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L’ORDINANZA.
Erano quattro anni che vivevano assieme; nè mai un solo momento l’un d’essi avea dimenticato di essere l’uffiziale, l’altro di essere il soldato. L’uno soldatescamente austero, l’altro soldatescamente sommesso. E si amavano; ma di quell’affetto duro, ruvido, muto, che non fa pompa di sè, che non si palesa, che cela un trasporto di tenerezza sotto un atto sgarbato; eloquente quando tace, inetto e barocco quando parla; nemico delle blandizie e accostumato, quando lo assale il bisogno di piangere, a stringer le labbra e a ribeversi le lagrime per non parer fiacco e sdolcinato. Correva fra loro un linguaggio costantemente laconico, rapido, rotto; si capivano a monosillabi, a occhiate, a gesti: interprete comune l’orologio, che regolava tutto, anco i passi e le parole, colla più stretta disciplina. — Tenente, comanda altro? — Nulla. — Posso andare? — Va. — Era la formola quotidiana di comiato; mai una parola di più. E così erano passati i giorni, i mesi, gli anni — quattro anni — in quartiere, in casa, in campo, in marcia, in guerra, ed era a poco a poco cresciuto nel cuor di entrambi un affetto profondo, severo, e quasi sconosciuto a sè stesso. V’era in quella inalterabile taciturnità, in quel parlar soldatesco, in quel ricambiarsi fuggitivo di sguardi che volean dire, l’uno — fa questo, — e l’altro — ho capito; v’era dico, per chi avesse conosciuta la natura di entrambi, tanta cortesia, tanta amorevolezza, tanto cuore, che al confronto la più espansiva corrispondenza di tenerezze ne avrebbe scapitato.
Si erano trovati a fianco sul campo in momenti solenni, a poche centinaia di passi dai cannoni nemici, e, ad ogni sibilar di granata, l’uno avea girato rapidamente gli occhi in cerca dell’altro, e, trovatolo, avea messo un sospiro, pensando: — Anche questa è passata. — Aveano vegliato assieme agli avamposti più di una notte gelida e piovosa, coi piedi nel pantano e il vento sulla faccia; e il mattino, al giunger del battaglione di muta, s’erano scambiati un sorriso, come per dirsi a vicenda: — Ora si ritorna al campo; rallegrati; potrai riposare. — Molte volte, durante una lunga marcia d’estate, s’erano tutti e due ad un tempo voltati in dietro a riguardare le pietre miliari sulla proda della via, e molte volte, ne avean contate meglio di quaranta, scambiandosi, quand’eran giunti all’ultime, uno sguardo di conforto e di compiacenza che volea dire: — Ancora due, — ancora una, — ci siamo. — Più di una sera, nei campi, quando si prepara l’animo alle fucilate che ci verranno a svegliare la notte, dopo che l’un d’essi si era adagiato sotto la tenda e l’altro gli aveva disteso ed accomodato addosso il pastrano per difenderlo dalle brezze notturne, — buona notte, signor tenente, — aveva detto il soldato allontanandosi, e al tenente era parso che quella voce avesse lievemente tremato e l’ultima parola non fosse uscita intera, e con pari accento gli aveva rimandato il saluto. Qualche altra volta, mentre l’uno porgeva all’altro una lettera e questi stendeva avidamente la mano per prenderla, era passato sui due volti un leggerissimo sorriso. — È una lettera di casa; ne riconobbi i caratteri; è tua madre — l’uno avea voluto dire; — grazie, l’altro aveva voluto rispondere, tu mi hai anticipato la gioia. —
Dopo tutto ciò ritornavano entrambi ai soliti modi taciturni e severi. Nè mai una volta il fiero soldato, o presentandosi al suo uffiziale, o pigliandone comiato, dimenticava di fissargli gli occhi in faccia, alzando la testa, portando energicamente la mano al cheppì, ritto, immobile e fiero. Partendo, il suo fronte indietro era sempre fatto a norma del regolamento.
Vivevano assieme da soli quattro anni; ma il soldato, che aveva cominciato a far l’ordinanza dopo il primo anno di servizio, stava per compiere la sua ferma.
Un giorno giunse al comandante del corpo l’ordine di congedar la sua classe.
Quel giorno, fra l’uffiziale e il soldato passarono poche parole più del consueto; ma i due cuori si favellarono lungamente. — Comanda altro? — Nulla... È giunto l’ordine di congedare la tua classe; fra dieci giorni tu partirai.
Seguì un breve silenzio senza che i loro occhi s’incontrassero... — Posso andare? — Va pure. — Questa volta si era aggiunto un pure, ed era già un gran passo sulla via delle tenerezze.
Si strinse il cuore ad entrambi; non però ad entrambi ugualmente. L’uno perdeva un amico, anzi, più che un amico, un fratello, che l’amava d’un affetto reverente, religioso. L’altro perdeva del pari un amico, un fratello; ma quegli restava, questi tornava a casa. E ciò gli era un grande sollievo. Tornare a casa! Dopo tanti anni, dopo tanti pericoli, dopo aver tante volte la sera, nel campo, quando squillano le lunghe e melanconiche note del silenzio, e sotto le tende muoiono i lumicini, e in tutta quella mobile città di tela, poc’anzi così animata ed allegra, si sparge una quiete profonda; dopo aver tante volte, in quei momenti di scorata malinconia, chinato la testa fra le mani pensando alla madre e domandandosi: — Che farà in questo momento quella povera donna? — tornare a casa! Dopo aver tante volte, sul far della notte, al bivacco, udito qua e là fra i crocchi dei compaesani suonare i noti ritornelli campestri, quei che si cantavano un giorno laggiù, a casa, in estate, quando si vegliava sull’aia e vi batteva quel bellissimo lume di luna, e, fra le tante voci degli amici e dei congiunti, se ne sentiva una distinta, chiara, argentina, tremola, che sapeva così bene le vie del cuore; dopo aver tante volte benedetto quei canti come un saluto di nostra madre lontana... tornare! Tornare inaspettato! Rivedere quella campagna, quei casali; riconoscere da lontano quel tetto, studiare il passo, giungere trafelati su quella cara aiuola, vedersi comparir dinanzi la sorellina fatta adulta, il fratello più piccolo ormai adolescente, alle loro grida sopraggiungere tutti gli altri, lanciarsi in mezzo a loro, poi svincolarsi da tutti, correre in casa, chiamare la vecchia madre, vedersela venire incontro colle braccia aperte e gli occhi pieni di lagrime, gettarsele al collo e sentirsi stretto da quelle care braccia e provar tutte le più sante estasi umane, le son cose che, anche a pensarle soltanto, addolciscono qualunque amarezza, sanano qualunque ferita.
Pur non di meno a quel buon giovanotto passava l’anima il pensiero di aversi a separare dal suo uffiziale. E poi un soldato di cuore non si spoglia mai del ruvido cappotto che gli ha servito per tanti anni da coperta e da guanciale, e su cui egli ha fatto tanto lavoro di spazzola, d’ago e di sapone, senza sentirsi dentro un certo struggimento, una certa tenerezza dispettosa ed inquieta, come al separarsi da un amico che ce ne ha fatta qualcuna delle grosse e con cui si vorrebbe tener il broncio, ma che in fondo si è sempre stimato ed amato. Quelle tasche di dietro, dove in prigione si nascondeva la pipa all’apparire dell’uffiziale di picchetto, di tanto in tanto, per isbaglio, e fin che non se ne sia affatto smessa l’abitudine, si cercheranno ancora colle mani... Che stizza non trovarle più!
Il buon uffiziale s’era fatto pensieroso, e non aveva più aggiunto una parola alle formole consuete. E così il suo soldato. Ma i loro sguardi s’incontravano più frequenti e più lunghi, e pareva che si dicessero: — Tu soffri, lo so. — Il soldato faceva le sue cose più adagio per trattenersi più a lungo in casa e compensarsi, in quegli ultimi giorni, della separazione imminente. Dapprima procedeva con una certa lentezza; poi con lentezza apertamente studiata; da ultimo faceva le viste di levar via la polvere dai tavolini e dalle sedie; ma il più delle volte, assorto nel suo triste pensiero, agitava ciecamente la pezzuola senza nulla toccare. Intanto l’uffiziale ritto ed immobile colle braccia incrociate davanti allo specchio, che rifletteva l’immagine del suo soldato, ne seguiva attentamente i passi, gli atti, i moti del viso, e ne scansava gli sguardi alzando prontamente la faccia e gli occhi al soffitto in aria distratta. — Tenente, posso andare? — Va pure. — E il soldato se ne andava. Non aveva ancora sceso due scalini che dentro la stanza suonava un frettoloso: — vieni qua — ed egli tornava. — Comanda altro? — Niente. Voleva dirti... niente, niente; lo farai domani; va pure. — E forse l’aveva richiamato per vederlo, e, vedutolo un’altra volta partire, continuava a tener per qualche tempo gli occhi fissi al limitare della porta da cui era uscito.
Venne finalmente il giorno della partenza. L’ufficiale stava seduto in casa, al tavolino, dirimpetto alla porta socchiusa. Di lì a mezz’ora il suo soldato doveva venire a pigliare comiato da lui, e partire. Egli fumava soffiando in alto i nuvoli del fumo, e ne seguiva sbadatamente coll’occhio il viaggio lento e vorticoso fin che si dileguavano nell’aria. Il fumo che gli passava sugli occhi glieli facea lagrimare, ed egli a quando a quando se li asciugava col rovescio della mano, pur maravigliandosi che le lacrime venissero giù così grosse da parer ch’ei piangesse. Ne attribuiva tutta la causa al fumo, voleva illudersi sulla sua commozione, dissimularla a sè stesso, attribuire al sigaro ciò che spettava al cuore. E pensava: — ... Già, c’era da aspettarselo. Dunque, a che serve pigliarsela a cuore? Non lo sapeva io, quando l’ho preso con me, che non l’avrei tenuto eternamente? Non lo sapeva che la ferma è di cinque anni? E che quest’uomo ha una casa, un campo, una famiglia, dove è nato, dove è cresciuto, da cui è partito con dolore e a cui ritornerà con gioia? Pretenderei che continuasse a fare il soldato per la mia bella faccia? Sarei un egoista... Anzi lo sono. Qual vincolo di gratitudine lo lega a me? Che cosa gli ho fatto io? Che cosa mi deve costui?... Oh molto, davvero. Non gli ho mai fatto che delle sgarbatezze, io. Gli sto sempre lì davanti con questo maladetto muso da padre inquisitore... Gli è il mio temperamento, già; che ci posso fare? È inutile, io non le so trovare le parole per dir certe cose. E poi... non si debbono dire. Ma... almeno fargli una faccia un po’ umana!... Adesso se ne va. Ritorna a casa a lavorare nei suoi campi, a ripigliar la vita di prima; a poco a poco perderà tutte le abitudini militari, dimenticherà tutto... e il suo reggimento, e i suoi compagni, e il suo uffiziale. Non importa; purchè viva contento. Ma io potrò forse dimenticar lui? Quanto tempo dovrà passare prima ch’io mi sia assuefatto ad una faccia nuova; prima che la mattina, svegliandomi, non mi abbia più a parere di vedermelo davanti tutto intento a sbrigar le sue faccende là in un canto della stanza, cheto cheto, quasi senza muoversi, quasi senza alitare, per non destarmi prima del tempo? Quante volte, appena desto, non lo chiamerò per nome? Tanti anni di compagnia, di attaccamento devoto, di servizio affettuoso, e poi... vederselo andar via così... da un giorno all’altro... Mah! è il nostro mestiere, non c’è che dire. Bisogna rassegnarsi... Che buon ragazzo! Che cuore! Se talora, marciando, oppresso dalla fatica, riarso dal sole, affogato dal polverone, io mi soffermava un istante e volgeva gli occhi attorno come per cercare un po’ d’acqua, subito mi appariva dinanzi una borraccia e mi suonava al fianco una voce: — Tenente, vuol bere? — Era lui. Era uscito di nascosto dalle file, era corso a pigliare dell’acqua... lontano forse, chi sa dove; era, in un batter d’occhio, tornato, ansante, grondante di sudore, spossato, ed era venuto dietro a me ed avea aspettato che io mostrassi desiderio di bere. Se talora, in campo, io pigliava sonno all’ombra d’un albero, e il sole a poco a poco mi veniva a batter sul viso, una mano sollecita mi rizzava al fianco una frasca, o tendeva una tenda, o poneva l’un sull’altro tre o quattro zaini, o allargava sopra un fascio d’armi un cappotto, e il sole non mi dava più noia. Di chi era quella mano? Sua era, sempre sua. Appena giunti alla tappa dopo sei, sette, otto ore di cammino, appena spiegate le tende, egli spariva; ed io a cercarlo, a chiamarlo ad alta voce pel campo, a stizzirmi: e dov’è, e chi sa dove siasi rintanato, e vedete un po’ che testa, e se questo gli è il modo di fare, e appena verrà lo concerò io pel dì delle feste; e avanti di questo passo. Di lì a un minuto lo vedeva giungere di lontano curvo curvo sotto un gran carico di paglia, a passi ineguali, a sbalzelloni, urlando a destra e a sinistra con chi gliene voleva portar via una manata, inciampando nelle cordicelle delle tende, valicando siepi e fossi, calpestando gli zaini e le camicie tese al sole, inciampando negli addormentati, e tirandosi addosso una tempesta di bestemmie e d’imprecazioni. Mi giungeva accanto, gettava la paglia in terra, metteva fuori un gran sospirone, si asciugava la fronte e: — Signor tenente, — mi diceva tutto peritoso — mi sono fatto aspettare, non è vero? Che vuole, ho dovuto andare così lontano! — Distendeva la paglia sull’erba per tutta la lunghezza d’una persona, ne ammontava una parte, vi poneva sotto il suo zaino a mo’ di guanciale, e poi volgendosi verso di me: — Tenente, va bene così? — Buon ragazzo, io pensava, ho avuto torto a stizzirmi con te; — va, gli diceva poi, va a riposare chè n’avrai bisogno. — Ma va bene così? egli insisteva; se no ne vado a pigliar dell’altra. — Sì, sì, va bene; va a riposarti, va; non perder più tempo. — Se talora, in marcia, di notte, io mi sentiva pigliar dal sonno e camminava, come suol farsi, vacillando e serpeggiando da un lato all’altro della via e mi avvicinava di troppo alla proda di un fosso, una mano leggiera si posava sul mio braccio e mi spingeva lentamente verso il mezzo della strada, mentre una voce sommessa e premurosa mi mormorava: — Badi, signor tenente, c’è il fosso. — E sempre lui!... Ma che cosa ho fatto io a quest’uomo perch’e’ mi debba circondar di cure e di tenerezze come una madre? Che cos’ho, che cosa sono io perch’ei m’abbia ad amare con tanta virtù, con tanta religione? Che merito ho io verso costui, che non vive che per me, e che per me, ne son certo, darebbe la vita? Per qual ragione, in qual maniera questo povero giovane dai lineamenti rozzi, dalle mani incallite sulla vanga, dalle membra indurite nei disagi e nelle fatiche, senza coltura, senza educazione, nato e cresciuto in un romito abituro di campagna, ignaro d’ogni uso di vita cittadina, s’è fatto peritoso e gentile come una fanciulla, e trattiene il respiro per non destarmi dal sonno, e mi sfiora i panni colla mano per rimuovermi da un fosso, e mi porge una lettera tenendola colla punta delle dita quasi temesse di profanarla, e si sente felice d’un mio sorriso benevolo, d’una mia parola garbata, d’un mio cenno, d’un mio sguardo che voglia dire: Va bene?... Com’è questo? Ah! bisogna pur dire che il cuore umano impari sotto questi panni dei palpiti nuovi e sconosciuti a chi non è soldato o non fu. La gente non suppone in noi altri affetti fuori di quelli che ci tempestano nell’anima nei giorni di guerra; in verità che la gente ci conosce ben poco; essa non sa che a fare il soldato il cuore non solo non invecchia mai, ma ringiovanisce e si riapre alle tenerezze più soavi della prima età, e in quelle vive e si esalta, assai più che nelle procellose e tremende gioie della guerra... Oh! chi non è soldato non comprenderà mai che cosa sia l’affetto che mi lega a questo giovane! È impossibile. Bisogna aver passato molte notti al bivacco, aver fatto molte marcie nel mese di luglio, essere stato molte volte d’avamposto sotto una pioggia dirotta, aver patito la fame e la sete tanto da svenirsi, e aver avuto sempre al fianco un amico che vi ha steso addosso il suo cappotto per ripararvi dal freddo, che vi ha asciugato i panni, che vi ha porto un sorso d’acqua, che vi ha offerto un tozzo di pane, privando sè di quel che porgeva a voi. Servitore! domestico! E v’è chi lo chiama così! Oh (esclamava facendo un atto come di sdegno e di ribrezzo) è una bestemmia! Sì..., perchè quando quest’uomo mi si affaccia là sulla soglia, e mi saluta, e mi fissa in volto quel suo sguardo pieno di sommessione timida e amorosa, sento che tanto è rispettoso il cenno che gli faccio io perchè abbassi la mano quanto è rispettoso l’atto che egli fa per alzarla... E quest’uomo mi abbandona, — mi lascia solo, — parte, — non tornerà più! Ma no! no! io lo andrò a trovare, io! Lo andrò a cercare quando sarà in congedo; il nome del suo paesello lo so, domanderò quello della sua parrocchia, quello del suo poderetto, correrò là, lo sorprenderò a lavorare nei campi, lo chiamerò per nome. — Non riconosci più il tuo uffiziale? — Chi vedo! Tenente! Lei qui! egli mi dirà tutto commosso. Sì, sì! avevo bisogno di vederti! Vieni qua, mio caro soldato, abbracciami. —
In questo punto sentì su per le scale un passo leggero, lento ed ineguale, come di chi salga titubando e cerchi di indugiare la salita. Tende l’orecchio senza volger la testa; il passo si avvicina; si sente una stretta al cuore; si volge, eccolo, — è desso, — è il soldato.
Aveva la faccia turbata e gli occhi rossi; salutò, fece un passo innanzi e stette guardando il suo uffiziale. Questi tenea la testa rivolta dalla parte opposta.
— Signor tenente, io parto.
— A rivederci — gli rispose questi stringendo le labbra ad ogni parola e continuando a guardar altrove. — A rivederci... Fa buon viaggio... torna a casa... lavora... continua a vivere da buon figliuolo... come hai vissuto finora e... a rivederci.
— Signor tenente! — sclamò il soldato con voce tremante e facendo un passo verso di lui.
— Va, va, che non ti passi l’ora; va; è già tardi; sbrigati; presto.
E gli porse la mano; il soldato gliela strinse fortemente.
— Fa buon viaggio... e ricordati di me, sai? Ricordati qualche volta del tuo uffiziale.
Il buon giovanotto voleva rispondere, tentò di mandar fuori una parola e mandò un gemito; serrò un’altra volta quella mano, si volse, guardò la porta, guardò di nuovo l’uffiziale che continuava a tener la testa volta dall’altra parte, fece un altro passo innanzi... — Ah! signor tenente! — esclamò singhiozzando, e fuggì.
L’altro, rimasto solo, si guardò attorno, stette un po’ di tempo coll’occhio immobile sul limitare della porta, poi appuntellò i gomiti sul tavolino, appoggiò la testa sulle mani, due grosse lacrime gli si formarono nel cavo degli occhi, vi luccicarono dentro un istante e gli scesero giù per le gote rapidamente come se temessero d’essere vedute. Egli si passò la mano sugli occhi, guardò il sigaro, era spento; ah! questa volta erano lacrime davvero; abbandonò la testa sull’un dei gomiti, e le lasciò scorrere tutte, chè ne aveva proprio bisogno.