< La vita militare
Questo testo è completo.
Una sassata Il figlio del reggimento

LA MADRE.


Allorchè l’inverno muore lentamente nella primavera, nelle sere di que’ bei giorni limpidi, queti, senza vento, in cui si tennero spalancate per le prime volte le porte e le finestre, e si stesero fuori dei davanzali i vestiti da estate, e si portarono sulle terrazze i vasi dei fiori, in codeste belle sere chiare e stellate, anche le città, — non solamente quell’eterna campagna de’ poeti, — offrono uno spettacolo vago, gentile, pieno di allegrezza e di vita. A passeggiar per le vie, si sente di tratto in tratto nel viso un’ondata d’aria tepida, odorosa, di che? di quai fiori? di quali erbe? non si sa; son profumi indistinti, ignoti, che sentono di freschezza, di gioventù, di vita. E quell’aria si aspira con voluttà aprendo la bocca e dilatando le narici, e pare che ci rinfreschi il sangue e ci rinnuovi la vita. — Oh, che buon’aria! — esclamiamo di tratto in tratto, e, quasi senza volerlo, quasi senza addarcene, di cantonata in cantonata, di via in via, ci troviamo fuori delle mura, lungo i viali circostanti alla città, nei giardini, e scopriamo e solleviamo la testa per sentirci alitare su tutta la fronte e scorrere fra mezzo ai capelli quella buon’aria soave.

Quelle sere non si può stare in casa, o, se ci si ha da stare, si sta affacciati alla finestra a guardar giù nella strada la insolita frequenza e l’insolito moto, e a rodersi del non poter discendere in mezzo a quella gente; che andare a letto per tempo e non godere, neppure dalla finestra, una così bella serata, ci parrebbe un peccato.

Nelle vie principali è un vero formicolìo. Le case son vote. Le famigliuole, anche le più casalinghe, si decisero ad uscire dal guscio; il babbo si affacciò alla finestra, guardò giù, guardò il cielo: — Bel tempo! — esclamò, e voltosi alla famiglia che gli stava dietro aspettando un cenno: — usciamo — disse allegramente, e dopo molto correre e vociare di qua e di là per tutte le stanze battendo palma a palma e mettendo sossopra la casa per cercare le vestine e i cappelli al buio, i ragazzi son pronti e la brigatella si mette in moto. Anche la nonna, povera vecchia, si sente quella sera fuggire qualche anno d’addosso e, malgrado i malanni abituali, esce anch’essa, appoggiata al braccio del nipote più savio. La comitiva si allunga giù per la via, due a due; i ragazzi innanzi salterellano e sfringuellano tra loro dando colla testa e colle mani nelle gambe a chi passa; i vecchi indietro, zoppicando e tossendo, badano a scansare le carrozze e a non perder d’occhio i fanciulli. Gli sposi di fresco e i fidanzati girano, due a due, e rigirano per le vie più quiete e pei viali dei giardini, stretti pel braccio, appiccicati, le teste che si toccano, le dita che si stropicciano, le gambe che si rasentano, e lì a dire e a dire e a dire, e a scambiarsi delle lunghe occhiate, e dei lunghi sospiri, e delle lunghe strette di mano, esclamando di tratto in tratto cogli occhi volti al cielo: — Com’è bella, questa sera, la luna! — La sartina torna dalla bottega alla casa dondolando rasente i muri la personcina leggera, e facendo le viste di non accorgersi di un cappello cilindrico che le tien dietro passo per passo, e le si parerà dinanzi alla svolta di quella tal cantonata, buia che è un piacere. Le fanciulle più poverelle, che hanno lavorato in casa dal levar del sole al tramonto, scendono, saltellando, le scale, incontrano sulla soglia della porta le vicine che stavano ad aspettare, fan crocchio e levano un cicaleggio garrulo e vivace, aggruppando le testoline come i fiori di un mazzetto, e facendo rotare attorno all’indice teso il nastro delle forbici attaccato alla cintola, e rispondendo alle parolette bisbigliate dai giovani che passano: — Grazioso! col cuore, e colla bocca: sfacciato! — E volgon loro, con un moto dispettoso, le spalle, non tanto però che colla coda dell’occhio non arrivi a squadrarli dalla testa ai piedi per veder chi sono e come sono. Altre, schierate in quattro o cinque a braccetto, col capo scoperto, giungono fino in fondo alla via, toccandosi nei gomiti al passar dell’uno e dell’altro, e parlandosi nell’orecchio e ridendo forte, e volgendosi di quando in quando a garrire con un piglio materno alle più piccine che scorrazzano attorno. Intanto i garzonetti vengon via dalle fabbriche e dalle officine col cappello schiacciato sur un orecchio, la giacchetta gettata a casaccio sopra una spalla, un mozzicone di sigaro sprezzatamente addentato e volto e rivolto fra le labbra nere; vengon giù a stormi per la via, dimenando le spalle con quel certo vezzo sgarbato e vociando lo stornello di moda; s’imbattono in quelle fanciulle, si accostano, dan del gomito nel gomito, del ginocchio nei cerchi, una gran boccata di fumo nel viso; le poverette si sparpagliano strillando, tossendo, passando le mani sugli occhi lagrimosi. I monelli staccano coll’unghie e tiran giù dai muri gli avvisi de’ teatri; i fanciulletti fanno il chiasso nelle piazze, e le madri, ritte in crocchio sulle porte coi bimbi in collo, indugiano il grido consueto: — A letto! — grazie alla tepidezza inconsueta dell’aria e alla serenità purissima del cielo. Lungo le vie, dalle botteghe a dritta e a sinistra, si sente uno sbatter continuo d’imposte, un suonar violento di spranghe e uno scorrere rumoroso de’ paletti negli anelli, e un darsi e un ricevere la buona notte dagli operai che vanno a casa. Rimangono aperte le botteghe signorili, illuminate, lucenti, dalle ampie vetrine, dalla soglia affollata di curiosi; notevoli, fra le altre, quelle de’ librai, per quei concistori di letteratoni antiquati, tabaccosi, colle chiome lunghe e scarmigliate, rincantucciati là in fondo a brontolar di politica barbogia o di cartapecore dissotterrate; i caffè pieni zeppi di avventori avvolti in una gran nebbia di fumo, e un cicalìo rumoroso che, ad ogni aprire e chiudere della vetrata, risuona a ondate nella via. Nelle piazze, come dissi, e nelle strade un vero formicolìo, e un andirivieni di carrozze veloci.

Era una di codeste belle sere, quando il mio reggimento, giunto la mattina in una delle più cospicue città d’Italia, si trovava sparpagliato per le vie aspettando che si sgombrasse la caserma ch’ei doveva occupare, e si desse nei tamburi per la ritirata.

I soldati erano tuttora in pieno assetto di marcia, le ghette abbottonate sopra i calzoni, la giberna alla cintura, la sacca del pane e la borraccia a tracolla. Stanchi della marcia e tuttora bianchi di polvere i panni e i capelli, stavan fermi a gruppi sulle cantonate, le spalle al muro, le braccia incrociate sul petto, l’una gamba piegata sull’altra; o immobili dinanzi alle botteghe degli orefici a contemplare a bocca aperta quelle vetrine tappezzate di medaglie e di croci d’ogni forma e d’ogni colore, a cui gl’impiegati vecchi e i maggiori anziani sogliono, passando, lanciare un’amorosa occhiata di traverso, e un sospiro. Molti s’erano impancati nelle osterie a rifocillarsi con un sorso di vino; altri, i meno rifiniti, vagavano per le vie. Tutti però, o quasi tutti, avevano la cera seria, ingrognata, e parlavano rado, sommesso e svogliato; un po’ per la spossatezza e la sonnolenza, e più per quell’attonitaggine, quello stordimento da cui suol esser presa la mente quando ci troviamo per la prima volta in mezzo a una città sconosciuta e rumorosa.

In mezzo alla serietà taciturna d’un piccolo gruppo di soldati che stavan seduti sulla gradinata d’una chiesa accanto alla caserma, spiccava in singolar modo la gaiezza irrequieta e l’incessante parlantina di uno di loro, bassetto della persona, di forme esili e snelle e di volto imberbe e simpatico per due grand’occhi color del cielo, il quale saliva e scendeva e risaliva continuamente la gradinata, saltellando a mo’ di un ragazzo; e si fermava ora accanto all’uno, ora accanto all’altro, ed empiva l’orecchio di chiacchiere a tutti, e a questi tirava le falde del cappotto, a quell’altro levava dal cheppì la nappina per posargliela sulle ginocchia, a un terzo metteva le mani sugli occhi dicendogli. Indovina! — Insomma, pareva che avesse l’argento vivo addosso. Passando davanti a quella chiesa, lo notai; mi fermai rasente al muro opposto della via, e stetti qualche minuto a guardarlo, pensando quale potesse mai essere la cagione di quella tanta e così strana festività. La fisonomia aperta e piacevole di quel soldato mi si scolpì nella memoria. Mi allontanai.

Il dì dopo mi venne fatto di sapere, per mero accidente, ciò che avevo dimandato a me stesso la sera. Quel soldato era soldato da quattr’anni; per una serie fortuita di casi che non importa narrare, dal dì della sua partenza da casa fino a quel giorno, egli non aveva ancora ottenuto un congedo, nemmeno brevissimo, per ritornare al suo paese e rivedere la sua famiglia. Quattr’anni! A un soldato, come seppi ch’egli era, di cuore, svisceratissimo dei suoi parenti e del luogo ov’era nato e cresciuto, d’indole mite e pacata e abborrente da ogni maniera di stravizzo (gli stravizzi, fatti abituali, addormentano, o, almeno, illanguidiscono gli affetti più vivi e le memorie più care), a un soldato siffatto quattro anni passati senza vedere la famiglia e il paese natìo dovevano esser parsi assai lunghi! E gli eran parsi tali davvero; si era sempre mostrato un po’ malinconico; in caserma, taciturno; fuori, per lo più, solo. Nelle ore di libertà, mentre i suoi compagni gironzavano pei giardini pubblici facendo delle carezze interessate ai bimbi condotti per mano dalle belle ragazze, egli soleva misurare in lungo e in largo la piazza d’armi col mento inchiodato sul petto, o stava seduto sur un sedile di pietra all’estremità d’un viale solitario a disegnar dei fantocci nell’arena colla punta dei piedi. E pensava sempre ai parenti, agli amici, ai luoghi che non aveva più visti da quattro anni; e sopra tutti e sopra tutto pensava a sua madre. Sua madre era una povera contadina, vecchia, infermiccia, ma di natura gioviale e intensamente amorosa; un cuor d’angiolo. Dei suoi figli, quel ch’ell’amava con più viva tenerezza ed anche con un cotal sentimento particolare di sollecitudine e di pietà gentile, era il figlio soldato; cosa naturale. E gli scriveva o gli faceva scrivere di frequente, e le sue lettere lette, rilette e baciate e ribaciate e portate lungamente in seno come una reliquia di santo, avevano virtù di mitigarle d’assai l’amarezza di quella lontananza. E così al figlio le lettere della madre. Ma sì! ci vuol altro! La carta, alla fin fine, è carta, e le madri amorose li voglion vedere, i figliuoli, li vogliono aver sotto gli occhi, vogliono toccarseli colle mani e baciarseli in fronte dieci e dieci volte d’un fiato; e ai figliuoli non basta il saper che quella cara testa dai capelli bianchi è a casa e pensa a loro; vogliono stringersela fra le braccia, quella testa; voglion posarci la bocca sopra, a quei capelli bianchi. E però, così la buona vecchia come il suo caro soldato avean vissuto, in quei quattr’anni, una vita di continue speranze e di continue aspettazioni deluse, di malinconie, di ansietà, di batticuori. Il figliuolo, partito da un paesello del settentrione d’Italia, era stato condotto, col suo reggimento, in Sicilia e vi s’era trattenuto due anni (in Sicilia, povera mamma, con quel mare così lungo fra mezzo); dalla Sicilia era passato nelle Calabrie e v’era stato un anno, un altr’anno nell’Italia centrale. Finalmente, un bel giorno, si sparse nel reggimento una voce di partenza. — Dove si va? — domandò il nostro soldato al suo sergente di squadra, e stette ad aspettar la risposta col respiro sospeso e colla mano sul cuore che gli batteva da rompersi. — Nell’Italia settentrionale — gli fu risposto. Gli si rimescolò il sangue. — Dove? — domandò un’altra volta mutandosi in volto dalla gioia; il sergente gli disse la città; era la più prossima al suo paese; pianse. La sera stessa, appena potè, scrisse a casa.

Ecco la ragione della sua allegrezza di quella sera; quella città era a poche miglia dal suo villaggio.

Ora, con quel ch’io seppi dappoi e quel ch’io vidi e quel ch’io non potei che immaginare o supporre, ma che può e dev’essere accaduto tal quale, voglio farvi un racconto che forse vi farà venir la voglia di dare un bacio un po’ più forte del solito a vostra madre.

Eran trascorsi due giorni da quel dell’arrivo. Il nostro soldato stava ancora ventilando il disegno di chiedere un congedo di pochi giorni per volare a casa, quand’ecco, una bella sera, nel dormentorio della compagnia, il furiere cerca di lui, e, trovatolo: — To’ — gli dice porgendogli una lettera — vien di vicino. — Glie l’avea porta appena, ch’era già dissigillata e spiegata al chiarore d’una lucerna, in un cantuccio del camerone fra due mani malferme e sotto due occhi dilatati e luccicanti di due belle goccie di pianto. Lesse la lettera rapidissimamente seguendo col moto della testa il serpeggiamento dell’occhio e borbottando affollatamente le parole; lettala, la strinse fra i pugni e lasciò cadere ambe le braccia alzando i grandi occhi al cielo, e quelle due grosse goccie, dopo aver tremolato incerte sulla palpebra, caddero, gli corsero le guancie senza disfarsi, e gli si vennero a sciogliere calde calde sulle mani. La lettera era di sua madre e diceva: «Domani verrò in città, a piedi; sono quattro anni che non ti vedo! Oh, figliuolo, io non posso più stare; ho tanto bisogno di gettarti le braccia al collo!»

Quella notte non potè chiuder occhio. Si cacciò sotto le coltri irrequieto, e non trovò posa, e non fece che scontorcersi e voltarsi ora sull’uno, ora sull’altro fianco, ora supino, ora bocconi; sempre invano, chè la coperta gli parea grave grave, e si sentiva addosso una gran caldura, un gran peso sul petto, una irrequietezza, una smania di moto, un’avidità tormentosa d’aria aperta. Afferrava ogni momento la rimboccatura della coperta e la spingeva in giù fino al ginocchio, sospirando, soffiando, chè gli pareva di giacere accanto ad una fornace. Di tratto in tratto si metteva a sedere sul letto e guardava intorno i compagni: dormivano tutti un sonno quieto e pieno, quale si suol dormire in primavera. Guardava quel po’ di cielo stellato che appariva per un’angusta finestra della parete opposta, e pensava: oh, se fossi in campagna a respirare quell’aria! Guardava una lucerna posta in un angolo lontano, la quale mandava intorno una luce tremola che appariva e spariva a vicenda, e gli pareva che quella luce gli crescesse l’affanno e facesse il tempo più lungo. Poi si stendeva di nuovo nel letto e si metteva a pensare al dimani, chiudendo gli occhi e stando immobile per vedere d’addormentarsi in quel dolce pensiero; ma sempre invano. Quel dolce pensiero non gli dava pace; la persona era immobile, gli occhi erano chiusi; ma il cuore batteva batteva come gli dicesse: non dormirai, non dormirai; e dopo un po’ di tempo gli era forza riaprire gli occhi, e guardare intorno da capo. E molte e lunghe ore passarono così. Finalmente la stanchezza lo vinse, il cuore tacque, la fantasia ardente si quetò. Egli dormì; sognò il dimani; sognò sua madre. Gli pareva di vedersela là, ritta accanto al suo capezzale, sorridente; gli pareva di sentirsi passare sulla fronte la sua mano, e sognava di afferrarla e posarvi le labbra su. Poi d’un tratto gli parve di essere tornato fanciullo, in casa, e gli rivennero in mente, una ad una, cento piccole scene della vita domestica dei suoi primi anni, e in quelle scene sempre sua madre in atto di confortarlo, piangente; o di difenderlo, minacciato dal padre; o di curarlo, ferito per caduta; o di assisterlo, malato; e sempre ansante di pietà e di sollecitudine, sempre amorosa, sempre madre! Poi si sognò adulto; si risovvenne del dì della partenza, il pianto materno, i lunghi e rinnovati abbracciamenti, le date e ricevute parole di addio e di conforto, e si sentì stringere il cuore proprio come quel giorno; si sentì attorno alla vita le braccia di sua madre che non voleva lasciarlo partire; tentò di sciogliersi, non potè; mise un gemito.... Era desto. Guardò attorno, pensò, si ravvide, e quello fu un momento di gioia che si può forse immaginare; ma non si potrà esprimere mai.

Giù nel cortile della caserma scoppiò un fragoroso rullo di tamburi. Tutti balzarono dal letto. Egli si vestì in fretta e fece cogli altri le solite cose della mattina, ilare e sereno in volto; ma colla febbre addosso e col cuore violentemente agitato. Andava soffregando coi piedi il pavimento, si morsicava or l’uno or l’altro labbro, si passava e ripassava la mano sulla fronte calda calda, e chiedeva tratto tratto ai vicini che ora fosse, e si guardava ogni momento dal petto ai piedi s’era pulito e se aveva ogni cosa al suo punto. Finalmente giunse quel sospirato mezzogiorno. Sospirato, però che sua madre, partendo da casa, come era detto nella lettera, intorno alle nove del mattino, avrebbe dovuto giungere in città fra il mezzogiorno e il tocco, tenuto conto della via ch’ella aveva a percorrere e della lentezza con cui, povera vecchia, l’avrebbe percorsa. Appunto in quell’ora i soldati doveano uscir di quartiere per attendere alla scuola del bastone. Il nostro buon figliuolo, facendo valere la lettera di sua madre, ottenne la dispensa da quella scuola. I soldati uscirono; i cameroni rimasero deserti; egli salì di corsa le scale, volò al suo letto, vi si appoggiò colla mano, e stette un istante fermo, chè gli pareva non potersi reggere sulle gambe, e il petto gli ansava forte forte.

Di lì a un poco, sedette sul letto; appuntellò i gomiti sulle ginocchia, appoggiò la faccia sulle palme, fissò gli occhi sul pavimento, e pensò: — Essa verrà. Verrà qui; proprio qui; in questa caserma. Oh Dio! — E ridendo in suoni tronchi e repressi si grattava con le mani la fronte. — Quattro anni che non la vedo! Quattro anni! — E faceva cenno colle quattro dita della mano. — Come sono stati lunghi! — E riandava colla mente le malinconie, gli scoraggiamenti e le ambasce patite. — Oh! — esclamava poi con un accento soave e tremante di amorosa pietà, giungendo le mani e scuotendo lievemente la testa cogli occhi fissi sur un punto del muro, come in atto di dire: povera mamma! e diceva infatti: — Povera mamma! E tu parti di così lontano per venirmi a vedere, e vieni sola sola, e a piedi, e fai tante ore di cammino sotto il sole, e arriverai qui in questa città così grande, in mezzo a tanta gente, senza saper dov’io mi sia, e dovrai domandare qua e là dov’è la mia caserma, e stare ancora in piedi per tanto tempo, tu, sola, vecchia, malaticcia, spossata, e forse ti perderai per le vie della città e vagherai senza saper dove e ti piangerà il cuore di non trovarmi.... Oh povera vecchia! — E seguitava a tener le mani giunte e gli occhi fissi sul muro, e andava serrando con rapida vicenda fra i denti ora un labbro ora l’altro e battendo celere celere le palpebre come per ricacciar giù il pianto ch’era in procinto di uscire. E ripeteva di tratto in tratto: — Povera vecchia! —

Poi si passava tutt’e due le mani sul viso, scuoteva la testa, mandava un sospiro, si rizzava in piedi impetuosamente e passeggiava per la stanza col passo d’un viaggiatore frettoloso. Dopo un po’ s’arrestava tutt’ad un tratto: — Sarà ora? — Correva alla finestra che dava sulla strada, si sporgeva fuori del parapetto, guardava a destra e a sinistra, una, due, tre volte: — nessuno. Gli saliva il sangue alla testa. — Pensiamo ad altro! — diceva a sè stesso; e si metteva di proposito a scacciar dalla mente l’immagine di sua madre per ingannare così il tempo dell’aspettazione penosa. Scacciar quell’immagine! Poveretto! Era impossibile; vi rinunziò.

— Guarda, mamma, — diceva poi a viva voce scuotendo dinanzi al viso le due mani aperte, io ti voglio un bene, sai, un bene.... — Guardò attorno; non c’era alcuno; proseguì: — Un bene che a questo mondo non si può volerne di più! — E lasciando cader le mani giunte sul letto, seguitava a scrollar dolcemente la testa come per significare più chiaramente coll’atto il senso delle sue ultime parole: — Non si può volerne di più. — Poi, all’improvviso, si scuoteva e: — Sarà ora? — domandavasi un’altra volta, e un’altra volta si lanciava verso la finestra, e, giuntovi presso, si fermava ad un tratto e le volgeva le spalle: — no — dicendo a sè stesso — non devi guardare. E batteva col piede il pavimento come per ripetere: — no. — Ma sorrideva, e quel sorriso voleva dire: Eh, non ci riesco! E difatti, dopo un istante, si riaffacciava alla finestra e guardava: — nessuno.

Ritornava accanto al letto e studiava un modo di ingannare il tempo. Piegava un braccio coll’indice teso contro il mento, sorreggeva il gomito di quel braccio colla palma dell’altro, e, figgendo gli occhi sul letto e appoggiando sulla sponda un ginocchio, correva colla mente a casa, vedeva sua madre fare un involto di camicie e di fazzoletti per portarlo a lui, la vedeva pigliar comiato dai suoi, mettersi in strada; l’accompagnava cogli occhi della mente lungo la via, quella via così lunga! sotto la sferza del sole, in mezzo ai nuvoli di polvere sollevati dai carri e dalle carrozze trascorrenti rapidamente. Quei carri, ei li vedeva rasentare le gonnelle della povera donna, toccarle, scoterle; ella, vecchia e stanca e mal ferma sulle gambe, non faceva in tempo a scansarli, quei carri; ecco, uno ne sopraggiunge di gran corsa, le è vicino, sta per urtarla. — Ah! scansati — esclamava a fior di labbra il figliuolo, facendo, senza addarsene, un cenno della mano come per afferrarla pel braccio e trarla da un lato. E le indicava col dito i paracarri da evitare, e i punti della via ingombri di pietre e i tratti sdrucciolevoli delle sponde; e, dopo molto andare e andare, gli pareva di vedere la povera vecchia camminar vacillando, curva sotto il peso dell’involto, stremata di forze, assetata, ed ei se ne struggeva in cuore e ne gemeva e andava dicendo fra sè: — Oh, povera donna, dammelo a me quell’involto; lascia che io te lo porti; dammi il braccio. — E scostava il gomito destro e gli pareva di sentirsi entrare fra il braccio e la vita un braccio tremante, e colla mano manca, sempre tenendo gli occhi attonitamente immoti, andava tastando l’aria verso destra, all’altezza del fianco, in cerca della mano di sua madre.

Poi ritornava in sè; il pensiero che indi a pochi minuti avrebbe abbracciato sua madre gli ritornava limpido nella mente, e ne sentiva, come per la prima volta, tutta la dolcezza; gli occhi gli si animavano, le labbra gli fremevano, tutti i tratti del viso gli si tramutavano dalla gioja. Un lieve sorriso, poi un sorriso aperto, poi gli veniva su un singhiozzo di riso convulso, il petto e le spalle gli si andavano alzando e abbassando come per l’affanno di una corsa; un altro singhiozzo, un altro più forte, un altro ancora, uno scoppio di pianto, e si lasciava cadere sul letto colla faccia nelle mani e soffocava contro le coltri quel misto violento di pianto e di riso, scrollando ancora la testa come se dicesse: — Povera mamma! —

— Diventi imbecille? — urlò un caporale attraversando il camerone e soffermandosi sulla soglia della porta per cui doveva uscire.

Il soldato si scosse, si rizzò in piedi, si voltò e lo guardò cogli occhi molli di lagrime e la bocca aperta a un sorriso; non aveva capito. Il caporale sparì mormorando: — Che stupido! —

Rimasto solo, stette un minuto sopra pensiero; quindi, come spinto dal sorgere improvviso d’un’idea, afferrò lo zaino appoggiato sull’asse del pane, lo trasse giù sul letto, lo aperse dopo aver gingillato un pezzo colle dita tremanti intorno alle fibbie delle cigne, vi frugò dentro in furia con ambe le mani e ne trasse frettolosamente spazzole, pettini, scatolette, cencerelli; ordinò tutte queste cose sulla coperta; afferrò una spazzola, appoggiò il piede sull’estremità d’un’asse del letto, si chinò e cominciò a lustrare a tutta forza le scarpe fermandosi tratto tratto a guardare se luccicassero per bene. — Voglio farmi pulito — diceva a se stesso facendo un viso serio serio e seguitando a dar di spazzola. — Sicuro; lustro come uno specchio voglio farmi. Voglio farmi un bel soldato, voglio piacerle. — Lustrate le scarpe, afferrò la spazzola da panni, poi il pettine, poi frugò un’altra volta nello zaino, ne trasse uno specchietto rotondo, l’aperse, si guardò.... Quando l’anima è profondamente agitata da un affetto forte e gentile, e la mente è tutta piena di pensieri e d’immagini ridenti, gli occhi e il sorriso s’improntano così della gentilezza di quell’affetto e della serenità di quei pensieri, che anche il viso men bello, in quei momenti, s’illumina d’un raggio di bellezza; ond’è che quel buon soldato, guardandosi nello specchio e vedendosi brillar l’anima sul viso, sorrise d’ingenuo compiacimento....

Si sente giù per le scale il rumore d’un passo accelerato; il soldato tende l’orecchio; il rumore s’appressa; si sente il passo nella stanza vicina; è il caporale di guardia; entra, guarda intorno, scorge il nostro buon giovane. — Di’ — esclama chiamandolo a nome — c’è una donna alla porta che ti cerca. —

— Mia madre! — gridò con subito slancio il figliuolo, e prese la corsa; traversò, volando, i cameroni; si precipitò giù per le scale, divorò il cortile, si gettò nell’androne, intravvide una figura di donna, si slanciò verso di lei, essa gli aperse le braccia, egli le cadde sul seno, e tutti e due gettarono un grido. Il figliuolo posò le palme aperte sulle tempie alla mamma, gliele fe’ scorrere dentro i capelli grigi, le piegò indietro la testa, la guardò, guardato, negli occhi; poi si serrò quel caro capo contro la spalla, lo coprì colle braccia e le inchiodò la bocca sui capelli, rimasti scoperti per la pezzuola caduta. La buona donna soffocava i singhiozzi contro la spalla del figlio e, strettolo attorno alla vita, gli faceva scorrere le scarne mani sul ruvido cappotto, che per lei, in quei momenti, valeva cento volte il più bel manto di re. I soldati di guardia, trattisi rispettosamente in disparte, guardavano, immobili e silenziosi, quel santo amplesso, col volto atteggiato a una commozione profonda. Io, che quel giorno era di picchetto al quartiere, stavo là presso ritto sulla porta della mia stanza, e guardavo.

— Via, rimettiti, mamma; fatti coraggio; non pianger così. Oh, Dio buono, o che c’è ragione di piangere? — andava dicendo con voce carezzevole il figliuolo, e con ambe le mani le rimetteva dietro gli orecchi i capelli che le s’erano scarmigliati e sparsi sulla fronte nell’impeto di quel primo abbraccio. La vecchia seguitava a singhiozzar forte, senza pianto e senza parola; finchè, alzati gli occhi in volto al figliuolo, sorrise, mise un respiro aperto come le fosse tolto un peso dal cuore, e mormorando: — mio figlio! — lo abbracciò un’altra volta. — Sei stanca? — domandò premurosamente il soldato svincolandosi delle sue braccia. — Un po’ — rispose sorridendo la donna. E girò gli occhi attorno in cerca d’un luogo ove posare il grosso involto che avea recato con sè. — Entrate qua — diss’io spalancando la porta della mia stanza. — Oh! l’ufficiale — diss’ella volgendosi verso di me e facendomi un inchino. — Grazie, signor ufficiale. — Suo figlio restò un po’ confuso. — Entrate, — io ripetei — entrate pure. — Entrarono timidamente e s’avvicinarono al tavolino; la vecchia vi posò su l’involto; io mi ritrassi in disparte.

— Fatti vedere, figliuolo; voltati indietro; lasciati guardare. — Il soldato, sorridendo, si rigirava per essere osservato da ogni parte. E la madre traendosi indietro, squadrandolo da capo a piedi, e giungendo le palme esclamava affettuosamente: — Come sei bello così! — E si sentiva ringiovanire, la poveretta; e le veniva quasi voglia di mettersegli a saltellare intorno. Gli si accostava, si riallontanava, ritornava a farsegli presso, e se lo divorava cogli occhi; gli posava le mani sulle spalle e gliele faceva scorrer giù lungo le braccia fino a prendergli le mani; gli appressava il volto al petto per guardargli i bottoni; poi, accortasi di avergli appannato coll’alito la croce del cinturino, gliela soffregava colla cocca del grembiale; finalmente, dopo averlo guardato e riguardato un pezzo, gli gettò ancora una volta le braccia al collo chiamandolo amorosamente per nome. Poi si staccò ad un tratto da lui e gli domandò sollecitamente: E la guerra? — Il figliuolo sorrise; essa ripetè: — E la guerra, dimmelo figliuolo, quando la fate la guerra? — Oh, Dio benedetto! Ma chi ha mai parlato di guerra, buona donna che sei? — Dunque non c’è la guerra? — domandò tutta contenta; — non la farete mai più, non è vero? — Mai più? Mai più non si può dire, mia cara.... — Ah! dunque la fate! Dimmi la verità, figliuolo. — Oh buona donna, e che cosa vuoi che se ne sappia, noi soldati? — Ma se non lo sapete voi altri che la fate, — rispose con un accento di convinzione profonda la madre — se non lo sapete voi altri, poveri ragazzi, e chi l’ha da sapere? —

E dette queste parole, rimase immobile ad aspettare la risposta in un atteggiamento di volto e di persona così caramente curioso, con un sorriso così affettuosamente piacevole sulla bocca, e con un certo lume ineffabile negli occhi, che suo figlio, sorridendo anch’esso, rimase quasi estatico a mirarla, e gli piacque tanto in quel momento, si sentì nel cuore un nuovo e così veemente impulso verso di lei, che le fu sopra d’un salto, le strinse la testa fra le mani, gliela baciò, gliela scosse scherzevolmente come si fa ai bambini, e, posatale un’altra volta la bocca sulla fronte, mormorò sorridendo: — Povera la mia vecchierella! —

Ed io, sempre là fermo, colle spalle appoggiate al muro e le braccia incrociate sul petto, pensava:

— Ecco, quello là è un uomo che adora sua madre! Non può non essere un buon soldato, rispettoso, docile, pieno di amor proprio, e di coraggio. Sì, anche di coraggio, perchè le anime che sentono profondamente e fortemente l’amore non possono essere anime codarde. Quel soldato là, condotto sul campo, si farà ammazzare senza paura e morirà col nome di sua madre sul labbro. Insegnategli che cosa è patria, fategli capire che la patria son centomila madri e centomila famiglie come la sua, ed egli amerà la patria con entusiasmo. Ma bisogna cominciar dalla madre. Oh! se di tutti gli affetti gentili e di tutte le azioni oneste e generose di cui andiamo superbi si potesse scoprire il primo e vero germe, noi lo scopriremmo quasi sempre nel cuore di nostra madre. Quante medaglie al valor militare dovrebbero splendere sul petto, invece che ai figli, alle madri, e quante corone d’alloro invece che su una testa giovane e chiomata si dovrebbero posare sopra una vecchia testa calva! Ah madri, voi non dovreste mai morire! O dovreste almeno star al fianco de’ vostri figliuoli e accompagnarli fino al termine del cammino della vita. Davanti a voi, anche vecchi, noi saremmo sempre fanciulli, e v’ameremmo sempre dello stesso amore. Voi, invece, ci lasciate soli.... Oh no, no! non soli; la vostra soave memoria ci resta, la vostra diletta immagine sempre viva dinanzi agli occhi, i vostri amorosi consigli sempre presenti allo spirito. E questo ci basta. Ogni volta che ci assalga l’anima un tedio sconsolato della vita e qualche duro disinganno ci faccia nascere nel cuore un sentimento d’odio o di avversione per gli uomini fra questi uomini e noi sorgeranno le vostre immagini sante, benigne, pacificatrici; ne parrà di sentirci chiamare per nome da quella vostra cara voce con cui ci ammonivate quando eravamo bambini, e piegheremo irresistibilmente i ginocchi e giungeremo le palme dinanzi alle vostre immagini, e vi chiederemo perdono! —

In quel punto capitò in quartiere brontolando il capitano d’ispezione. — Dov’è l’ufficiale di picchetto? — domandò a qualcuno fuori della porta. Intesi, mi scossi, uscii, me gli piantai davanti ritto, impalato, colla mano alla visiera: — Presente! —

Egli mi guardò fiso e fece una certa faccia come per domandarmi: — Che diavolo ha? —

Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.