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LA SENTINELLA.
Era una delle ultime notti di gennaio; nevicava; le vie della città, le piazze, i davanzali e i terrazzini delle case, gli alberi dei giardini, tutto era bianco, sepolto, sopraccarico di neve; i fiocchi venivan giù lenti, grossi, fitti, e sullo strato nevoso lungo i muri non appena s’imprimeva un’orma, che ne spariva ogni traccia. I lampioni agli angoli delle strade mandavano intorno un chiarore velato e tristo; sui crocicchi, per quanto si guardasse avanti e indietro, a destra e a sinistra, non si vedeva nessuno; in ogni parte un silenzio cupo; si sarebbe sentito, per mo’ di dire, cader la neve.
Era una di quelle notti, in cui chi si trovi, per mala ventura, fuor di casa, s’affretta a ritornarvi; rasenta le case a passetti rapidi, muti, come un fantasima furtivo; l’occhio a terra per iscansare le pozzanghere, la tesa del cappello calata sulle orecchie e sul naso, il collo rientrato nelle spalle, il bavero del vestito rialzato sulla nuca, l’una mano ficcata nella manica dell’altra, tutto inarcato, tutto rimpicciolito; si getta a capo basso nel portone di casa, ascende le scale pestando forte i piedi fradici e scotendo i panni nevosi, caccia in furia la chiave nella toppa, entra, via il vestito, giù il cappello, in che stato! spinge la prima seggiola davanti al camino, vi si lascia cader su, un piede di qua e un piede di là, e abbassa il volto sul fuoco, e se ne sta lì, e se lo cova, se lo stuzzica, se lo gode, succhiando lentamente un sigaro e geroglificando le ceneri colle molle e brontolando di tratto in tratto: — Che tempo! — Una di quelle notti in cui anche il marito disamorato e tediato avvicina un po’ più del solito la seggiola a quella di sua moglie; e lo scapolo fantastica le gioie intime e tranquille d’una famigliuola, e, rinunciando alle baraonde consuete, si ficca per tempo sotto le coltri, si contorce un pochino per iscavarsi la fossetta calda, mette fuori tanto di mano quanto n’occorre per tenere il romanzo e, scorse due o tre pagine, s’addormenta placidamente aguzzandosi il gusto del caldo e del riposo coll’immagine dei poveri assiderati che non hanno letto nè casa. Una di quelle notti in cui la vita d’una città si ristringe tutta intorno ai focolari domestici, dove i consueti colloqui tra le famiglie e gli amici più stretti si producono oltre l’ora consueta, finchè i fanciulli presi dal sonno tiran di soppiatto la gonnella alla mamma per farle rammentare il letticciuolo che aspetta, e vanno poi a dormire pregodendo nel pensiero la gran battaglia a palle di neve che combatteranno il domani. Una di quelle notti in cui i desiderii più vivi son tre, come dicono gli scapati; un caro viso, un bel libro e un buon bicchiere.
Tutti, anche i più poveri, trovano, in codeste notti, la carità d’un po’ di tetto, d’un po’ di fuoco e d’un po’ di strame; tutti trovano uno schermo dalla neve, almeno fino al primo rischiararsi del cielo, almeno per l’ore in cui la vien giù così fitta che par che voglia seppellire le case; tutti riposano, tutti dormono, tutti, — tranne la sentinella, — per cui non v’ha nè tetto, nè fuoco, nè riposo; ma solamente un solitario casotto di legno, un pesante mantello di pannaccio, e la consegna del caporale.
Guardate laggiù, in fondo a quella piazza tutta bianca di neve, e rischiarata intorno intorno da quattro lunghe file di lampioni, laggiù accanto alla gran porta di quel palazzo principesco, alto, bruno, dalle forme colossali ed antiche, da tutte quell’ampie finestre illuminate; guardate là in quel casotto, quell’uomo imbacuccato, ritto, immobile come un simulacro di marmo; guardatelo. Egli da più ore è là, senza moto, senza parola, colla destra intirizzita sulla fredda canna del fucile, e i piedi nella neve, e l’occhio chinato e fisso, che par che noveri i larghi fiocchi che gli piovono intorno. Di tratto in tratto gli occhi gli si socchiudono, la testa gli s’inclina insensibilmente sull’omero; ma tosto un’interna voce lo ammonisce, ed egli risolleva vigorosamente la fronte ed apre e dilata gli occhi e li gira intorno più rapidi e più vigilanti, come per compensare la sua coscienza di quel momento di languore e d’inerzia. Guardatelo; tutti, anche i più poverelli, hanno un po’ di casa, un po’ di fuoco, un po’ di letto, tutti; egli non l’ha.
Questi pensieri io volgeva in mente una notte, sul cader di gennaio, essendo di guardia, con una quarantina di soldati, appunto in quella piazza e a quel palazzo. E me ne stava, così pensando, poco lunge dalla porta, misurando a passi lenti un breve tratto della piazza sgombro di neve, e volgendo a quando a quando gli occhi in su, alle finestre illuminate, per cui mi giungeva fioca all’orecchio un’armonia confusa di flauti e di violini, e un rumor sordo e pesante di passi mutati in cadenza sopra un vasto solaio. Poi guardava nell’ampio vestibolo gli smaglianti lampadari di cristallo, e i tappeti e i vasi di fiori sparsi sul pavimento marmoreo, e le pareti coperte d’arazzi e di allori; e sul dinanzi, fra me e la porta, un viavai di carrozze di gala, un vociar di cocchieri, e uno scendere e salire continuo d’uomini e di signore, e un accorrere in fretta agli sportelli, un aprir reverente, un porger rispettoso di mani, uno strascicar lungo di vesti, uno scoprirsi di teste azzimate, un incurvarsi di schiene, un giungere e uno scappar incrociato di servitori dalle assise sfoggiate e bizzarre. Ecco, s’avanza una carrozza stemmata; si ferma; i cocchieri precipitano a terra; tutti si fanno intorno; dieci mani si gettano a gara sulla maniglia dello sportello; una mano fortunata lo afferra; lo sportello si schiude; la folla degli accorsi si apre in due ali, a destra e a sinistra; i colli si allungano, gli sguardi si tendono; spunta una testa, un piedino, una manina vestita d’un guanto candido; un’altra mano si stende di mezzo alla folla e la stringe timidamente per la punta delle dita; — giù il piedino, — adagio, — con riguardo, — ancora un po’, — un pochino ancora, il piedino è a terra. Oh bellino! Guai se toccava un fiocco di neve! Ma è rimasta dentro la coda della veste. Oh sventura! Si sarà attaccata ad un chiodo, chi sa! Presto, accorrete, in due, in tre, in quattro: — dove s’è attaccata? — qui — no — là — piano — con garbo — delicatamente — cerca, cerca — ah! ecco. La coda è libera, lo strascico è giù, ella è in piedi. La stupenda figura! Largo, indietro, miratela. Un cappuccio indiscreto non consente all’occhio che pochi tratti di quel caro viso; è un viso d’angelo! Una zimarra gelosa ruba agli avidi sguardi i bei fianchi e le candide spalle; ma ne lascia indovinare, sotto le pieghe, le forme: elle son divine! La bella figura incede mollemente, — svolta, — mette il piè sulla scala, — ancora un lembo di veste, — è sparita. Peccato! Ma l’occhio della mente la segue in mezzo alla folla inebriata di quelle sale rumorose; fra tutte le altre belle teste ornate di gemme e di camelie l’occhio della mente distingue le sue trecce e i suoi fiori, e le tien dietro nei rapidi voli della danza, e in mezzo a quella cara battaglia di sguardi accesi che si provocano, si cercano, si sfuggono amabilmente astuti, s’incontrano amabilmente audaci, e tra ’l fascino dei molli abbandoni e la voluttà delle strette segrete, languiscono, lampeggiano, pregano, ricusano, promettono, puniscono, concedono e rapiscono in cielo.
— Ed egli è là, io pensava, povero soldato! Egli è là, esposto al freddo, alla neve, solo, muto, negletto, senza conforti, senza speranze; lassù si suona, si danza, si ride, si folleggia, si gode la vita nelle sue ebbrezze più ardenti e più care, ed egli, da quella solitudine, da quella oscurità, da quel silenzio, è costretto a subire il tripudio che gli ferve sul capo, e a paragonarlo col suo tristo abbandono, alla malinconia stanca del suo povero cuore. Bisogna ch’ei subisca l’immagine di quelle danze, di quei cari volti, di quelle belle persone, di quegli sguardi, di quei sorrisi, egli che è solo, lontano dai suoi, che non ha un viso di donna che gli sorrida, che non ha una manina amica da stringere; ma che forse, a maggior dolore, avrà sempre fitta nella memoria una treccia nera e due occhi modesti che una volta gli facevano tremar l’anima di dolcezza! Ah in mezzo a quelle teste ingemmate e infiorate egli la sogna, egli la vede quella cara treccia senza gemme e senza camelie! — Caporale.
— Presente.
— Chi è il soldato in sentinella?
— Il tale.
— Andate — Il cuore me lo diceva: è un coscritto. Povero coscritto! Son pochi giorni ch’è al reggimento, è ancora stordito da questa nuova vita; la sua testa e il suo cuore sono ancora a casa colla madre e fra le quiete abitudini della vita di prima; il pensiero del ritorno non gli passa nemmeno pel capo, o, se gli passa, gli è un pensiero d’una felicità tanto lontana! Nel reggimento non ha ancora amici, non ha ancora conforti; subisce ancora i motteggi dei vecchi soldati, e le prime durezze, che son le più dolorose, della disciplina; non una voce amica, non una parola affettuosa, non un sorriso, nulla; sempre vociacce burbere, minacce, brutti visi. Dopo un’altr’ora ch’ei starà là, verrà qui, stanco, fradicio, pien di freddo, pien di sonno, e non avrà che un nudo tavolaccio su cui riposare, e dormirà un sonno interrotto e penoso, e sarà destato da una squassata alle gambe o da una manata di neve nel viso; non un po’ di quiete, non un po’ di fuoco per asciugarsi i panni, non una goccia di vino; nemmeno un po’ di tabacco, forse...; nulla, nulla. Egli soffre, in questo momento, lo giurerei. Quella musica e quella festa gli fanno male. Voglio accertarmene. Voglio andarlo a vedere... Ma no... Oh che no! Sì, invece, sì; lo voglio andare a vedere; e ci vado; sicuro che ci vado; perchè non ci dovrei andare? Oh stiamo a vedere! Voglio andarci. —
E mi mossi. Passai dinanzi al casotto; guardai dentro, era scuro; non potei vederlo nel viso. Tornai indietro, sostai un momento, e pensai: — Quando si è agitati da un affetto vivo, gioia o dolore ch’ei sia, il suono della prima parola che si profferisce dopo un lungo silenzio è impossibile che, lì su quel subito, non si risenta di quell’affetto e non lo riveli. Proviamo. — Mi avvicinai al casotto e mi ci fermai dinanzi. La sentinella mi avvertì, si scosse e s’avanzò fin sul limitare. Io non la vedeva nel viso; ella non vedeva me. Le domandai con un accento affettatamente sbadato: — Hai freddo? —
Esitò un momento e poi: — Nossignore. —
Bastò: in quella voce io aveva avvertito un lievissimo tremito; in quella voce v’era un suono di pianto; non v’era dubbio; io non m’era apposto male; avevo indovinato il suo cuore.
— Non hai proprio freddo, punto punto?
— Eh no — un poco — si sa.... non mica tanto però.... così....
Poveretto, e gelava! Temeva di fare un atto d’indisciplina quel buon ragazzo a dirmi che gelava! Come se la neve l’avesse fatta venir giù lui o glie l’avessi fatta venir giù io, proprio sui piedi, che li doveva aver conci Dio sa come! Mi piacque tanto quella sua risposta, — povero giovane. E non mi si venga a chiacchierar di separazione tra uffiziale e soldato, in quei momenti lì; il cuore non è mica gallonato come il berretto: Dio buono! Come si fa a resistere? Come si fa a star duri? A meno d’esser di sasso, sfido io. Però non volendo aver l’aria di esser andato là a far il consolatore pietoso, e neanco lasciarlo prima d’avergli rifatto un po’ l’animo con quattro parole da amico, girai largo e gli chiesi:
— Quanto tempo ti tocca ancora di restar qui?
— Non so mica, signor tenente.... l’orologio qui vicino non si sente.... per causa della musica.
— Già; — ecco (ruppi il ghiaccio), sicuro che — a star qui — fermi — a quest’ora, con questo tempo, non è mica un piacere; si sa. Ma — Dio buono — il nostro mestiere.... è tutto così: bisogna pigliarlo com’è. Eh, caro mio, questo è niente. Se si farà la guerra, allora sì che ne vedrai delle brutte. È un altro par di maniche, sai; te ne convincerai per prova. Quando s’è agli avamposti, per esempio, in un bosco buio buio, sotto una di quelle pioggierelle fine fine che passano panni e pelle e mettono dei malanni addosso, e si è soli, isolati, e non si vede un palmo più in là del naso, eppur bisogna star là, fermi, dritti come fusi, con l’occhio vigile, colle orecchie all’erta, che c’è il nemico davanti e da un momento all’altro può capitarci addosso; e dopo tutta una notte che s’è stati là, si ritorna al campo del reggimento, e non ci si trova da levarsi la lame, e non c’è posto per dormire, o bisogna sdraiarsi sul fango o sui sassi o sull’erba bagnata; eh allora sì che la è una dura vita! Adesso è niente. Eppure anche quella vita tutta fatiche, tutta stenti, tutta pericoli, i bravi soldati la fanno di buon animo, e non si lamentano mai, e quando possono dormire, bene; quando non possono, pazienza; quando c’è il pane, viva il pane; quando non ce n’è, si digiuna, e alla buon’ora, e non ci si fa del cattivo sangue per questo. E sai perchè? Perchè si vive fra amici, fra bravi camerata, e si sa di fare il proprio dovere, si sa di fare i soldati per difendere il paese dove s’è nati e cresciuti, dove s’ha la famiglia, la casa, gli amici e.... l’amorosa, tutto ciò che abbiamo di più caro e di più sacro a questo mondo; capisci? E la coscienza di fare il proprio dovere basta, vedi, ai bravi soldati; oh se basta! Guarda un po’ quanti soldati han tratto fuor dal fiume, — laggiù dalla parte dove si fanno i bagni d’estate, — dei poveri disgraziati che stavan per annegare! Ebbene, quei soldati che si son messi al rischio di morire per salvar la vita a gente che non conoscevano nemmeno, che cosa hanno avuto in premio? Nulla; cioè molto: la gratitudine dei salvati, e la coscienza della loro bella azione, e questo è tutto per un galantuomo. E i soldati che dan la caccia ai briganti? Ogni giorno ce ne muor uno; chi lo sa ch’ei sia morto? chi lo ricorda il suo nome, fuor della gente di casa sua? Eppure i soldati ci stan volentieri su quelle montagne, in quei boschi, in quei burroni, a menar la maledetta vita che menano; e perchè? Perchè sanno di fare il loro dovere. E i carabinieri, poveri soldati anch’essi, che giran due a due per la campagna, di notte, in mezzo ai malandrini appostati nei fossi, che tirano le schioppettate a tradimento, non fanno anch’essi una gran dura vita i carabinieri? Eppure, vedi come fanno di cuore il loro dovere! Così le sentinelle; la stessa cosa. Di notte, in queste notti qua, chi le vede le sentinelle avviluppate ne’ loro mantelli, rannicchiate in fondo ai loro casotti, immobili, silenziose; chi le vede, chi le sente, chi sa ch’elle vi siano, chi pensa a loro, chi se ne cura? Eppure la sentinella deve star là ferma al suo posto, di buon grado, senza malinconie, senza triste fantasticaggini pel capo, e pensare: — Tutti dormono, io solo veglio; ma veglio sul sonno di tutti; se non vi fossero sentinelle, nessuno dormirebbe dalla paura. Il mio piccolo casotto protegge i più vasti palagi; dappertutto ove si canta e si suona e si fa del baccano, lo si fa senza pensieri e senza sospetti perchè io taccio e vigilo e tendo l’orecchio per tutti; il mio rozzo mantello protegge le vesti di seta e di velluto delle signore che vanno ai balli; quest’ombra protegge quella luce; il mio silenzio, quei suoni. Dal sentimento di queste grandi verità, a cui non si suole pensare, a cui molti non hanno mai pensato, ma che pur si dovrebbero tener sempre vive nella mente e nel cuore, dal sentimento di queste verità deve trar conforto il soldato, e capire che in questo sentimento risiede il più bel premio dei suoi sacrifici e delle sue virtù. Sei persuaso?
— Oh sì, tenente. —
La sua voce aveva tremato; era venuta dal cuore, e aveva trovato un intoppo a mezza gola; me ne accorsi; proseguii:
— E dopo che per cinque anni, per cinque lunghi anni, s’è fatto, tutti i giorni, tutte le ore, tutti i minuti, sacrificio della propria volontà, dei propri desiderii, degli affetti, delle abitudini, dei pensieri, di tutto, insomma, sagrificio di tutto al proprio dovere, alla propria bandiera, a quei tre bei colori che noi dobbiamo aver cari più di noi stessi, più della vita, più di ogni cosa al mondo; quando dopo cinque anni passati così, il paese ti dice: Ora basta, hai fatto il dover tuo, restituiscimi quel fucile con cui m’hai difeso l’onore e la vita, e vattene a casa, chè tua madre t’aspetta, e le tue sorelle ti vogliono, e v’ha un’altra donna che la sera, affacciata alla finestra, guarda lungamente all’estremità lontana della via per cui dovrai ritornare; oh allora, credilo buon ragazzo, il poter ritornare fra le braccia della vecchia mamma colla coscienza di essere stato un bravo soldato, il poter tornare là sotto quel povero tetto colla fronte alta e col callo del fucile alle mani, credilo, è una felicità che non n’ha uguali sulla terra. Lo credi?
— .... Signor tenente!
— E tornati a casa, la sera, quando splende una bella luna, si ricomincia a ballar sull’aia, come una volta, chè quelli sono i balli che ci piacciono di più, non è vero?
Non rispondeva,
— Dico bene sì o no?
— Oh sì! sì! — proruppe quel povero soldato con una voce di cui mi sarebbe impossibile esprimere l’accento, ma che mi suona ancora nell’anima, come l’avessi udita pur ora; — oh sì che dice bene, signor tenente! Sicuro.... sicu....
Sapete perchè s’interruppe? Perchè, intenerito, agitato com’era, mosso unicamente dall’affetto, che so io? dalla gratitudine per le mie fraterne parole, il buon giovane dimenticò per un istante che io era un ufficiale, che egli era un povero coscritto, e aveva steso un braccio verso di me; ma, ravvedutosi, l’aveva subito ritirato, non sì a tempo però che colla mano distesa non mi lambisse leggermente la manica del cappotto.
— Eh!.... io esclamai.
Si vergognò, si confuse, e, mormorando timidamente non so quali parole di scusa, si rintanò in fondo al casotto. Mi parve di sentir ch’ei respirasse con molto affanno. Forse piangeva.
Mi allontanai di là che il cuore mi tremava di tenerezza. Io mi sentiva tanto contento di me! Guardai in su alle finestre illuminate; tornai a sentire la musica a cui da un pezzo non avea più badato; mi internai colla mente in quella sala.... Poh, erano tutte immagini sbiadite.
Povera gioia codesta, io pensai, in confronto della mia.