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L’UFFICIALE DI PICCHETTO.
Dopo aver fatto battere i colpi del silenzio, l’ufficiale di picchetto diede un’occhiata in giro al cortile del quartiere, non c’era più nessuno; s’affacciò alle scale che mettono ai cameroni, nessuno; alzò gli occhi ai terrazzini, nessuno; uno sguardo al portone, chiuso; una sbirciata nel corpo di guardia, c’erano tutti; i lumi sui pianerottoli e nei corridoi c’erano, le sentinelle c’erano, i piantoni c’erano; tutto era in ordine, tutto era quieto, il reggimento dormiva. Che restava da fare all’ufficiale di picchetto? Niente, dormire. E così pensò di fare. Volse ancora una volta gli occhi intorno, di sopra, di sotto; si avvicinò alla porta della cantina, la tentò colla mano, era chiusa; tese l’orecchio, nessun rumore. — Ora me ne posso andare a dormire, — disse fra sè, e si mosse verso la sua camera. Mormorò prima qualche paroletta nell’orecchio al sergente di guardia: — Siamo intesi, eh? — e avutone in risposta un rispettoso: — Non dubiti! — accompagnato da un posar della mano sul petto in atto di coscienziosa promessa, entrò, chiuse, si levò berretto, sciabola, sciarpa, si accostò al letto, accomodò la rimboccatura delle lenzuola, portò la destra al primo bottone della tunica... Ma — e la ronda? — pensò facendo un lieve cenno col capo come se movesse la domanda ad un altro; e, preso il lume in atto dispettoso, si andò a piantare diritto come un palo dinanzi alla tabella dell’orario, affissa ad una delle pareti sotto il ritratto del Re. Puntò l’indice in fondo al foglio e cominciò a farlo serpeggiare sotto le righe leggendo rapidamente e masticando le parole in suono inarticolato e stizzoso, finchè si fermò ad un tratto e pronunciò con voce distinta: Ronda nell’interno delle camerate, alle undici. — Ih! — soggiunse tosto ritornando verso il letto e battendo con forza il candeliere sopra il tavolino, n’ero ben certo io! — e stava lì dritto, immobile, cogli occhi fissi sul guanciale, e le mani in atto di sbottonare la tunica.
Ronda! Ronda! — prese a dir poi, facendo lentamente uscir dall’occhiello bottone per bottone; — dopo essere stati in piedi tutto il giorno, dopo aver corso di qua e di là e di su e di giù senza un minuto di requie, ed essersi sfiatati a gridare dalla mattina alla sera, viene finalmente l’ora di posar le ossa in un po’ di letto e godere un momento di pace; ma nossignori, c’è la ronda! la ronda alle undici. Voi dovete pigliare in mano la vostra brava lanterna e da capo a girare, a frugare, a strillare, e perchè tutti siano a letto, e perchè la cantina sia chiusa, e perchè non aprano il portone, e perchè nessuno se la batta dalle finestre, e dàgli e dàgli, che la durerà fin che la può durare. Finalmente...
Intanto aveva gettata la tunica sopra una seggiola accanto al letto.
— Finalmente sono di carne anch’io come tutti gli altri, e la pelle pel servizio non ce la voglio lasciare; oh no di sicuro. Già a questo modo non si va più avanti; è impossibile. Senza burle, non c’è nemmeno tempo per mangiare, non c’è; e la tabella è lì che lo può dire. Niente di più facile...
E i calzoni erano andati a far compagnia alla tunica.
— Niente di più facile che metter fuori un orario, seduti a tavolino, con un buon pranzo in corpo e un sigaro da sette in bocca; niente di più facile. Il guaio è per i poveri diavoli che ci hanno da stare, all’orario. Gli è sempre in basso che si sgobba. Che un povero uffiziale di picchetto non abbia tempo a fare un po’ di chilo, o che importa a certi signori? Sgobbi, sgobbi; e se sgarra, dentro. In fin dei conti...
E le mutande erano andate a riposar coi calzoni.
— In fin dei conti poi, chi ha da capitare qui a quest’ora, alle dieci? Chi si piglierà la scesa di testa di venire a vedere se io faccio o non faccio la ronda? Fuori, un freddo da cani, un vento che fa gelar la faccia; una strada poi, che c’è da rompersi il collo ad ogni passo. Il colonnello sta dall’altra parte della città, e poi non è solito a far delle sorprese. Il maggior di servizio... oh quello lì è ammogliato e non c’è pericolo che si risolva a venire. Il capitano d’ispezione a quest’ora è là che fa la sua partita a tarocchi e non gli salta certo il ghiribizzo di trascinarsi fin qua. E poi, e quand’anco venisse? Convien pure...
Intanto s’era ficcato nel letto, tutto tremante di freddo, e rannicchiandosi e rivoltandosi mollemente sotto le coltri moveva le labbra ad un risolino di voluttuosa poltroneria.
— Convien pure che picchi per farsi aprire. E prima che il caporale di guardia l’abbia sentito, e si sia mosso, ed abbia trovato il buco della serratura, ed abbia aperto, son cinque minuti che corrono ed io ho tempo di vestirmi o bene o male, volare alla porta, aprirla, afferrar la lanterna nel corpo di guardia e via nei cameroni a recitare la mia parte...
E qui die’ un gran soffio nel lume, si tirò le coperte sul capo, si voltò sopra un fianco, cercò una comoda positura e chiuse gli occhi, pensando: — e via nei cameroni a recitar la mia parte. Oh gli è pure un gran gusto il cacciarsi in un letto dopo aver faticato tutto il giorno! Che mestiere! E dire che con tutto il mio buon volere non ne indovino mai una, con quel barbone di capitano. La carne è cruda? Di chi è la colpa? Mia. Le scale son sudice? Chi ne ha il torto? Io, diavolo. I cameroni sono in disordine? Chi se la piglia la parrucca? Io, io, sempre io, non altri che io. — Oh che buon letto. — E a sentir certuni noi siam gente che non ha altro da fare che empir di fumo i caffè e dar dietro alle ragazze. Venite a provare, venite, ora che tutto il mondo è in aspettativa... e con quel fior di stipendio... e le imposte...
A mano a mano, divagando in questa difesa di sè stesso, i pensieri e le immagini gli si intorbidarono; il capitano, il maggiore, la moglie, le aspettative, le imposte si confusero in una mescolanza bizzarra che si dileguò a poco a poco, a poco a poco... Sonno profondo.
Ma non s’era addormentato senza un po’ di inquietudine, senza un po’ di rimorso. Ogni volta che gli veniva in capo l’idea della ronda ei si sentiva dentro un po’ di stringimento. Lo stesso accade al discoletto che mancò alla scuola per andar coi compagni a far alle palle di neve: l’immagine del maestro e della mamma lo assale a quando a quando e l’inquieta, e più ei la scaccia da sè, più quella ritorna importuna e piccosa come una mosca.
Sognò. Cominciarono a passargli per la mente l’un dopo l’altro, que’ dieci o dodici soldatacci indisciplinati che in tutti i reggimenti salgono in fama per iscappate notturne e baraonde di bettola e furfantesche imprese condotte a termine fortunatamente; altri celebri per farla franca; altri famosi invece per consegne e per prigioni e per lunghe appendici al numero diciotto; e gli pareva che ciascun d’essi, passando, gli bisbigliasse a fior di labbra: — Dormi, dormi, chè te la faccio. — E si dileguava. E gli passavano dinanzi, col sigaretto in bocca e un mazzettino di fiori in mano, tutti i più eleganti e più azzimati sott’uffiziali del reggimento, quelli che portano la divisa sulla nuca e le scarpettine col tacco fatto a punta, ed hanno l’amorosa in città, e quando se la possono svignare un momento al chiaro di luna non ne aspettano l’ispirazione due volte. E gli pareva che ciascun d’essi, passando, mormorasse sommessamente: — Dormi, dormi, chè te la faccio. — Lo stesso sergente di guardia che poc’anzi gli aveva risposto quel rispettoso: — Non dubiti, — e gli aveva fatto quel gesto così rassicurante, ora, ricordandolo bene, parevagli di aver notato che gli occhi gli scintillassero di malizia e sotto i baffi avesse atteggiato le labbra ad una smorfia sospetta, come per dire: — Va pure a dormire, chè te la faccio.
E d’una in altra cosa, gli pareva di trovarsi in mezzo alla via, dietro la caserma, e guardava intorno attentamente se le sentinelle vegliassero e stessero al posto. C’erano tutte. Anzi ne scorse una che non gli era sconosciuta; un soldato della sua compagnia, il più coscritto, il più tondo, e il più poltrone; per giunta di vista corta e un po’ duro d’orecchio. — Ma vedete, egli pensava, se non pare che me l’abbian messo lì per dispetto un citrullo di quella sorte, che non è buono a niente! — E lo spiava. La sentinella allungò il collo fuori del suo casotto, guardò a destra e a sinistra se nessuno venisse, appoggiò il fucile in un canto, si ravviluppò nel mantello, sedette, chinò la testa sulle ginocchia e s’addormentò. Il povero sognatore si avventò stizzito contro quel briccone, lo ghermì per una spalla, lo scrollò, aperse la bocca ad un’imprecazione...
In quel punto gli parve di sentire un lieve rumore sopra il suo capo; levò gli occhi in su alle finestre. Dall’un de’ davanzali spunta e si muove incertamente una cosa nera, si allunga, discende lenta lenta, arriva a terra; è una corda. Dopo averla accompagnata cogli occhi fino a terra, li rialza alla finestra; vede sporgere una testa, due spalle, tutta una persona, girare guardinga sopra sè stessa, afferrare la fune, discendere, sparire. Dietro subito, di corsa. Già gli è vicino, già lo raggiunge, già stende le mani a ghermirlo pei panni...
In quel punto gli si para davanti una porta; la porta della cantina. La tenta leggermente colla mano; essa cede. Uh! che baccano! Un acciottolio di piatti, un tintinnio di bicchieri, un urlìo di voci rauche e dissonanti, un sonar confuso di bestemmie e di canti e un puzzo di fumo di pipa che lo respinge indietro. Si fermò un istante; spinse un’altra volta la porta, e si spalancò. Quale spettacolo! La stanza piena zeppa di soldati; chi vestito, chi in farsetto, chi col cappotto sulle spalle a mo’ di mantellina spagnola e il berretto indietro alla bravaccia; chi seduto sulle tavole, chi a cavalcioni, chi lungo disteso sulle panche, chi sdraiato sconciamente sul pavimento; gli occhi lustri, vitrei, istupiditi; le faccie accese; altri brillo, altri briaco affatto; altri sonnacchioso, altri dormente sonno profondo; qualcuno tentava di rizzarsi in piedi e ricadeva pesantemente sopra la panca; qualche altro, riuscito a levarsi su, barcollava per la stanza urtando e facendo tentennare le tavole e tremar sonoramente i bicchieri e le bottiglie; in ogni parte un gran moto di carte e di quattrini, e un trinciar l’aria colle mani a modo di scongiuri cabalistici, e grida e risate, e tutto avvolto in un denso nuvolo di fumo da restarne soffocati in dieci minuti. — Fuori! fuori! — pareva di gridare al povero sognatore; — sergente! sergente! mi noti il nome di tutti, tutti dentro, tutti ai ferri, tutti...
In questo punto gli parve di sentirsi dietro un cigolìo come di grossa porta che si muova lentamente sui cardini; si volse, guardò attorno, e si accorse che era nel corridoio d’entrata, vicino alla porta del quartiere. Un’ombra nera si avanzava sospettosa rasente il muro, come una figura di bassorilievo ambulante; moveva due passi, si fermava, si guardava attorno, ricominciava ad andare, si fermava un’altra volta, come avesse paura; giunse alla porta, tossì, strisciò i piedi, ed ecco sul limitare della porta del corpo di guardia un’altra figura, come la prima, circospetta e guardinga. Si scambiarono poche parole sommessamente; la porta s’aperse adagio adagio, uno di que’ due spari. — Ah! lo riconobbi, — pensò il sognatore, il sergente dell’ottava. — E si volse e ne vide un altro. Dietro a questo un terzo. E poi un quarto. Il sergente della quinta. Il furiere della sesta. Il furiere della terza. — Ah! traditori! — sognò di gridare — alla sala tutti! tutti alla sala! sergente di guardia! sergente...
In questo momento gli parve di dar della mano contro qualche cosa di cedevole e di lanoso. Si volge; è un letto. Dietro a questo un altro, e poi un altro, e un altro ancora, una lunga fila di letti. Guarda intorno e s’accorge d’essere in un dormentorio; un lumicino in fondo al camerone rischiarava velatamente gli oggetti; tutto taceva; si sarebbe sentito volare una mosca. All’improvviso uno dei dormenti comincia a russare, dapprima leggermente, poi più forte, poi in un modo da farsi sentir nella strada. Qualcuno si sveglia. Un vicino tende le braccia, sbadiglia, si frega gli occhi e scappa fuori a dire: — Ohè! non potresti dormire un po’ più da cristiano? — Niente, non se ne dà per inteso. — Hai capito di dormire un po’ più da cristiano? — gli urla più forte il vicino. Niente; gli è come parlare al muro. — Corpo di una bomba! — esclama questi saltando giù dal letto, ora t'aggiusto io. — Se gli avvicina, lo afferra per ambe le braccia e gli dà una scossa così gagliarda che ne trema il suo letto e quello dei vicini. Il russatore si scuote, si desta, intravvede, comprende, un calcio alle coperte, un grido, un salto, è in piedi col guanciale nelle mani, e giù sulla nuca all’importuno una botta da orbo. Questi gli rende la pariglia; il primo incalza; un terzo accorre in sostegno del più debole; un quarto vola in difesa del primo; s’impegna la zuffa; tutti balzan dal letto; cresce il baccano; il lume si spegne; le schiere si confondono; un vetro è andato in pezzi; un altro; gli zaini vengon giù dalle assicelle, le lenzuola giù dai letti, i fucili giù dalle rastrelliere... Il povero sognatore stordito, convulso, cieco d’ira, sta per mandar fuori un grido poderoso che copra quel frastuono d’inferno e inarca la persona per slanciarsi in mezzo alla mischia...
In quel punto sentì bussare gagliardamente alla porta, e gli parve che una voce lo chiamasse per nome. Palpitante, esterrefatto, tutto grondante di sudore, si levò faticosamente a sedere, tese l’orecchio, trattenne il respiro. — Tenente! tenente! il capitano d’ispezione, — disse un’altra volta quella voce.
— Dio mio! presto, le calze, le calze; dove sono le calze? No, non importa; i calzoni... dove sono? Ah! eccoli... presto. Le scarpe, ih! non possono entrare; su, su, su, ci sono. La tunica; un braccio, un altro... la tunica c’è. La sciabola... Ma dov’è in nome di Dio questa sciabola? La sciarpa, adesso, la sciarpa, va a trovare la sciarpa... Eccola qui; ah! finalmente...
E così vestito alla carlona, colla tunica sbottonata, senza calze, senza cravatta, senza mutande, s’avventò trafelando alla porta, l’aperse, guardò intorno e lo vide... Vide il capitano d’ispezione, dritto, immobile, rigido, colle braccia incrociate sul petto e la tesa del berretto calata sugli occhi e gli occhi scintillanti sotto le sopracciglia aggrottate come due carboni roventi.
— Ha fatto la ronda?
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Ora io domando: è peggio fare un sogno di questa sorte, o buscarsi una scalmana facendo la ronda, od anco dare una stincata in qualche letto allo scuro? Io sono per la stincata e per l’infreddatura. E credo che la più parte dei lettori siano con me.