo tempo non osò rileggerla, temendo che sopravvenisse Susanna e la sorprendesse. La serva scopava nella sala da pranzo e Checchina aveva paura financo che ella si accorgesse dello scricchiolìo della carta. Poi, ebbe una idea: prese il libro delle orazioni, vi mise la lettera, voltò due o tre foglietti, poi aprì la lettera e la lesse, come se leggesse una pagina di preghiera. Oh quella bella lettera, con quella corona di marchese, semplice semplice, scritta con quel caratterino così sottile, così signorile, con l’inchiostro azzurro asciugato dall’arena di oro! Le parole si allungavano languidamente, voluttuosamente, tenendosi per mano, legate da certe lineette esili esili; e sotto la grande firma, chiara e larga, come sonante e squillante. Due o tre volte ella ripetè sotto voce: Ugo di Aragona. Poi, da quello che egli diceva nella lettera, le pareva partisse una musica dolorosa, che la faceva struggere di compassione, come per una grande sventura che gli fosse accaduta. Le pareva di udirle da lui quelle malinconiche parole, pronunziate con una mestizia nella voce: le salivano le lagrime agli occhi. Poi l’impressione si calmò, — e le rimase in mente solo la cifra: egli aveva aspettato dalle tre alle sette.

Mentre la pettinava, Susanna, contro il suo solito, tacque, e Checchina ebbe paura di quel broncio. Che poteva essere?

— Mi ha scritto Isolina... — insinuò, senza far mostra di nulla.

Susanna non rispose.

— Per dirmi che ieri non vi era, a causa di una sua zia che era ammalata.

E respirò, dopo la complicata bugia:

— Sarà stata una zia maschio — borbottò la pinzocchera.

Ma non smise il broncio: invano Checchina le gironzò intorno, presa da un’inquietudine che sino allora non aveva mai provata. Susanna non aveva voglia di discorrere. Poi l’inquietudine di Checchina crebbe: se la beghina parlava della lettera a Toto, come avrebbe fatto ella? E stringeva la lettera in tasca, fra le dita, convulsamente, come se avesse voluto stritolarla: ma di stracciarla non aveva il coraggio. La lesse una terza volta, aprendola in un cassetto del cassettone, sopra un mucchio di tovaglioli: voleva impararla a mente e poi lacerarla, ma ci si confondeva, le frasi si arruffavano nel cervello. Pensò un momento di nasconderla in qualche posto, ma dove? Del cassettone e dell’armadio, Toto le chiedeva ogni momento le chiavi per prendere qualche cosa; la tavola da pranzo aveva i cassetti col pomo di legno, senza serratura, e il tavolino da giuoco, nel salotto, non aveva cassetti. Era inutile, era meglio tenerla in tasca, stava più al sicuro: ma a pranzo, per la inquietudine crescente, visto che Susanna conservava quel suo viso incollerito e quel silenzio dispettoso, Checchina non mangiò che pochissimo. Ogni tanto, nervosa, metteva la mano in tasca a tastare se vi era la carta, e non cavò mai il fazzoletto, per timore di trarla fuori inavvertitamente. Ma la serva non parlò e Toto non litigò, per miracolo. Era stanco come un facchino che avesse alzato delle balle sul molo, e dopo pranzo si addormentò subito, sul letto, bell’e vestito, avvolto nel vecchio scialle, russando come un mantice. Dovettero chiamarlo quattro volte, alle tre e mezzo — e borbottava, raschiando, sputando, che aveva la bocca avvelenata e il mal di capo.

— Ci vai da Isolina, oggi, di nuovo?

— Sì — disse lei, decisamente.

Ma partito il marito, mentre si vestiva, Checchina s’impensieriva ancora di Susanna. Che avesse sospettato qualche cosa? Non ci mancava che questa. Ella si fermava, abbottonandosi il vestito, presa da una fiacchezza, da una sfiducia: poi la musica triste che era nelle parole scritte dal marchese, le toccava certe fibre del cuore per cui trasaliva e si sbrigava a vestirsi.

— A rivederci, Susanna.

— A rivederla — disse l’altra, duramente.

E non aggiunse, Dio l’accompagni, come faceva sempre. Checchina era di nuovo spaventata nelle scale, ma la luce, la via libera l’incoraggiarono e se ne salì per il Nazzareno, adagio adagio: era presto, non doveva arrivare tanto presto. Ma quando fu innanzi al cartolaio di piazza Trevi, si agghiacciò dallo spavento. Aveva lasciata la lettera del marchese di Aragona nella tasca del vestito di casa — e Susanna sapeva leggere anche il manoscritto. Si frugò in tasca, macchinalmente, due o tre volte, pregando fra sè il Signore che gliela facesse ritrovare, come se ancora un miracolo potesse accadere. E cercando sempre, ritornava verso casa, dicendo tra sè:

— Madonna mia, fate che non l’abbia letta! Madonna mia, aiutatemi voi!

Le parve un secolo per tornare. E pregava in sè.

— Apri, Susanna, sono io!

— Ah, è lei — disse quella, seccamente.

Giusto, per una fatalità, aveva sul braccio il vestito da casa. Checchina si fermò, interdetta.

— Ero tornata — disse poi, subito — perchè ho dimenticato la lettera di Isolina, vi era una cosa importante da farmi spiegare: è in tasca la lettera?

Susanna le tese la gonnella:

— La spazzolavo — disse.

Checchina riprese la lettera senza aprirla e se ne andò, pensando: l’avrà letta, non l’avrà letta? Nella via, mentre voltava di nuovo pel Nazzareno, guardò la finestra di casa: Susanna vi era affacciata e la guardava.

— Oh Dio! — pensò Checchina — ora ha visto che non ho voltato per S. Andrea.

Ma tirò innanzi, incapace di far altro, paralizzata nella sua volontà dall’idea che Susanna avesse letto la lettera. A san Vincenzo, un signore la fermò:

— Oh sora Checca, ben trovata, dove va?

Era Alessandro Pontacchini, un amico di casa, che teneva un botteghino di sali e tabacchi.

— Vado qui, sor Sandro — disse lei, tutta scossa da quell’arresto improvviso — qui... per un affare...

— Ci ha degli affari, lei, sora Checca? Lo dirò al sor Toto, sa, che stia attento — disse l’altro, con la sua grossa malizia romanesca.

Ella sorrise debolmente.

— Dalla tintora — spiegò poi — dalla tintora in via S. Marcello, per un vestito...

— Sempre esatta, sempre brava, la sora Checca: eh! di queste donne qui ce ne son poche! E per questo ci rinunzio, io, al matrimonio. Quando ci ho pensato era troppo tardi, sora Checca mia, e il sor Toto era arrivato prima di me — e rise.

Ella restava tutta confusa, senza rispondere.

— Una di queste sere, quando posso lasciar solo Cencio, il mio nipote, a magazzino, vengo da loro a far quattro ciarle. Io metto le caldarroste e lei il vinello bianco, sora Checca. Ci sta?

— Ci sto.

— Lo dica a Toto, a quel fortunato birbone e me lo saluti tanto.

Ella riprese la strada, sempre più agitata. Adesso anche il sor Sandro che sarebbe venuto, che avrebbe detto, che avrebbe raccontato, che avrebbe scherzato di nuovo — e Susanna, a casa, che aveva forse letta la lettera e che dalla finestra l’aveva vista voltare per il Nazzareno, invece che per S. Andrea. E chissà per le vie, quante persone che conosceva l’avevano incontrata e notata ed ella non se n’era accorta! E se quel collega di Toto, di Santo Spirito, l’aveva vista e glielo andava a dire, subito, all’ospedale, e Toto, messo in sospetto, usciva e andava da Isolina e non vi trovava lei, Checchina? E non trovandola lì, andava a casa e Susanna gli narrava tutto, dalla lettera a quel ritorno, a quella nuova uscita, alla combinazione di quelle strade. Eppure camminava, camminava ancora, senza veder più nessuno.

— Dove vai? — disse una nota voce.

Era Isolina: stava fermata presso la birraria del teatro Quirino, appoggiata alla balaustrata di legno, vestita male, con un cappello vecchio e coi guanti ricuciti.

— Dove vai, cara Checchina?

— Venivo da te... — balbettò Checchina, non sapendo più che cosa dire, perduta per quest’altro incontro.

— Da me? da questa parte? Come ti viene in mente? E che hai, bella mia? Ti senti male, forse?

Presala per mano, la trascinò in quel grande palazzo di Sciarra, nel portone dove ancora si costruiva, dove andavano e venivano i muratori, fra i mucchi di calcinacci e le travi che sbarravano il passo.

— Non ho nulla, non ho nulla — rispose Checchina, cercando di riaversi — ma da qualche giorno patisco di sturbi, non so perchè.....

— Sarai gravida forse, Checca mia.

— Ma che! Non so che cosa sia... mi piglia ogni tanto.

— O nina mia cara cara, io dovrei starmene in letto, tanto mi sento male. Che vitaccia da cani è mai questa! quanti dispiaceri abbiamo da inghiottire! Se sapessi, se sapessi... quell’infame di Giorgio, l’amore mio, che mi sta facendo...

— Che ti sta facendo?

— Cose incredibili, Checca mia, da farmi piangere tutte le lagrime che ho in corpo. Nientemeno che io so, sicuramente, che egli fa la corte qui a una di queste chellerine, queste giovani della birraria, una bruna, ed è qui ogni sera, a bever birra, a bever poncini e a dar un franco di mancia, capisci, per ingraziarsela, una porcheria, una sudiceria da non credersi!

— Ma sarà vero?

— Come? Se chi me lo ha detto non può mentire, è tanto un bravo e simpatico giovane, uno studente di letteratura, che fa anche dei versi e li pubblica sopra un giornaletto della domenica e abita accanto a noi; è così buono, viene qui la sera, per fare degli studi che metterà poi nei suoi libri e mi ha detto l’infamia di Giorgio...

— Ci hai creduto?

— Vorrei non crederci, gioia mia, ma quel Giorgio è stato sempre un grande ingrato! Già, si dice, volubile come un ufficiale. Ora, oggi, per dispetto, non ci vado e sono passata qui innanzi, per vedere se posso distinguerla, questa chellerina, già sarà tutta dipinta, me lo immagino. Non ho potuto veder niente; è troppo lontano e i cristalli fanno un riflesso. Ma qui fa freddo, qui dentro. Andiamo, ti accompagno, ti racconterò il resto per la strada.

— No — disse Checchina.

— Non vuoi che ti accompagni?

— No.

— Ah! — fece soltanto l’altra.

Le fiamme della vergogna abbruciavano le guance di Checchina: la voce restava strozzata in gola.

— Avrai fretta, sicchè? — riprese lentamente Isolina.

— Sì.

— È la prima volta che ci vai?

— Sì.

— Ed è un bel giovane?

— Sì.

Restavano ritte, una presso l’altra, a quell’angolo di via dell’Archetto, scusandosi ogni tanto per far passare i carri di pietre e di mattoni che l’attraversavano continuamente.

— Brava Checchina! E non dirmi nulla! Proprio si vede che non mi vuoi bene, punto, che non hai confidenza, mentre io ti ho sempre raccontato tutto, si vede che sei una grande ipocritona...

— Oh Isolina!

— Già, è questione di temperamento, io non te ne faccio un torto, quando si ama, si ha paura. Pure, avrei potuto aiutarti, darti qualche consiglio. Dove abita, lui?

— Qui... qui presso...

— Dove?

— A via Santi Apostoli.

— Brutta strada, pericolosa, troppo vicina al Corso — osservò Isolina, con la sua aria di esperienza — digli che cambi casa, che affitti una stanza ai quartieri alti, è meglio...

— Egli non ci va ai quartieri alti, in una stanza, è un signore, è un marchese.....

— Un marchese? Che marchese?

— Il marchese d’Aragona — e il nome fu sospirato più che detto.

— Aragona? l’ho inteso nominare, un signorone. Ti avrà fatto dei gran regali? Un braccialetto?

— No: mi ha mandato dei fiori.

— Ti avrà scritto delle bellissime lettere?

— Una sola.

— L’hai in tasca, naturalmente? Fammela vedere.

E Checchina gliela fece vedere. Come sempre, subiva la volontà della persona che le era daccanto.

— È bellissima: felice te, Checchina mia, che sei amata. Oh la monacella che non diceva nulla!

— Ti ho detto tutto.

— Va, cara, va, Dio ti benedica: sii prudente, ti raccomando, tu sei nuova a queste cose, un nulla può tradirti, tu non sai a quale pericolo ti metti, va cauta. So io che cosa sia, che ci ho preso le palpitazioni di cuore! Va, non ti trattengo, beata te, se vedo Toto, gli dico che siamo state due ore insieme. Due ore basteranno, neh? O... . ti serve restare di più?

— Oh, Isolina!

— Non ti scandalizzare, non vi è nulla di male. Dammi un bacio, cara, siamo più che amiche, ora siamo sorelle.

E se ne andò per la via delle Vergini, col suo passo saltellante di uccellino frivolo. Checchina camminava piano, ancora abbattuta dallo scorno di aver dovuto dire tutto, parendole oramai tutto fosse finito, poichè un’altra lo sapeva, poichè ella aveva avuto la debolezza di pronunziare quel nome. Quando voltò in via Santi Apostoli, dette uno sguardo alla chiesa e, passando, urtò il cancello, era chiuso. Dinanzi al grande palazzo Odescalchi una carrozza stemmata stava ferma: era vuota, aspettava qualcuno. Poi, dall’altro marciapiede, Checchina vide l’arco e dopo l’arco, due botteghe, e poi la porticina, con uno scalino. Ma sulla soglia, sbarrando la metà dell’entrata, appoggiato al muro, vi era il portinaio, un uomo alto e grosso, dalla faccia volgare e irsuta di peli bigi, con un fazzoletto di lana rossa al collo e un berretto con la visiera, messo un po’ di traverso. Fumava la pipa, guardando in aria. Di botto, sul marciapiede dirimpetto, Checchina si fermò, senza poter attraversare la via. Per entrare nella porticina, bisognava domandare al portinaio di poter entrare, chiedergli se il marchese d’Aragona era su e poi passare. Ella riunì tutte le sue forze, per far questo tentativo, ma a mezza via si fermò di nuovo. Il portinaio aveva un viso brutto e brutale, una di quelle facce irriverenti che disanimano i timidi. Ella arrivò sino dal tappezziere Reanda, cercando di farsi coraggio e attraversò la strada. Passò innanzi alla porticina, non levando gli occhi sul portinaio: eppure vide che costui la squadrava, sfacciatamente. Essa arrivò di nuovo sino alla chiesa: e si voltò a guardare le finestre, disperatamente, come se chiedesse aiuto. Le imposte verdi erano chiuse, il marchese lo aveva detto, che lui amava l’ombra. Allora ella rifece la strada, dal palazzo Odescalchi sino al caffè, all’angolo di via Nazionale, ripassando lentamente innanzi alla porticina. Il portinaio leggeva un biglietto del lotto, con una cèra collerica, ma non si muoveva. Ella non entrò. Per la terza volta, ritornando verso il palazzo Odescalchi, ella ripassò: egli ricaricava lentamente la pipa, premendo il tabacco col pollice — nè si levava dalla soglia.

Allora Checchina abbassò il capo e se ne andò a casa rinunziando.

In Roma, dicembre 1883.

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