< La vita militare
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L'ufficiale di picchetto Una sassata

L’OSPITALITÀ.


Una sera, sul cadere di ottobre del mille ottocento sessantasei, un reggimento di fanteria venne colto a mezza marcia fra San Donnino e Piacenza da un così furioso acquazzone, che in pochi minuti i soldati furon fradici fino all’ossa, e la via diventò tutta un pantano. Potevano essere le nove della sera. I soldati, ravvolti il capo e le spalle nelle coperte da campo e nelle tele da tenda, tiravano innanzi lentamente e stentatamente, e nessuno parlava. Dopo un breve tratto di via il reggimento si fermò; la maggior parte dei soldati si coricarono per le prode dei fossi e presero sonno; gli altri si ripararono sotto gli alberi che fiancheggiavano la strada.

Tonava e lampeggiava maledettamente. Cessata la prima furia del temporale, s’era levato un vento a folate che spingeva di traverso una pioggia minuta e fredda da cui non v’era modo di schermirsi la faccia per quanto la s’imbacuccasse colla coperta da campo e col bavero del cappotto. A poca distanza dalla strada appariva tratto tratto, rischiarata dai lampi, una bella e signorile villetta, e fra questa e la via un piccolo giardino a scompartimenti e ad aiuole, sparso di mortelle e di vasi di fiori. Fra lampo e lampo, si vedeva muovere l’ombra di due persone sulle tendine di una finestra illuminata.

In quella stanza, stava raccolta in quell’ora la famiglia d’un ricco possidente piacentino, il quale soleva ogni anno protrarre la villeggiatura fino alla fine d’ottobre, in compagnia dei suoi figli e di una sua sorella vedova, attempata, bizzarra, e con certi fumi di boria patrizia pel capo; ma, in fondo, di buona indole e di buon cuore. Il salotto era mobiliato riccamente e illuminato da un’elegante lampadario appeso alla vôlta. Due bei bimbi si baloccavano attorno alla tavola da pranzo; un giovanetto leggeva un giornale in un canto; dall’altro lato due ragazze di diciotto in vent’anni sedevano davanti a un tavolino da lavoro discorrendo col fratello maggiore; il babbo e la sorella in piedi accanto alla finestra erano assorti in una conversazione animata.

— Con vostra buona pace — brontolava la sorella — io non partecipo nè punto nè poco ai vostri sacri entusiasmi.

— Tanto peggio per voi; avrete molte consolazioni di meno.

— Belle consolazioni! Guardate la vostra campagna in che stato vi si è ridotta con questo continuo passar di soldati. Ci siete stato nelle vigne?

— Ci son stato; e per questo? Potevano fare assai peggio. Già, più d’un grappolo per uno credo che non n’avranno preso, perchè da una mano debbon tenere il fucile, e nello zaino l’uva non ce la possono mettere senza sciuparla.

— Allora tanto valeva invitarli a rubare.

— A servirsi, volete dire; era inutile.

— Sarebbe stato più generoso.

— ...È vero, e mi pento di non averlo fatto.

— Mi fate dispetto. —

Il fratello si mise a ridere.

— Sicuro che mi fate dispetto, perchè, scusatemi, avete una filosofia senza sugo. Bene, sì, ammetto, sono soldati, difensori della patria, martiri, eroi, tutto quel che vi piace, tutto quel che volete; amiamoli, incensiamoli, idolatriamoli, passi anche questo; ma da lontano, Dio mio! da lontano e in complesso. Tutto l’esercito insieme lo rispetto anche io; ma i soldati uno per uno, poi.... In fin dei conti non son altro che contadini vestiti tutti d’un colore. O che c’è bisogno di andar loro incontro per la campagna, come fate voi, per ringraziarli d’avervi rubato, e condurveli in casa a bere, e trattarli a pasticcini, e accompagnarli al cancello come se fossero principi?

Il fratello continuava a ridere.

— Ridete, ridete. E ogni volta che passa un reggimento continuate a scender giù voi e tutta la vostra famiglia a vederlo passare, e a star là sulla porta con due ragazze di quell’età, e ne sentirete delle belle da quei vostri guerrieri assuefatti a bazzicar le bettole, a ubriacarsi di acquavite e a masticar tabacco. L’altro giorno intanto....

— Avete fatto un gran che d’un nonnulla. Se quella parola l’avesse detta chiunque altro, che non fosse un soldato, non l’avreste nemmeno avvertita. Bisogna condonar qualcosa alla gioventù. E poi son guerrieri in fin dei conti, e non frati.

— Sì, sì, continuate pure a idolatrare il cappotto bigio, e un giorno o l’altro vi toccherà qualche lezione.

— L’aspetto. Ma non volete capirla che non è il cappotto bigio che io idolatro; ma proprio quei contadinacci che lo vestono, rozzi, come dite voi, e beoni e scostumati, e quelle loro manaccie incallite, e quelle loro faccie ossute e arse dal sole, e quelle loro fronti che per tanti anni stettero curvate sui solchi ed ora....

— Ed ora mi fate più dispetto di prima. —

In quel punto s’udì picchiare alla porta di casa. — Dopo un minuto, un servitore venne a dire che un soldato il quale avea smarrita la via cercava ricovero.

— Stiamo a vedere che lo fate salir qui a ricevere i vostri complimenti, — disse la sorella.

— Fatelo salir subito, — disse risolutamente il padrone.

— Oh!

— Subito; qui, in questa stanza. —

Il servitore scomparve.

Si sente un passo lento e strascicato venir su per le scale. Poi un colpo come di corpo pesante lasciato cader sul pavimento;... ha lasciato cader lo zaino. Poi il suono del fucile appoggiato alla parete. Subito dopo la porta del salotto s’apre; eccolo sul limitare. Pallido, cascante, grondante d’acqua, sordido di fango il viso e le mani, e il capo inclinato languidamente sulla spalla, gira l’occhio intorno peritoso e meravigliato.

Primo il padrone, e tutti gli altri dopo lui, gli si fanno intorno sollecitamente.

— Avanti, avanti, giovinotto; avanti liberamente. —

Egli fa un passo innanzi, abbassa gli occhi, vede il tappeto e si ritrae mormorando:

— Scusino... io non avevo veduto.

— Ma che! — sclama il padrone, e lo piglia pel braccio e lo fa venire avanti e lo costringe a sedere accanto al cammino. Egli si fa bianco bianco nel viso, abbandona il capo all’indietro e lascia cadere le braccia penzoloni. — Oh Dio mio! — gridano tutti insieme spaventati; il padrone gli sorregge il capo, uno dei figliuoli gli asciuga la fronte, l’altro gli sbottona il cappotto e gli fa odorare una boccetta di aceto; le ragazze e le donne di servizio corrono di qua e di là, confuse, affannate, senza saper che si fare. Finalmente ei rinvenne e la sua prima parola fu un grazie detto con una voce trepida e fioca che veniva schietta schietta dal cuore. In quel momento, facendogli un po’ di violenza, gli tolsero il cappotto e la cravatta, gli fecero indossare una giacchetta, e gli avvolsero attorno al collo un fazzoletto. — Grazie! — ripeteva il soldato opponendo una timida resistenza; — grazie! —

— Oh che scena! — diceva intanto tra sè la sorella del padrone; ma non diceva per l’appunto quel che sentiva. E mostrava alla figlia maggiore le orme di fango rimaste sul tappeto; ma nell’atto stesso che le mostrava sentiva quasi dispetto di non provare dispetto.

— O che v’è accaduto, buon giovane, che v’è accaduto? — dimandava con viva sollecitudine il padrone di casa. — Siete malato? Siete caduto? Eravate solo? D’onde venite? —

A voce bassa e lenta, e interrompendosi tratto tratto come se gli venisse meno il respiro, il povero soldato raccontò tutto quel che gli era seguìto. Era partito da San Donnino che già si trovava male in arnese; lungo la via aveva molto sofferto di stomaco e di testa, e ad ogni breve sosta che s’era fatta aveva temuto di non potersi più rialzare. S’era però rialzato e avea tirato innanzi con grande sforzo fino all’ultima fermata, in prossimità di quella casa. Quivi s’era gettato in un fosso, s’era lasciato cogliere dal sonno, un torpore profondo gli aveva invaso tutte le membra, non avea inteso lo squillo delle trombe che davano il cenno dell’avanti, non aveva visto partire il reggimento, s’era svegliato mezz’ora dopo, s’era trovato solo, avea tentato di rimettersi in cammino ed era ricaduto per terra... Che fare? dove andare? Vista là presso una casa, s’era diretto, barcollando, alla porta, e avea picchiato, e avea pregato che lo ricoverassero per un quarto d’ora nella stalla, o nel fienile, o dove si fosse.

Questo racconto durò un buon quarto d’ora. Frattanto egli ritornò in sè interamente e riprese una parte delle forze smarrite. Ma a misura che la sua mente si rischiarava ed egli acquistava conoscenza viva e distinta del luogo dov’era e delle persone che lo circondavano, vieppiù s’accresceva il suo imbarazzo, la sua timidità e la sua confusione, e rispondeva alle domande balbettando e arrossendo come un bambino.

Essendo ora di cena, la donna di casa, in quel frattempo, aveva apparecchiato, senza che il povero ospite, confuso e sbalordito come era, se ne fosse avveduto. Ad un tratto, il padrone fe’ un cenno e tutti s’alzarono e si accostarono alla tavola. Il soldato si alzò anch’esso, diede una rapida occhiata alla mensa e alle persone, e si rimise subito a sedere abbassando gli occhi e vergognandosi d’aver guardato.

— Ci abbiamo a mettere a tavola? — gli disse amabilmente il padrone, facendoglisi accanto.

— Ah! è vero! — pensò il soldato, e si rizzò in piedi di scatto, e mormorando qualche parola di scusa si mosse per uscir dal salotto.

— Dove andate? — domandò vivamente il padrone. Tutti gli altri si guardarono in atto di sorpresa: il soldato si fermò e si volse indietro.

— Dove andate? — ripetè il padrone.

— Mi hanno detto che si mettono a tavola... — quegli rispose timidamente.

— Sì; ebbene, sedete a tavola con noi. —

La sorella del padrone allungò il labbro di sotto; il soldato rimase a bocca aperta.

— Sicuro, a tavola. Sedete qui, se non vi spiace. — E con una mano scostò una seggiola dalla tavola e coll’altra gli fece cenno che sedesse.

— Ma... domandò il soldato ripiegando ambe le mani coll’indice teso contro il proprio petto, — a tavola, io? — E sorrise.

— Ma sicuro.

— ...Con loro?

— Con noi, con noi. —

Il povero giovane non poteva credere a quel che sentiva. Tutti gli altri lo guardavano con un’aria di curiosità e di compassione affettuosa; anche la sorella del padron di casa.

— No... senta, signore, (proruppe il soldato con voce dolce e tremante e facendosi serio serio) io non merito... io non son degno di stare... son tutto così (e si guardò i panni)... e poi io non saprei stare come si deve, perchè... Quindi risolutamente: — Mi faccia questo piacere, mio buon signore; mi lasci andare di là, nella stanza vicina alla porta; io sto più volentieri di là; aspetterò che loro abbiano finito; non importa nemmeno che accendano il lume; aspetterò al buio, per me è lo stesso...

— Ma no, ma no, — esclamarono ad una voce il padre e i figliuoli, dopo averlo ascoltato con un’attenzione mista di sorpresa e di tenerezza; — non permetteremo mai questo, non...

— Sì, sì, mi lascino andare, mi lascino andare; io non voglio incomodarli... — e si mosse un’altra volta per andarsene.

— Ma sentite... ripresero gli altri trattenendolo; — voi avrete bisogno di mangiar qualcosa, è impossibile di no; restate, fateci questo piacere...

— No, grazie, grazie; io non ho bisogno di nulla, io ho ancora tutto il mio pane nello zaino, e mi basta...

— Ma sentite...

— Ma guardino. —

Volò di là, prese il pane, e tornò mostrandolo in atto di compiacenza: — Vedono? —

Tutti tacquero e si guardarono l’un l’altro in viso.

— Qua! — gridò improvvisamente il padrone colla voce commossa, strappando di mano al soldato il suo pane e battendolo forte sulla tavola; — lo mangeremo assieme; sedete. —

Quell’atto, quella voce, quel volto erano improntati di un affetto e d’un’emozione così viva e così risoluta, che al soldato non parve più possibile di ricusare, e sedette.

Non sapeva dove metter le mani, non s’attentava a levar gli occhi in volto a nessuno, non ardiva nemmeno di guardare sulla tavola; guardava fisso il piatto che gli stava davanti, teneva le ginocchia strette e i piedi indietro indietro sotto la seggiola, e gingillava colle dita intorno ai bottoni del cappotto. Comunque ei nol guardasse, pure tutto quel cristallame svariato e luccicante lo abbarbagliava; quel bel tovagliolo fine, bianco, che odorava ancora di bucato, non aveva il coraggio di toccarlo, con quelle sue mani ruvide e nere. E gli si cominciarono a svegliare nella mente certi ricordi vaghi e confusi e da lungo tempo sopiti, di certi modi, di certe consuetudini, di certe norme di buona creanza e di cortesia, di cui molti anni addietro, quand’egli era ancora ragazzo, sua sorella maggiore, che avea soggiornato un pezzo in città, gli soleva fare in fretta un po’ di scuola su per le scale della casa del fattore, quei giorni di festa solenne ch’essi erano invitati a desinare da lui. E cercava di richiamarsele a memoria quelle norme, quelle consuetudini, e si sforzava di metterle in pratica con quel miglior garbo che per lui si potesse, e guardava tratto tratto colla coda dell’occhio il padrone di casa che gli era seduto accanto per regolarsi da lui sul modo di tenere il tovagliolo, e di spezzare il pane, e di maneggiare il coltello, e via via. A ogni piatto che gli s’offerisse ei si credeva in dovere di dire di no, e diceva no due o tre volte, e faceva atto di respingerlo colla mano e torceva il capo dall’altra parte, finchè accettava a stento, mormorando: — Grazie! — e facendo un certo viso compunto che voleva dire: — È troppo. È troppo! — E tagliava certi bocconcini così minuti che gli andavan giù senza farsi sentire; e ad ogni centellino d’acqua o di vino che bevesse si forbiva due o tre volte la bocca tenendo il tovagliolo, con tutt’e due le mani, e con gran sollecitudine porgeva alla donna di servizio i piatti ch’essa andava intorno a raccogliere, e si guardava bene dal gettar pure un’occhiata alle pietanze recate in tavola prima che gli fosser messe dinanzi; e quando il padrone gli offriva del vino egli non si contentava di dir di no, ma turava il bicchiere colla palma di una mano, spingendo in là la boccia coll’altra. Del pepe, del sale, dell’oliera, di tutto rendeva grazie particolari, come se l’offrirgli ciascuna di quelle cose fosse una particolare degnazione, un favore affatto distinto dagli altri.

Se egli avesse guardato qualche volta i suoi commensali, questi si sarebbero astenuti dal guardar lui, per non metterlo in più suggezione, per lasciarlo mangiare in pace, per non farlo penare. Ma come ei non guardava nessuno, così tutti guardavano lui; ne notavano tutti i moti, tutti gli atti; gli leggevano sulla fronte ciò che gli passava nell’anima, e di quella sua rozzezza ingenua e peritosa, di quel suo stupore, di quel suo sbalordimento, di quella tenera e reverente gratitudine che tratto tratto gli lampeggiava in un lieve sorriso o in uno sguardo fuggevole, provavan tutti un senso come di pietà e di compiacimento soave. Il padrone di tempo in tempo l’interrogava delle vicende della guerra, delle marcie, dei campi, del reggimento, ed egli rispondeva con dei sì, con dei no, con dei sorrisi, con qualche gesto cominciato e non saputo finire, e tra una domanda e l’altra, quando supponeva che tutti gli occhi fossero volti sopra di lui, pigliava in mano e fingeva di osservare attentamente il coltello o la forchetta. In fin di tavola, sorbendo il caffè, ne lasciò cadere una goccia sulla tovaglia. — Oh! Dio! — sclamò tutto turbato — scusi, sa: non l’ho fatto apposta. — E volgendosi al padrone si mise una mano sul petto. Povero giovane! disse tra sè la sorella; e portò il bicchiere alla bocca per nascondere quel po’ d’alterazione che quel senso fugace di pietà avrebbe potuto produrre sull’altera gravità del suo volto.

S’alzarono da tavola.

— Adesso... disse il soldato, e restò in asso.

— Adesso?... domandarono gli altri e stettero in atto di aspettare ch’ei finisse.

— Mi rincresce...

— Che cosa? — interrogò amorevolmente il padrone.

— Mi rincresce; bisogna ch’io me ne vada.

— Oh!

— Per forza.

— Come! Come! E perchè? proruppero vivamente il padrone e i figliuoli: — bisogna che restiate qui con noi questa notte; non siete ancora in grado di rimettervi in strada; avete bisogno di dormire; e poi con questo tempo è impossibile...

— Ma scusino...

— Ma con questo tempo è impossibile che voi vi rimettiate in cammino. Sentite. —

E tutti tacquero. La pioggia veniva giù a catinelle; la si sentiva batter forte contro i vetri delle finestre e tirava un vento d’inferno.

— Avete sentito? Come volete partire con cotesto diluvio? E con cotesto buio che non ci si vede un palmo più in là del naso?... — Ma sentano; io sono stato anche troppo qui con loro; sa il cielo se non ci rimarrei ancora volentieri... magari per sempre (e sorrise); ma se domattina di buon’ora io non mi trovo a Piacenza, mi metteranno in prigione... e adesso, camminando di buon passo, sarei ancora in tempo a raggiungere il reggimento...; se tardo anche un poco...

— Ma voi non vi sentite bene; vi si vede in viso...

— Sì che mi sento bene; davvero; mi sento proprio bene adesso; mi lasci andare...

— Ma no, ma no; io farei molto male a lasciarvi andare, ve lo dico schiettamente; e se smarriste la via? E se vi mancassero le forze a mezza strada? E se vi venisse male? Restate; seguite il mio consiglio; ve lo do pel vostro bene; se credessi che voi poteste partire senza pericolo, sarei io il primo a consigliarvi di partire; ma stanco e malato come siete, con questo tempo, a quest’ora, credetemelo, non vi conviene d’uscire. Restate qui con noi, via; fateci questo piacere; ve ne preghiamo pel vostro bene. —

Il soldato stette un momento sopra pensiero.

— No, no, — proruppe poi tutto ad un tratto; — non posso, mio buon signore; domattina per tempo bisogna ch’io sia col mio reggimento; lo posso ancora raggiungere; mi scusi, non posso, bisogna ch’io vada. —

E corse nella stanza d’ingresso; dietro a lui la famiglia co’ lumi. S’infilò il cappotto, si mise il cheppì, si allacciò il cinturino, si gettò in spalla lo zaino...; ma all’improvviso le ginocchia gli si piegarono sotto, lasciò cader lo zaino in terra e s’appoggiò alla parete.

— Vedete? vedete? — s’affrettarono a dire tutti gli altri; vedete che non vi sentite bene? che non siete ancora in grado di camminare? che avete bisogno di dormire? — Egli tacque.

— Restate, restate; riprese il padron di casa pigliandolo per un braccio; dormite in casa nostra; domattina vi desteremo per tempo; vi faremo noi una lettera pel colonnello per giustificare il vostro ritardo...

Il soldato sorrise.

— Restate; ve ne preghiamo per la vostra salute; è necessario che restiate. Non è vero che restate? —

Il soldato stette un po’ di tempo sopra pensiero e poi, levandosi il cheppì e il cinturino, mise un sospiro e disse: — Resterò! —

— Sia lodato il cielo! — esclamò il padrone; e gli strinse la mano. Povero giovane! pensò la sorella, e, prevedendo uno sguardo del fratello, volse il capo verso la finestra come per sentire se pioveva ancora.

Pochi minuti dopo, il padrone di casa, precedendo il soldato con un lume in mano, lo condusse alla porta d’un’elegante cameretta, l’aperse e gli disse: — Entrate. —

Il soldato entrò e, girato attentamente lo sguardo intorno, si volse al suo ospite e gli fissò gli occhi negli occhi in aria d’interrogarlo.

— Dormirete qui, — gli disse con un sorriso il buon vecchio.

— Qui?

— Già. —

Il soldato fece un atto di sorpresa e quasi di rincrescimento. — Qui non è luogo per me, signor padrone; mi faccia dormire in un’altra camera; qui, vede, io non potrei nemmeno prender sonno, me lo creda; io sono assuefatto a dormir sulla terra; io le insudicerei tutto, qui... Mi lasci dormire in un altro luogo. —

E queste preghiere erano profferite con un accento così umile e soave, che toccavano il cuore. Il padrone lo guardò un momento e poi, dissimulando la commozione, gli rispose che non c’era altra stanza disponibile, che bisognava ch’egli dormisse in quella.

— Mi metta a dormire in cucina.

— Ma vi pare! mettervi a dormire in cucina io che vi cederei il mio letto se non n’avessi un altro da darvi, e che per voi dormirei anche giù per le scale? E poi in cucina dorme la donna di servizio.

— Allora... allora mi metta a dormir lì fuori.

— Dove lì fuori?

— Sul pianerottolo.

— Oh!

— Ci starei bene, sa? Prima di tutto mi troverei al coperto, e poi ho la mia coperta da campo, e lo zaino per appoggiarvi la testa; e poi, già, io ci sono assuefatto a dormire al fresco e... e poi domattina farei più presto a scendere giù; sì, sì, mi lasci dormire sul pianerottolo, signor padrone; mi ci lasci dormire. —

E stette aspettando la risposta in un certo atteggiamento di timidità e d’ansietà puerile, e con un sorriso pieno d’una così viva ed ingenua espressione di preghiera, che il padrone ne fu tocco nel più vivo dell’anima; lo guardò, s’intese battere il cuore forte forte, si sentì un impulso come d’una mano gagliarda che lo spingesse verso il suo ospite, allargò le braccia, le ritrasse, e, stringendo rapidamente la mano al soldato. — Buona notte! — gridò con voce soffocata, e scomparve.

— Buona notte! — ripetè il soldato, e rimase attonito in mezzo alla stanza coll’occhio fisso alla porta. Lo riscosse un lieve rumore alle spalle; si volse, era un bell’orologio a pendolo accosto alla parete. Lo guardò per un pezzo e poi rivolse gli occhi al letto; un bellissimo letto con parato di percalle e coperta a fiorami e piumino. Guardò il tavolino: c’era su un bel lume da notte che spandendo intorno sulle pareti e sui mobili una languida luce, ne abbelliva d’un cotal velo di mistero la splendidezza. Egli guardava or l’una or l’altra cosa colla bocca aperta e le braccia penzoloni; gli pareva di sognare.

Tornato interamente in sè, riavutosi da quello stupore e da quella confusione che gli avean pieno sino allora il cuore e la testa, ripensò pacatamente ai suoi ospiti, si risovvenne distintamente di tutte le garbatezze che gli avevano fatte, gli parve di udirsi risonar di nuovo all’orecchio tutte le affettuose parole che gli avevano dette, si ricordò del reggimento, della marcia, della pioggia, del suo svenimento; si guardò un’altra volta intorno, giunse le mani con impeto, mandò fuori una voce convulsa come tra il gemito e il riso... Il suo cuore era già colmo di tenerezza; per farlo traboccare non ci voleva più che un’idea; l’idea venne; pensò a un’altra casa, alla sua, e il confronto gli suscitò nel cuore una così profonda e strana emozione ch’egli si abbandonò sulla sponda del letto colla faccia nelle mani.

Poco dopo era coricato e dormiva. Quel volto rozzo e abbronzato, e così com’era rischiarato da quel fioco lume, faceva un singolare contrasto colla bianchezza purissima dei lini su cui riposava; e quel cappottone infangato e quegli altri poveri cenci spiccavano stranamente su quella seggiola dorata e accanto a quel parato ampio e signorile. Egli dormiva d’un sonno queto e pieno. Avea la fronte leggermente corrugata; forse sognava il cipiglio irato con che il suo capitano l’avrebbe accolto il domani; ma sulle labbra gli errava un lieve sorriso, e forse, intorno al capitano, gli pareva di vedere i suoi ospiti in atto di chieder grazia per lui.

Dormi in pace, povero soldato; non ti saran messi i ferri domani, no; non fu tua colpa se mancasti,... è stata una disgrazia; sì povero soldato; sì, dormi in pace.

— Ebbene, che ve ne pare? — domandò il padrone di casa alla sorella dopo averle fatta una descrizione enfatica della scena accaduta poc’anzi. Essa si sforzò di sorridere e rispose: — Non c’è male. — Solamente? — Solamente. Che cosa volete ch’io vi dica di più? —

Il padrone s’avviò alla sua camera da letto scrollando la testa in segno di compatimento. Essa restò un po’ pensierosa e poi scrollò la testa anch’essa mormorando: — povero giovane! — E andò a dormire.

L’indomani mattina, mentre il grand’orologio del salotto da pranzo scoccava le sette, il nostro soldato, vestito e armato di tutto punto, pigliava comiato da’ suoi ospiti che gli stavan tutti attorno nella stanza d’ingresso.

— Dunque...

— Dunque, buon viaggio! — dissero ad una voce il padre e i figliuoli.

— Buon viaggio! ripetè macchinalmente il soldato, sospirando.

— E state sano; abbiate cura della vostra salute; e se ripasserete un giorno per di qua, veniteci a fare una visita, chè per noi sarà sempre un piacere. E se non ci ripasserete più... allora, ricordatevi qualche volta di noi.

— Se mi ricorderò!... Sempre mi ricorderò di loro!... Sempre...

— E se per caso aveste bisogno di qualcosa, se noi potessimo riuscirvi utili in nulla, fate conto di noi come se fossimo la vostra famiglia, in qualunque caso e per qualunque motivo, senza riguardi, senza complimenti. —

Il soldato stava a sentire colla faccia attonita e convulsa.

— Avete inteso? Scrivete, quando vi occorra, o fateci scrivere un rigo...

— Io un poco so scrivere — disse tutto contento il soldato.

— Benissimo; mi fa piacere; c’intenderemo più facilmente. Anzi... vedete che smemorato! Io mi dimenticava di domandarvi il nome. — E trasse di tasca un portafoglio.

— Lo scrivo io! Lo scrivo io! — proruppe il soldato, lieto e orgoglioso di far vedere che sapeva scrivere. Posò il fucile in un canto, si frugò in tasca, ne trasse un piccolo portafoglio unto e sdrucito, e un pezzettino di lapis che appena si potea tenere fra le dita, appoggiò i gomiti sull’angolo d’un tavolino e si mise a scrivere in grossi caratteri il suo nome. Finito, staccò il foglio, e datogli un ultimo sguardo allungando il braccio, lo porse al padrone.

— Benissimo, grazie, — questi rispose, e scrisse il nome suo e lo diede al soldato. Egli si ripose il biglietto in tasca coll’atto e il volto d’un divoto a cui si porga una reliquia di santo. E poi balbettò:

— Adesso...

Aveva qualcosa da dire; ma non se ne sentiva il coraggio.

— Dite, dite; dite pure liberamente.

— Io — sentano — loro che son tanto buoni mi scuseranno... capisco anch’io che sono uno sfacciato a domandare... dopo tutto quello che m’han fatto... ma... mi par quasi d’averne bisogno, che so io?... perchè... — E sorrideva e abbassava la testa e si stropicciava le dita e apriva la bocca per parlare e tosto la richiudeva, non soddisfatto della espressione che ne sarebbe uscita, e ne cercava un’altra, e non la trovava...

— Non vi pigliate suggezione di noi, caro amico; non v’ho detto che ci dovete riguardare come vostra famiglia?

— Ecco... io vorrei domandarle un piacere (e guardò il padrone...) se me lo potesse fare... un piacere che... lei si metterà a ridere, e a ragione; ma pure, che cosa vuole?... non posso fare a meno di domandarglielo. Io non lo guasterei mica, sa! Lo metterei nello zaino in mezzo alla biancheria, lo terrei con tutte le cure, non lo mostrerei a nessuno, mi contenterei di guardarlo da me...

— Ma che cosa? —

Il soldato stese la mano verso il padrone, e ritraendola tosto dietro la schiena e abbassando la faccia come fanno i bambini quando domandano qualche balocco prezioso colla certezza che si dirà loro di no, mormorò rapidamente:

— Il suo ritratto.

— Oh subito! subito! — esclamò il padrone; volò di là; tornò col ritratto, e glie lo porse. Il povero soldato pareva fuor di sè; tutti gli altri lo guardavano inteneriti.

S’accomiatò esclamando qualche parola rotta e senza senso, scese velocemente le scale, traversò il giardino, giunse al cancello, si fermò, si volse per dare un ultimo sguardo a quella casa benedetta, e vide... Tutti i suoi ospiti affacciati alle finestre e appoggiati alla ringhiera del terrazzino lo guardavano e lo salutavano colla mano gridando: — Buon viaggio! A rivederci presto! Addio! Addio! —

Egli restò un istante immobile, come stordito e sopraffatto dalla tenerezza; poi si riscosse, cercò un modo di rispondere a quell’ultimo e inatteso saluto, pensò, pensò...

— Ah! — gridò poi con un trasporto di gioia; cacciò le mani in tasca, ne trasse il ritratto, lo mostrò, stendendo il braccio, al padrone, lo baciò tre volte e disparve. — Ebbene, sorella? — dimandò il padrone col sorriso sulle labbra, ma colla voce mal ferma.

La sorella trasse di tasca il fazzoletto.

— L’avrei giurato! — esclamò il vecchio percuotendosi col pugno la palma della mano.



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