< La vita militare
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Il campo L'esercito italiano durante il colèra del 1867

IL MUTILATO.


Di sera, a una cert’ora, l’aspetto della campagna mette nell’anima una malinconia vaga, che somiglia un po’ a quello stringimento di cuore da cui son presi i fanciulli, quando, scappati da casa a girovagar pei campi, di sentiero in sentiero, di podere in podere, vanno avanti, avanti, avanti, fin che s’accorgono tutt’ad un tratto di essere soli; guardano intorno, è un luogo oscuro e sinistro; guardano indietro, hanno perduta la traccia del cammino; alzano gli occhi al cielo, il sole è scomparso; la mamma, povera donna, aspetta: oh Dio, che cosa ho fatto! esclamano, e restan lì come trasognati, con un groppo di pianto nella gola e il cuore tutto in sussulto. Di questa natura è la malinconia che ci entra a poco a poco nell’anima, in campagna, quando il sole è già caduto da un po’ di tempo, e le cose si vanno facendo tutte d’un colore, e lungo le creste dei monti non appar più che una sottile striscia di cielo color d’oro pallido, al di sopra della quale cominciano a spesseggiare le stelle. È un’ora trista. E più la fan trista quel monotono gracidar dei ranocchi e quel lontano abbaiar di cani che rompe tratto tratto il silenzio alto e solenne della campagna. Chi, in quell’ora, cammini per una viuzza solitaria alla volta della città, e ne sia lontano ancora, e non iscorga intorno a sè anima viva, e non oda altro rumore che quel dei suoi passi, quell’abbaiar di cani gli comincia a dar noia, gli comincia a riuscire increscioso; non è già ch’ei n’abbia paura; ma, che so io? ne farebbe di meno, via. Passando dinanzi alle porte degli orti e dei giardini egli va in punta di piedi per non destare il cagnaccio accovacciato là dietro, tien sospeso il respiro, l’orecchio teso; è già quasi oltre la porta, è già quasi al sicuro, quando gli scoppia alle spalle un maledetto latrato che lo rimescola tutto; ed ei tira via senza volgersi indietro; ma gli par di vederlo il rabbioso bestione col muso allo spiraglio delle imposte e gli occhi arrovellati: ih! poterlo sventrare! E va oltre; ma nel mezzo della strada, chè non gli cale del polverio, pur di non passare troppo accosto alle siepi; non ci si vede dentro; potrebb’esservi qualcuno appiattato; non sarebbe la prima volta. S’ei si sente alle spalle un rumor di passi o la voce di due viandanti che discorrono tra loro, non si volta mica indietro a guardar chi sono come se n’avesse sospetto o paura, chè sarebbe parere un dappoco; ma tira innanzi cogli orecchi all’erta e, fingendo di guardar nei campi da un lato della via, te li esplora colla coda dell’occhio. E se spingendo lo sguardo dinanzi a sè vede apparir lontano e venir lentamente verso di lui due uomini a cavallo, avviluppati in un ampio mantello nero e coperti il capo d’un cappello a due punte, il cuore gli si riconforta, affretta il passo, e giunto di fronte a quei due inattesi amici, cede loro tutta la via ritraendosi sur una delle prode, e guardandoli con un’espressione di ossequio amorevole e accogliendo con un cotal sentimento di compiacenza il lungo e severo sguardo indagatore che ne riceve. Quando finalmente arriva a quelle benedette porte della città e scorge i primi lampioni della prima via: — Sia lodato il cielo! — esclama spolverandosi le scarpe col fazzoletto; — ci siamo.

In quell’ora, chi passa dinanzi alla porta d’un cimitero non vi si arresta, comunque non gli attraversino la mente le fantastiche paure del volgo e dei fanciulli; tira diritto, non getta nemmeno uno sguardo al cancello, volta la faccia dalla parte opposta. Passando dinanzi alle cappelle solitarie della campagna, i fanciulli son quasi impauriti dal rumore del proprio passo che, entrando per le aperte finestre, echeggia sotto la volta oscura. In quell’ora, e fin che in occidente si vede un barlume di luce, le famiglie dei villeggianti stanno sulle terrazze, appoggiate al parapetto, a contemplare tacitamente quel mesto spettacolo che è il calar della notte sulla campagna; i ragazzi si accennano l’un l’altro col dito i lumicini che spuntano man mano nei casolari campestri, o chieggono al babbo i nomi delle stelle, e se ci sia dentro della gente come noi; le fanciulle, sedute in disparte, con un braccio sulla spalliera della seggiola e la testa reclinata sul braccio, figgono l’occhio senza sguardo sui monti lontani, e pensano. Ma non pensano a quei monti; in quei momenti il loro pensiero si ritrae infastidito da quella solitudine e da quel silenzio severo; in quei momenti, sebbene elle siano in mezzo alla famiglia, si senton sole, abbandonate; sentono che un qualche gran bene lor manca, sentono che nel loro cuore v’ha un grande vuoto, che la vita esse non la vivono intera; e la loro fantasia corre irresistibilmente alla città, s’interna nel tumulto amabile dei balli, cerca e ritrova dei cari aspetti già da lungo tempo dimenticati, gode nel ravvivarne la immagine, nel farsela presente là, al proprio fianco, a partecipare con loro di quella melanconia soave; e contano il tempo che dovranno ancor passare alla villa, e precorrono colla mente quel tempo, e pregustano la gioia del ritorno e del primo rivedere quei vaghi aspetti, e si destano poi da quelle gentili e meste fantasie come da un sogno.

Oh! quell’ora della sera, in campagna, è un’ora mesta. Anche se vi trovaste al fianco della donna che amate, nel colmo della vostra felicità, non vi passerebbero per la mente che delle meste immagini, non vi sonerebbero sul labbro che delle meste parole.

Appunto in quell’ora, la sera di uno dei primi giorni di maggio del milleottocento sessantasei, in una viuzza deserta che correva a traverso la china d’un colle, accanto a uno di que’ tabernacoli campestri dov’è dipinta l’immagine della madonna sullo sfondo d’una nicchia, stavano parlando sommessamente fra loro una giovinetta e un soldato; quella seduta sur una grossa pietra addossata a uno spigolo del tabernacolo, coi gomiti appuntellati sulle ginocchia e il mento sulle palme; questi ritto accanto a lei, appoggiato con una spalla al muro e le braccia incrocicchiate sul petto. Aveva in capo il berretto, come usano chiamarlo i militari, da fatica; aveva indosso il cappotto, e ai piedi lo zaino, e su questo un involto. La giovinetta aveva nell’atteggiamento un non so che di abbandonato e di stanco, e tenea gli occhi immobili a terra; un lumicino che ardeva dinanzi all’immagine di Maria le gettava un chiarore velato sul volto mezzo nascosto fra le mani, e lasciava scorgere intorno ai suoi occhi l’impronta d’un lungo pianto. Il soldato, senza cinturino e senz’armi, aveva l’aspetto di un soldato in congedo, ed era tale difatti, e apparteneva ad una delle classi che erano state richiamate alle armi il giorno ventottesimo di aprile, e il settimo giorno dopo la pubblicazione dell’ordine regio si dovevano presentare ai comandanti militari dei circondari. Quel soldato si doveva trovare l’indomani nella vicina città, la quale distava una diecina di miglia, o giù di lì, da quel luogo.

A giudicare dall’atteggiamento suo e della giovinetta, e dai lunghi silenzi che frapponevano alle poche e sommesse parole, pareva ch’essi da lungo tempo fossero là. Sulla via, nè presso a loro nè lontano, non c’era anima viva, e vi regnava un silenzio profondo. Solamente, di minuto in minuto, s’udiva un suono confuso di voci lontane, che veniva da una casa posta ai piè della china, dove appariva e spariva a vicenda qualche lumicino; erano contadini di ritorno dai campi, che, riponendo gli arnesi e spingendo i buoi nelle stalle, parlavano forte fra loro da una parte all’altra dell’aia. Ad un tratto il soldato si staccò dal muro, e, presa per ambe le mani la giovinetta che si levò subito in piedi, le disse con quell’accento di timida pietà che si suol dare alle parole annunziando a una persona cara alcun che di doloroso: — È tardi, sai, Gigia. È ora ch’io vada. Domattina bisogna ch’io mi trovi in città per tempo, e la via è lunga.

Ciò detto, si tacque e guardò nel volto la poveretta. Ella, senza far motto, gli si fece vicina, gli posò tutt’e due le mani sopra una spalla, e vi lasciò cader sopra la fronte, e singhiozzò. — Coraggio, Gigia. Fatti coraggio. Due schioppettate e si torna.

— Si torna! — diss’ella sollevando lentamente la testa e lasciandola tosto ricadere. — Chi lo sa! — soggiunse poi con voce di pianto soffocata fra le mani.

Seguì un minuto di silenzio, dopo di che il soldato ripigliò: — Dunque.... a rivederci, Gigia. — Le posò le mani sulle tempie, le sollevò la testa, la baciò sulla fronte, si chinò, prese lo zaino, se lo mise sulla schiena passando un braccio al di sopra del capo, affibbiò le cigne, si chinò un’altra volta per prendere l’involto e, porgendo la mano alla fanciulla, fece atto di partire. Essa che in quel frattempo s’era coperto il viso colla cocca del grembiale e stava immobile in quell’atto come stordita dal dolore, si scosse improvvisamente e afferrando con tutt’e due le mani quella del soldato: — Scriverai! — gli disse con voce ferma e risoluta, volendo così indugiare di qualche momento la sua partenza. — Scriverai tutti i giorni!

— Proprio tutti i giorni, no, mia cara, — rispose con accento soave il soldato.

— E perchè no? — essa domandò sollecitamente in suono di rimprovero.

— E quando si marcia tutto il giorno?

— Già!.... — rispose la fanciulla a mezza voce chinando la testa. Ma almeno, — ripigliò poi rianimandosi all’improvviso, — almeno tutti i giorni che farete una battaglia mi scriverai che stai bene?....

Egli che, altre volte, avrebbe sorriso della cara ingenuità di quella domanda, in quel momento se ne sentì venire al cuore una compassione, una tenerezza, uno struggimento così forte e repentino, che ne fu come sopraffatto, e capì ch’era necessario d’andarsene, senz’altre parole, senz’altri indugi, al momento. L’abbracciò, la baciò, e via di corsa. — Oh! senti, — gridò con voce disperatamente supplichevole la poveretta correndogli dietro per alcuni passi colle braccia tese: — ancora una parola! — Egli non si volse; essa si fermò, si coperse la faccia colle mani, stette un momento immobile in mezzo alla via, poi tornò indietro e si lasciò cader ginocchioni davanti al tabernacolo lagrimando dirotto e singhiozzando lamentosamente come i bambini.

Il soldato seguitava a camminar frettoloso senza rivolgersi indietro. Giunto ad un punto dove la via si partiva in due, si arrestò; dopo un istante di trepida esitazione si volse, guardò al tabernacolo, la vide; essa in quel punto sollevò la testa, guardò verso di lui, le parve di scorgerlo, si alzò in piedi: egli disparve. Aveva imboccato quel ramo della strada che, scendendo rapidamente nella valle, menava alla città.

Raggiunse il suo reggimento sul cominciare di maggio, e d’allora in poi scrisse quasi ogni giorno una lettera a casa, e ne ricevette una quasi ogni giorno, o di sua madre, o di suo padre, o della sua sposa promessa; tutte scritte però dalla mano di quest’ultima, chè nessuno della sua famiglia era in caso di scrivere da farsi capire; solamente il babbo sapeva un po’ d’abbaco pel suo consumo.

Fu alla battaglia del ventiquattro giugno. Dopo quel giorno trascorsero due settimane senza che i suoi ricevessero nemmeno un rigo da lui. Figuratevi le ansietà, i batticuori, il non sapersi dar pace di quella povera gente. Ma un bel giorno, come Dio volle, una lettera venne. Fu una festa. L’apersero colle mani tremanti.... Ah! non era scritta di suo pugno: impallidirono. Ma lettala, si rifecero un po’ dal primo spavento, poichè egli scriveva d’una lieve ferita toccata in una mano il giorno della battaglia, una ferita lievissima, di cui tra pochi giorni sarebbe sparita ogni traccia; e che si sarebbe già levato da letto se non era la febbre venutagli addosso a cagione di quel po’ di sangue perduto; stessero di buon animo che la era cosa da non darsene pensiero; solamente lo scusassero del non iscriver egli le lettere di suo pugno, la mano ferita essendo la destra, e dolendogliene le dita tuttavia; poco però, pochissimo, quasi niente. La famiglia a poco a poco si tranquillò. Dopo una settimana da quel giorno ricevettero una prima lettera coi suoi caratteri, seppero ch’egli era ritornato al suo reggimento, e di quella piccola sventura non fecero più parola se non per dire che a quel poveretto gliene potrebbe ancora incogliere di assai peggiori, e che si doveva ringraziare il cielo che la fosse andata a quel modo.

Povera gente! Se la fosse andata a quel modo, avrebbero proprio dovuto ringraziarne il cielo; ma non sapevano la verità. Il povero soldato era stato colpito da una palla di fucile nella gamba, presso il ginocchio, a un cento di passi dal nemico; la palla gli aveva spezzato le due ossa, la tibia e la fibola; trasportato all’ospedale, gli era stata recisa la coscia a quattro dita dal ginocchio.

Dopo una quarantina di giorni, gli diedero una gamba di legno, un par di stampelle, un foglio di via, e, apertegli le porte dello spedale: — Va, gli dissero, torna a casa, povero giovane, che la tua parte l’hai fatta.

Prima di partire alla volta di casa sua, scrisse alla madre per avvertirla della partenza, e del giorno e dell’ora in cui sarebbe arrivato a casa; scritte le quali cose, si risolvè, si sforzò, ma non gli bastò l’animo a svelarle la sua sventura; dieci e dieci volte gettò sulla carta la prima parola e vi die’ di frego subitamente, quasi atterrito ch’essa gli fosse caduta dalla penna. Ma non era per anco partita la lettera, che gli si affacciarono per la prima volta alla mente tutte le conseguenze possibili, certe anzi, inevitabili e tremendamente dolorose di quel suo inganno troppo pietoso; si dolse amaramente d’aver sempre taciuto quella sua sventura; si meravigliò di non aver pensato mai per l’addietro a quanto dal suo tacere sarebbe seguìto di più tristo e di più desolante nella sua famiglia che non dal dire coraggiosamente tutta la verità; e internandosi, come non l’aveva mai fatto, nell’immaginazione di ciò che sarebbe accaduto in casa sua al suo primo apparire in quello stato, e presentendo il cuore e raffigurandosi la disperazione dei genitori a quella vista così inaspettata e terribile, e pensando alla fidanzata e agli amici, si cacciò le mani nei capelli in atto di desolazione disperata, e pianse.

Ma era tardi.

Giunse nella città vicina a casa sua la sera prima del giorno in cui, giusta la lettera, sarebbe arrivato tra i suoi. Dormì in un’osteria. L’indomani per tempo, aiutato dall’oste, salì sul baroccio di un mugnaio che aveva da passare per quella tal via della collina; posò le gruccie da un lato, si adagiò sopra due sacca di farina, il mugnaio die’ una voce al cavallo, il carro partì.

Correndo la via per parecchie miglia in fondo alla valle, il carro non cominciò a salire su per la collina che alcune ore dopo ch’era partito. In quell’ore, il nostro poveretto che non aveva potuto chiuder occhio la notte, oppresso com’era stato da una rapida e torbida seguenza di pensieri, d’immaginazioni e di presentimenti dolorosi, in quell’ore era caduto in una specie d’assopimento, conciliato dalla monotonia della strada e dalla lentezza dell’andare, e non interrotto che a quando a quando dai sobbalzi del carro sulle ineguaglianze del terreno. Ma quando, sentendosi tutt’ad un tratto ferir gli occhi da una luce più viva e alitare nel volto un’aria più acuta, s’accorse che il carro era uscito di mezzo agli alberi e cominciava a salire, allora si destò di soprassalto, intravide quella collina, quella via, quelle case, richiuse gli occhi all’istante, torse la testa all’indietro come preso da un subito spavento e si gettò bocconi sulle sacca colla faccia tra le mani. Il cuore gli faceva un gran battere; il sangue gli si rimescolava violentissimamente; il cervello gli si era ad un tratto stordito come per un gran colpo sul capo. E restò lungamente in quella positura.

Se ne tolse poi a poco a poco, alzando prima la testa, appuntellando le mani sulle sacca per rizzarsi a sedere, rizzandosi poi, sempre colle spalle volte alla collina, e storcendo finalmente il capo verso quella parte, senza sollevare lo sguardo. Di lì a un poco cominciò a guardare il cavallo, poi a spinger gli occhi un po’ più oltre, sulla via, a destra, a sinistra, innanzi: ah! eccole quelle benedette case. E il cuore gli die’ un balzo improvviso come s’ei fosse capitato là per accidente e quelle case gli fossero apparse davanti all’impensata. Esse erano ancora molto lontane, non apparivano ancora distintamente, rendevano appena l’immagine d’una macchia biancastra mezzo nascosta fra gli alberi; eppure gli pareva che fossero vicine, molto vicine; gli pareva che indi a pochi minuti ei vi sarebbe arrivato, e i genitori e i congiunti e gli amici sarebbero accorsi attorno al carro, ed egli avrebbe dovuto discendere, e come! come discendere, Dio mio! E se le immaginava, e gli sembrava di vederle tutte quelle care persone che a quell’ora dovevano certamente essere radunate in crocchio sulla via, dinanzi alla porta di casa, o sparse per l’aia, ad aspettarlo! Gli sembrava di sentirsene venir all’orecchio fioche fioche le voci festose, e fra quelle voci di distinguerne una più caramente soave, e il cuore gli si stringeva, e avrebbe voluto che quelle case fossero ancora lontane, tanto lontane da non iscorgerle ancora; e invece erano lì, proprio lì, e pareva s’avvicinassero a lui molto più rapidamente ch’ei non si avvicinasse ad esse, e chinava la testa e chiudeva gli occhi per non vedere. Ma gli era un tormento peggiore perchè schiudendo, per un istante, le ciglia e risollevando lo sguardo, gli parea d’aver fatto, in quel frattempo, un grande cammino, un cammino a cento doppi maggiore di quel che aveva fatto in realtà. Allora pensò di volger le spalle al cavallo, e, girando adagio adagio la gamba monca, si volse. Ma non gli venne fatto di star lungo tempo così, chè ad ogni minuto si sentiva irresistibilmente sforzato a torcer la testa all’indietro, con grave incomodo di tutta la persona. Riprese la posizione di prima. E, gettando gli occhi a destra e a sinistra della via, scorse, poco lontano, una gran quercia col tronco spaccato nel mezzo, e i rami folti e frondosi, sotto la quale v’era un’assicella sorretta da due pietre a uso di sedile; fissò lo sguardo su quel sedile, si toccò con una mano la fronte come per accennare a se stesso il sorgere improvviso d’un ricordo; gli occhi gli sfavillarono, le gote gli si colorarono di fiamma, giunse violentemente le mani incrocicchiando le dita, e, sempre tenendo lo sguardo immobile là, andava abbassando e sollevando continuamente la testa, come per dire di sì a tutte le ricordanze che gli si andavano risvegliando, l’una chiamata dall’altra: di sì, di sì, che gli era proprio quello il sito dov’egli era venuto una sera, con lei, malgrado l’ammonimento della madre: Non v’allontanate di troppo! Ed ella non ci voleva venire, chè gli era un dilungarsi sconvenientemente da casa, e poi a quell’ora, a sera avanzata, sola con lui! Ma, Dio buono, ei l’aveva tanto pregata, e il cielo era così limpido, e l’aria così tepida, e tutta la campagna così odorosa, che le era stato forza cedere e venire, ed era venuta. E s’eran seduti là, su quell’assicella, e s’erano scambiate poche parole; ma rapide, accese, tremanti; ed egli aveva cercato la mano di lei, che, impaurita dal pensiero del trovarsi sola con quegli che amava, aveva stretto il pugno e lo ritraeva con gentile violenza, ed egli aveva dovuto vincerne le dita uno per uno, e mentre riusciva a stendere il secondo, si ripiegava il primo, finchè la manina indolenzita si schiuse, e fu sua... Rapito nella ricordanza di quella sera beata, il povero mutilato, per un’allucinazione in cui ci fa cadere frequentemente la fantasia alla vista d’un luogo a cui siamo legati per un caro ricordo, il povero mutilato rivisse in quella sera, dimenticò il tempo che era trascorso fra quella sera e quel giorno, dimenticò tutto ciò che era accaduto in quel tempo, la guerra, la ferita, la gamba recisa; il pensiero che di lì a poco avrebbe riveduto quella fanciulla gli si affacciò alla mente solo, staccato da quei tanti altri pensieri dolorosi che solea trarsi dietro; il sentimento d’una felicità sovrumana gl’invase l’anima, gliela inebriò, gliela oppresse; mosso da un impulso irresistibile del cuore, fece uno sforzo per rizzarsi in piedi senza l’aiuto delle braccia, e lo fe’ sì violento, che i nervi estremi della gamba monca, premuti forte contro il legno, ne furono offesi e gli trasmisero alle reni un senso di dolore tremendo, che gli strappò un grido dal labbro e, rigettandolo duramente dalla cara illusione nel sentimento della triste realtà, lo fece cadere bocconi sulle sacca del carro, colle mani nei capelli, mormorando in accento singhiozzoso e desolato: — Oh! in questo stato non mi vorrà più! non mi vorrà più! —

Il mugnaio, che andava a piedi dinanzi al carro, si volse e gli chiese: — Vi sentite male? — Il soldato rispose seccamente di no; egli non aggiunse parola. Il poveretto stette immobile a quel modo per un lungo tratto della via, e fu meglio per lui, poichè se avesse girato lo sguardo sulla campagna, ad ogni passo gli si sarebbe svegliata una rimembranza nuova, e con essa un nuovo dolore.

Intanto, a casa sua, egli era atteso dai parenti, dai congiunti, dagli amici, i quali, avvertiti il giorno innanzi di quel caro ed insperato arrivo, erano convenuti gaiamente alla sua casa paterna per fargli un po’ di festa e un po’ di onore.

Al primo rischiararsi del cielo, i due vecchi genitori s’eran levati e vestiti con quella lieta pressa dei fanciulli che si apprestano a una bella passeggiata in campagna; e s’eran messi a girar per la casa a passi frettolosi, spalancando porte e finestre, battendo forte le mani al capezzale dei dormienti, e vociando: animo, giù dal letto, ragazzi. I dormienti, destati così all’improvviso, spalancavano gli occhi e la bocca e giravano intorno uno sguardo pieno di sonno e facevano quella cera imbroncita e stizzosa di chi è sturbato nella pigrizia; ma, non appena riavutisi dal sonno, ed afferrata col pensiero la ragione di quell’improvviso gridìo, s’animavano tosto di una grande letizia, mescolavano allegramente le loro voci a quelle dei parenti, balzavano anch’essi dal letto, si vestivano in furia, e via per la casa, e per l’aia, per la via, e per gli orti, a sbrigare con inconsueta sollecitudine le usate faccende, sorridendosi l’un l’altro ad ogni incontro e facendosi dei cenni faceti da lontano e incitandosi a vicenda colla voce a far presto. Poco dopo giungeva ansando la giovinetta, la sposa promessa, la quale stava di casa là presso; giungeva di corsa, accompagnata da due amiche, vestita a festa, con un mazzolino di fiori nei capelli, tutta rossa nel viso; incontrò subito la madre, sorrise, arrossì, le si gettò nelle braccia, e poi scioltasene di repente e fattosi due e tre volte schermo col gomito da chi volea guardarla nel viso per dirle una cortesia, si pose in giro anch’essa per quella casa, che era come sua; e tutte assieme cominciarono ad assestare e spolverare arredi e masserizie, a lavorar di granata in ogni angolo più riposto, a rimuovere letti dalle pareti, a smuovere sacconi, a bilicar cavalletti, a scuotere fuor delle finestre lenzuola e coperte, a trar dagli armadi certi candelieri d’ottone tenuti in serbo per le grandi occasioni, e sulle rastrelliere, e nelle inferriate delle finestre, e attorno ai quadretti, e al di sopra delle porte, a disporre e a legar frasche e mazzetti di fiori campestri. Così che al primo apparir del sole, quella casa era netta, nitida e odorosa come un giardino; l’aia liscia e pulita come una lastra di marmo; non una foglia o un fuscello, chi lo avesse cercato un’ora. — E non si poteva far di meno, via, per ricevere come si deve un soldato che torna dalla guerra, e torna ferito! — Così, poichè ebbero finito di lavorare, diceva la buona vecchia all’altre donne, passando di stanza in stanza, ed indicando loro con compiacenza il bell’ordine e la nettezza di tutte le cose. — Sicuro! — risposero l’altre.

E uscirono sull’aia. La madre restò; chiamò per nome la fanciulla, che accorse tosto salterellando; la prese per una mano, la condusse nella sua stanza, e quivi, sospingendola dolcemente dinanzi a uno specchietto: — guardati, — le disse, — ti si è sciupata la divisa. — Dio mio! — esclamò la giovinetta facendo un viso tutto crucciato, — o come mai? — Spenzolano frasche da tutte le parti, — rispose la vecchia, — e tu corri di qua e di là come una pazzerella senza badare a chinar la testa.... Siediti. — E la giovinetta sedette, e la mamma le si fece dietro, e le sciolse le trecce, e le ravviò i capelli, e poi stringendoglieli tutti con una mano per tenerli ben tesi e potervi segnare coll’altra la dirizzatura, le faceva scherzosamente chinar la testa all’indietro abbassando il pugno a grado a grado, e le serrava fra il pollice e l’indice il mento o stuzzicavale con un dito la fontanella della gola, per cui ella si scontorcea sulla seggiola con quel riso convulso dei ragazzi solleticati. Le rifece le trecce, vi riappuntò le forcine, le fe’ scorrere due o tre volte sui capelli le mani aperte e tese perchè riuscissero ben lisci e lucidi, e poi, posatele le mani sulle spalle e guardatala in volto, le die’ un bacio e si allontanò dicendole: — Andiamo. — La fanciulla si alzò e la seguì tenendo la faccia rivolta verso lo specchio fin ch’entrò nella stanza vicina. Quivi, lasciata uscir la madre, sollevò leggermente un piede da terra, e, fatto perno del calcagno dell’altro, die’ un doppio giro intorno a se stessa, e si accoccolò d’un tratto volgendo indietro la testa a rimirar con vezzosa curiosità le gonnelle gonfiate dal vento che parevano una veste co’ cerchi. Subito dopo accorse anch’essa sull’aia.

Tutti gli altri, parte sparpagliati sull’aia, parte sur un tratto della via dinanzi alla casa, erano in continuo moto da quella a questa, da questa a quella, come se scottassero i piedi a restar fermi un momento. E in quel continuo girare, non si dava mai il caso di due persone, le quali, incontrandosi e guardandosi, non si scambiassero una lieta parola o un sorriso, però che lo sguardo dell’una rammentava all’altra la gioia comune, e glie ne rinfrescava, per così dire, il sentimento. Il fratello della fidanzata, passandole accanto, o le dava un gagliardo pizzicotto nel braccio pel maledetto gusto di strapparle un guaìto, o, sorpresala alle spalle, le afferrava ambo i gomiti e li forzava l’un verso l’altro in atto di voler ch’e’ si toccassero, e quel: va via sgarbato! che gli toccava poi in castigo, accompagnato dalla minaccia d’un ceffoncino che non veniva mai, gli dava un gusto matto. Le amiche la traevano a volta a volta in disparte, e si aggruppavano intorno a lei per susurrarle nell’orecchio non so che parole, a cui soleva seguire uno scoppio di risa e un rompersi repentino del crocchio e uno sparpagliarsi di corsa. Di quando in quando il vecchio babbo, fermandosele dinanzi e facendo un visaccio serio serio, le diceva: — Non viene. — Come? perchè? chi ve l’ha detto? essa domandava concitatamente, tramutandosi in volto. — Mah!... me l’immagino — rispondeva sorridendo il vecchio. — Ah! esclamava essa mandando un sospiro e rasserenandosi ad un tratto — avete scherzato. Voleva ben dire, io! Oh stiamo a vedere perchè non avrebbe dovuto venire!

E poi volgendosi alla madre che era fuor del portone dell’aia e tendeva lo sguardo lungo la via: — Mamma, — le chiese, — vedi nessuno?

— Non vedo che un carro lontano lontano. — La fanciulla riprese a celiare col vecchio, senza darsi alcun pensiero.

Intanto il carro era giunto a poco più che trecento passi da quella casa, e nel cuore del soldato era seguìto uno strano mutamento. Pareva ch’ei non avesse più un vivo e vero sentimento del suo stato, che non sapesse più dov’era diretto e gli fosse sfuggita la memoria dei luoghi ove passava, tanto ei teneva lo sguardo stupidamente immobile sulla sua casa di cui cominciavano ad apparire distintamente le finestre e i terrazzini di legno, o lo girava lento e senza vita sui campi, sulle case e sugli orti vicini alla via. S’avvicinava a casa sua come ad un luogo sconosciuto. La sensitività del suo cuore si era, in certo modo, esaurita. Siffatta è la nostra natura, che subiamo con fredda impassibilità e con una specie di morto abbandono l’eccesso di quei dolori, che ci eran parsi insopportabili da principio. E però quel povero infelice, come se avesse smarrito affatto il presentimento della desolazione che andava a gettare nella sua famiglia, ora stava tutto intento, colla bocca aperta e gli occhi immoti, al rumore monotono del carro; ora, dato un colpo colla mano aperta sur un sacco, stava attonito a rimirar il bianco spolvero che se ne levava; ora sfibbiava e raffibbiava sbadatamente le cinghie tese fra quelle due stecche commesse al vasotto di legno in cui S’introduce la gamba monca (due stecche che stringon fra loro e tengon ferma la coscia sul suo sostegno); ora, impugnata una gruccia presso al puntale, ne andava battendo leggermente il manico sulla punta del piede.... Ma già da un po’ di tempo risentiva un lieve dolore all’estremità di quella povera coscia, comunque l’avesse accuratamente ravvolta in certe pezzuole di cui gli avean riempite le tasche all’uscir dallo spedale; e però, quasi senza addarsene, sfibbiò un’ultima volta le cinghie, allungò il braccio, tolse quello sciagurato arnese, lo sollevò, e se lo pose allato. Rimasta libera la coscia, il dolore si attutì.

E il carro andava, andava, ed egli, senza darsi altro pensiero, passava e ripassava la mano sulla coscia come per addormentare quel po’ di dolore che ancor vi rimaneva, quando, levati gli occhi, si tramutò improvvisamente nel volto, giunse le mani, die’ un grido e stette immobile, come una statua, in quell’atto. Aveva veduto il tabernacolo di quella sera; era ritornato in sè stesso; tutte le memorie, già da qualche tempo sopite, gli si erano, in quel punto, ridestate tumultuosamente, e il suo cuore, assalito all’improvviso da una folla di affetti violenti, gli avea dato una terribile scossa. Guardò lungamente il tabernacolo colla faccia pallida e gli occhi dilatati e le labbra tremanti; poi tese le braccia in atto supplichevole e gridò: — Oh Gigia! Oh mia Gigia! — e ricadde bocconi sul carro.

In quel punto un grido acuto gli ferì l’orecchio e gli rimescolò il sangue da capo a piedi. Levò la testa, guardò, intravide, afferrò la gamba di legno, vi cacciò dentro la coscia, adunghiò colle dita convulse le cinghie, tentò, tentò, non riusciva ad affibbiarle, Dio mio! non riusciva; e intanto tutta quella gente si avvicinava, colle braccia aperte, colla bocca preparata ad un grido di gioia che non potea mandar fuori; e oramai il poveretto non faceva più che stropicciarsi con ambe le mani la coscia come un insensato.... Ah! eccoli, eccoli presso; fu la madre la prima; gli tese le braccia con un sorriso divino sul volto, chinò gli occhi, intravide, gettò un grido, dal più profondo dell’anima, tremendamente disperato, gli si avviticchiò al collo gemendo, e stette. Tutti gli altri si copersero colle mani la faccia.

Dopo un minuto egli era a terra; le cinghie gli erano state affibbiate senza ch’ei se ne accorgesse. — Lasciarlo andare da sè, pensarono tutti ad un tempo, vederlo camminare a quel modo? Oh no! bisogna portarlo. Portarlo? No! no! si portano i moribondi, e non.... no portarlo, no! — Questo pensiero passò, come un lampo, per la mente di tutti. In quel lampo il povero mutilato s’era messo le gruccie sotto le ascelle, e per abbreviare ai suoi cari quello spettacolo doloroso, s’era diretto, a lunghi salti, verso casa. Lo guardarono! Tutti, tranne la madre e la fanciulla; esse aveano celata la faccia l’una nel seno dell’altra.

Entrò in casa pel primo; subito dopo gli furon tutti intorno, gli tolsero di mano le gruccie, lo fecero sedere presso alla tavola; egli vi incrociò sopra le braccia e abbandonò sulle braccia la testa. Ma tosto una mano tremante gli si posò sulla fronte; egli alzò il capo, si vide innanzi un seno ansante con grande violenza, conobbe di chi era senza levar gli occhi, e nascose il volto in quel seno. Intorno intorno era un profondo silenzio; non si poteva piangere ancora.

Tutto ad un tratto scoppiò un singhiozzo. Il mutilato si svincolò rapidamente dalle braccia della madre, lanciò uno sguardo all’intorno: — Sei tu! — gridò, cogli occhi lucenti di pianto, ed aperse le braccia. La giovinetta vi si gettò con uno slancio che avea del delirio. La madre, colpita da una subita idea, si volse agli astanti, fe’ loro un rapido cenno e tutti sparirono in un istante, ed essa li seguì.

La fanciulla girò l’occhio nella stanza, e, non vistovi alcuno, avvicinò in fretta una seggiola a quella del suo povero soldato, sedette, gli afferrò una mano colla manca, gli posò la destra sur una spalla, e col volto tutto sparso di lagrime e col petto ansante cominciò un dire sommesso, precipitato, rotto, affannoso, gettando all’uscio un’occhiata ad ogni ripresa di fiato, per veder se alcuno giungesse.

— Senti, Carlo, e credimi; credimi, che io ti parlo proprio col cuore; io ti voglio più bene di prima, io ti sposo più volentieri così.... come sei adesso, che se tu fossi ancora com’eri una volta; vorrei morire, guarda, morire in questo momento se non ti dicessi schietto schietto quello che sento; e se fossi tu, — sentimi, Carlo e non piangere a quel modo, — se fossi tu che non mi volessi più me, ebbene, e verrei io a pregarti colle mani giunte per essere tua, a dirti che senza di te io non posso vivere, ecco; e se tu mi rispondessi di no, io cadrei subito malata. — Ma via, non disperarti così. — E se tu non fossi ritornato dalla guerra, se io (e premette le labbra).... se il Signore m’avesse mandata questa disgrazia di doverti perdere, o che tu credi ch’io n’avrei preso un altro in vece tua? Nemmeno se fosse venuto il re, guarda. E adesso, sai, se prima ti voleva già un bene dell’anima, adesso (e in ciò dire si coperse il volto col grembiale e die’ in un forte scoppio di pianto).... adesso ti starei davanti in ginocchio.

E scivolò giù dalla seggiola e cadde ginocchioni davanti a lui che, affatto fuor di sè dalla gioia, con certi gemiti tronchi, con certe voci inarticolate, e più coll’atto animato del volto che improntava divinamente il pensiero, e con un agitar convulso delle mani, le voleva dire una parola, una sola parola; ma non gli bastava il fiato a mandarla fuori intera, e si andava sforzando, sforzando, finch’ella eruppe tre volte, sonora, sviscerata, entusiastica: — Oh grazie! Grazie! Grazie! —

E la prese per le braccia e fe’ atto di sollevarla.

— No! no! — ella rispose con un accento risoluto in cui si sentiva tutta la veemenza del suo vergine affetto; — lasciami stare così, voglio stare così. — E si rasciugò gli occhi e proseguì concitata:

— Staremo sempre assieme. Io non andrò più a lavorare in campagna, ti starò tutto il giorno vicina, non ti lascerò mai solo un momento, lavorerò in casa, seduta accanto a te, così come adesso.... Ma che cos’hai, Carlo, che piangi in quel modo? Dimmelo a me, che ti voglio tanto bene....; che cos’hai?

— Ma.... — le rispose il poveretto con voce timida e tremante, — ed io...?

E non potè seguitare.

— E tu?... Ebbene, che vuoi dire con ciò? Dimmi tutto, Carlo.

— Ed io! io! come faccio a lavorare io? — e chinò la testa fra le mani scotendola in atto disperatamente sconsolato.

— Ma Carlo, ma perchè mi parli in quel modo? Ma non ci son io per te? Non ci siamo tutti? Io a cucire in bianco son buona; capirai non lo dico mica per lodarmi; con te, figurati!.... E la signora, quella tale, sai, quella della villa qui accanto, m’ha già offerto del lavoro altre volte, ed io ho sempre detto di no; ma adesso...., e tanto più quando essa saprà che sei tornato così....; ed io mi porterò il lavoro in casa, sta bene? E lavorerò accanto a te, e tu mi racconterai tutto quello che hai visto, e i paesi e le campagne dove siete passati, e se ti ricordavi sempre di me, e cosa facevi tutto il giorno, e se avevi dei compagni qui del paese, e di che cosa discorrevate fra voialtri....

E tirava innanzi su questo tenore, e si andava man mano infervorando, sempre ginocchioni davanti a lui, tenendogli una mano sopra una spalla e rigirandogli per diritto, coll’indice e il pollice dell’altra, i bottoni del cappotto ch’eran rimasti col numero alla rovescia. Le gote le si erano suffuse d’un vivo color di rosa, gli occhi le s’erano animati d’un lume soave, e la parola le scorreva dal labbro così spontanea, così calda e viva e improntata di tanta dolcezza, e v’era nei suoi gesti, nei suoi sguardi, ne’ suoi sorrisi, in tutta la sua persona, e persino in quel suo umile atteggiamento tanta ingenuità, tanta grazia, che il buon soldato la guardava e la stava a sentire come un estatico, e quand’ella ebbe cessato di parlare e gli fissò gli occhi negli occhi come per domandargli d’una parola di consolazione, ei gliene diede una che la giovinetta non poteva desiderar più cara. — Oh Gigia — le disse — tu mi fai dimenticare la mia disgrazia!

— E non te la lascierò mai più ricordare! — gridò con trasporto quel buon angelo. E si abbracciarono e piansero.

La mamma aveva avuto una buona idea.

In quella, sentirono venir dall’aia un rumor concitato di molti passi e un bisbiglio confuso di molte voci. La giovinetta balzò in piedi e si scostò d’alcuni passi dal suo soldato; entrambi volsero gli occhi alla porta da cui veniva il rumore. — Dov’è? Dov’è? — gridò una voce dal di fuori. E quasi nel tempo stesso apparve un giovanotto, pallido, trafelato, senza voce; guardò intorno, e non sì tosto vide il soldato che gli fu d’un salto fra le braccia. Erano stretti amici da molti anni. Il nuovo arrivato era però assai minore d’età, e apparteneva alla seconda categoria della classe del milleottocento quarantacinque, stata chiamata, appunto in quei giorni, alle armi. E proprio quella sera, il buon giovanotto, pigliato congedo, non senza pianto, dai suoi, moveva alla volta della città, allorchè, passando dinanzi alla casa dell’amico di cui ignorava il ritorno, era stato chiamato dalla famiglia, fatto consapevole dalla sventura toccata al suo Carlo, e sospinto nelle sue braccia. Tutta la famiglia gli aveva tenuto dietro, e la madre, appena posto piede nella stanza e lanciato uno sguardo indagatore sul volto dei due fidanzati, tuttora lagrimoso, ma illuminato d’una gioia profonda, aveva tutto compreso, si era sentito al cuore un grande sollievo, e mentre suo figlio tenea il capo fra le braccia dell’amico, aveva trasfuso quel sollievo, più co’ cenni che colle parole, negli altri.

Finalmente il mutilato si sciolse da quel lungo abbracciamento, fe’ cenno all’amico che gli sedesse accanto, e, passato due o tre volte il rovescio della mano sugli occhi, fece capire che avea da dir qualche cosa. Tutti gli si strinsero attorno; più accosto a lui, la madre e la fanciulla.

— Sta di buon animo, — egli cominciò rivolgendosi all’amico che pareva scoraggito e triste; — sta di buon animo, camerata. Non ti lasciar pigliare da certe malinconie. Lo so anch’io che, a veder me in questo stato, ora che stai per partire, e hai lasciato la famiglia un momento fa, e devi andare a fare il soldato, e vai adesso che c’è la guerra, ti fa pena vedermi in questo stato; pensa un po’ se io non lo capisco, povero giovane. Bel guadagno, tu dirai, a far quel mestiere! Ma, Dio buono, a che serve disperarsi? Bisogna farlo il soldato, volere o non volere? Sì, e dunque! tanto vale torsela in santa pace e partire si buona volontà; lo capirai anche tu. E poi, e poi.... io, già, ti dico schietto che, se era proprio destino che mi toccasse una disgrazia come questa, tra l’averla toccata qui ruzzolando giù da un carro o giù da una scala, e l’averla toccata là, preferisco là. È naturale. Non ti voglio mica dire con questo che io mi trovi contento del mio stato d’adesso; ma in fin dei conti, vedi, in questo mondo ci si ha da star poco, e quando c’è della gente che ci vuol bene, questo è quel che preme, il resto che importa? Io son tornato così come vedi; ebbene, e che per questo? Forse che mia madre, e mio padre, e qualcun altro mi vogliono meno bene di prima? —

E alzò gli occhi su di loro. I vecchi genitori, giungendo le mani, esclamarono: — Oh Carlo! — Qualcun altro non fece che lanciargli un lungo sguardo d’inesprimibile tenerezza.

— Più di prima, — egli prosegui coll’accento e col volto improvvisamente animati, — più di prima. E tutti, dopo che mi colse questa disgrazia, mi vollero più bene di prima, tutti. Se tu ti fossi trovato all’ospedale con me, avresti visto delle cose da non credersi, caro mio. Dopo una ventina di giorni ch’io era là, passò per quella città il mio reggimento; tutti gli uffiziali della compagnia son venuti a vedermi, e anche degli altri, capisci? E son venuti intorno al mio letto, e ci stettero una buona mezz’ora, e c’era il capitano che mi guardava e piangeva, e un altro uffiziale, un giovinetto senza barba, anche lui. E gli ho visto io co’ miei occhi calar le lacrime giù per la faccia. E un altro uffiziale (io aveva un po’ di febbre) mi posò la mano sulla fronte, e un suo vicino gli disse: — Levala, gli dài fastidio. — E mi raccomandarono al dottore e agli infermieri e mi dissero che facessi scrivere alla mia famiglia; ma senza dire che cos’era accaduto, chè n’avrebbero sofferto troppo. E tutti, dal primo all’ultimo, prima di andarsene via, mi strinsero la mano, e il più giovane, quello che comandava la seconda squadra dov’ero io, colse un momento che gli altri non guardavano e mi baciò sulla fronte, e quando fu sulla porta si voltò ancora indietro a farmi un saluto colla mano. Hai capito? E un giorno venne un generale vecchio vecchio, col petto tutto coperto di medaglie, e tanti uffiziali dietro, e si avvicinò al mio letto col berretto in mano, e anche tutti gli altri avevano il capo scoperto, ed egli, il generale, mi domandò com’io stava e dov’era stato ferito e in che modo, e quando gli ebbi raccontato tutto, mi pare ancor di vederlo, alzò gli occhi al cielo, strinse le labbra con un sospiro, e mi disse: — Fatti coraggio, figliuolo. — E poi mi strinse la mano, capisci, lui che era generale. Aveva una mano scarna scarna; era tanto vecchio! E io glie l’avrei baciata quella mano se non avessi avuto paura di mancar di rispetto; mi pareva un altro mio padre. Ah! bisogna esservisi trovati in quei momenti per poter sapere che cosa si prova! Si scorda tutte le disgrazie, si scorda. E poi, anche prima... vedrai, camerata; altro è parlarne da lontano, altro è trovarsi là, proprio là in mezzo a tutte quelle baionette, i superiori dinanzi a cavallo colla sciabola in aria, e le bandiere, e la musica, e tutte quelle grida; il cuore ti si accende, e la testa ti gira e ti gira, e la palla t’ha già colto che tu gridi ancora: Avanti....

In quel punto s’udì nella strada un’armonia festosa di canti e di suoni di piffero e di zampogna.

— Sono i miei compagni che partono, — gridò il coscritto balzando in piedi con subita allegrezza.

Il mutilato si accese repentinamente nel volto, si rizzò anch’egli in piedi sorretto dalla madre e dalla fidanzata, si fece condurre sul limitare della porta, vide i coscritti che partivano, e die’ loro un grido: — buon viaggio, ragazzi, buon viaggio! — Essi si voltarono verso di lui, intravidero la gamba tronca, capirono, e gli risposero tutti ad una voce: — Viva i bravi soldati!

E il nostro poveretto li ringraziava agitando le mani e scuotendo la testa, chè oramai la foga della tanta dolcezza gli chiudeva il varco alla voce.

— Viva i bravi soldati! queglino ripeterono allontanandosi.

Il mutilato fece un ultimo atto colle mani e col capo, e poi, passato un braccio attorno al collo della giovinetta che lo sorreggeva a sinistra, si volse alla madre che gli stava dall’altro lato, e, con voce interrotta dai singhiozzi, esclamò:

— Oh mamma? lo vuoi credere?... io sono contento! —

E le lasciò cader la testa sul seno.

Gli occhi di tutti i circostanti si empierono di lagrime. La musica moriva a poco a poco allontanandosi lentamente giù per la via.

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