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Giace quest’isola, una delle Sporadi, non lungi dalle coste dell’Asia minore e poco distante, da Smirne. Faceva parte dell’impero bizantino, quando sul 1170 i Veneziani se ne impadronirono ma per tenerla poco tempo, che dopo avervi passato un inverno colla loro flotta, per causa della peste che ne decimava le ciurme1, dovettero presto abbandonarla, e così subito venne ricuperata dai Greci; ad essi ancora apparteneva quando Michele VIII Paleologo, affine di compensare i Genovesi dei soccorsi accordatigli per ricuperare Costantinopoli, col trattato di Ninfeo2, nel 1261 loro concesse di possedere in varie delle principali città dell’impero, e fra queste in Scio, loggia, palazzo, chiesa, bagno, forno, giardino e case pei mercanti, e di avervi consoli, tribunali e la giurisdizione mera e mista nelle cause civili e criminali sopra tutti i loro concittadini.
Ecco donde gli scrittori liguri derivano l’origine dei diritti della loro patria sopra quest’isola, quando solamente privilegi l’imperatore bizantino in essa aveva a Genova concessi, ed in momento di grande bisogno, con intendimento di spogliarnela subitochè propizia se gli offrisse l’occasione; ed infatti questa non dovette tardare a presentarsi, poichè tra i numerosi documenti che tuttora conosconsi relativi all’amministrazione di questa repubblica nei tempi di mezzo, nessuno si trova che faccia più menzione delle cose de’ suoi cittadini in Scio dal sopraddetto anno sino al finir del secolo; anzi crederemmo che questo spogliamento fatto per parte dei Greci possa essere stato una delle cause per le quali l’ammiraglio genovese Benedetto Zaccaria, signore di Focea vecchia sul litorale della Natolia3, trovandosi nel 1301 in quelle acque con un numeroso naviglio, sbarcata improvvisamente nell’isola una buona mano di soldati, riuscì ad impadronirsene senzachè dagli storici che ciò narrano appaia che ancora vi esistessero case di commercianti o magistrati della sua nazione.
Ora dovendo parlare dei fatti di questo Zaccaria e de’ suoi discendenti, che ebbero signoria non solamente in Scio ma anche in altre parti dell’impero greco, crediamo utile di dire due parole sulla loro origine.
Secondo il Ganducci4 venne questa famiglia nel secolo XII da Gavi, terra nell’Appennino ligure, a stabilirsi in Genova, dove aveva già nel 1182 nel quartiere detto de castello casa con portico, ed il primo di essi del quale abbiasi notizia è un Zaccaria, padre che fu di altro Zaccaria detto, a distinzione di quello; de castro o de castello dal quartiere della città nel quale abitava, e questi doveva già possedere un magnifico asse, vedendo in carta del 1252 che per emancipare il suo quintogenito Giovanni gli aveva dato terre pel valore di cinque mila lire genovesi, le quali, visto che un fiorino d’oro di Firenze correva nel 1276 in Genova per soli soldi quatordici, che l’emina di grano vi costava da otto soldi, e circa dieci la mezzaruola di vino5, facilmente si comprende qual egregia somma per quei tempi esse costituivano.
Ora di questi cinque figli, nell’albero genealogico che crediamo bene d’inserire affine di poter conoscere qual grado di parentela esistesse tra quei Zaccaria dei quali abbiamo a trattare, riporteremo soltanto quelli che ebbero signoria in Scio, o che da essi discesero.
Nota. — Ad eccezione dei figli di Martino, gli altri nomi colle date annessevi sono ricavati esattamente dalle Pandette Richeriane già citate.
Come sopra si è detto Benedetto I ebbe Scio nel 1301 colla forza, e non già, secondo alcuno storico scrisse, mediante il suo matrimonio con una figlia di Michele Paleologo6; che se esso veramente ebbe luogo, ciò fu molti anni prima, poichè i due soli figli che di esso si conoscono, cioè Paleologo e Manuele V erano già li 12 marzo 13007 in tale età da poter acquistare essi una casa in Genova a nome del padre, e ciò un anno avanti questa spedizione, a meno che egli l’abbia sposata in seconde nozze, ed allora ciò sarebbe dovuto avvenire dopo la convenzione fatta col suo successore Andronico II, il quale, quando lo Zaccaria si impadronì dell’isola, era in guerra coi Persiani, e vista la somma difficoltà di poterla in allora ricuperare, con esso trattò e convenne che gliene avrebbe lasciato l’intero possesso per dieci anni, ma col patto che dovesse continuarsi a considerare come parte integrante dell’impero, adottando egli perciò il titolo di vicario imperiale e facendo scolpire sulle mura della città lo stemma dei Paleologi; scorso poi tal tempo dovesse essa ritornare all’antico suo signore8.
Il Calcondila invece scrisse9 che l’imperatore trovandosi abbisognare di danaro, ebbe grosse somme da questo patrizio genovese, che perciò gli diede la prefettura dell’isola, ma per far concordare questi autori crederemmo che ciò avvenisse così, che cioè Benedetto per calmare Andronico irritato vedendosi da’ uno straniero tolta un’isola, la quale doveva assai produrre al suo erario pel mastice estratto dal pistacio lentisco e che in grandissima quantità esportavasi, gli abbia offerto una vistosa somma di danaro, che per la povertà del tesoro vuoto per le continue guerre coi barbari gli dovette tornar graditissima, e sia questo stato il mezzo per ottenere la suddetta convenzione.
Lo Zaccaria frattanto per prepararsi a qualunque improvviso attacco, che era prudenza temere per parte dei Greci, subito diede mano a ristaurare e maggiormente alzare le mura della città, onde dopo trascorso il convenuto decennio vedendo l’imperatore come le difficoltà per impadronirsi di Scio erano di molto cresciute, mosso dalle preghiere secondo gli storici bizantini, ma con maggior probabilità dai doni degli ambasciatori che il genovese avevagli mandato, gliene prolungò il possesso per altri cinque anni, e indi per un nuovo quinquennio ancora. Secondo il Cantacuzeno 10 prima che quest’ultimo periodo scadesse, mancato ai vivi Benedetto, i suoi figliuoli Martino e Benedetto II, senza aspettarne il termine, ne domandarono il proseguimento per altri cinque anni, ma Andronico, chiamati i fratelli a Costantinopoli, li invitò a rinunziare al possesso dell’isola, oppure a tenerla con ben altri patti.
Invece di aderire all’invito imperiale Martino si preparò alla difesa, ma Benedetto, il quale era con lui in lite per seimila bisanti d’oro che pretendeva essergli dovuti sull’eredità paterna, recossi dall’imperatore implorando giustizia contro il fratello. Questa con tutta facilità gli venne da Andronico promessa, purché in tutto al suo volere si sottomettesse, al che avendo egli accondisceso, presto se ne videro le tristi conseguenze, poiché essendosi presentata avanti Scio la flotta greca forte di 105 vele, Benedetto, che trovavasi alla custodia del castello, subito lo consegnò al nemico; onde Martino, vista la impossibilità di potersi difendere pel tradimento del fratello, offerse di trattare; ma ciò essendogli stato negato, uscito dalla città si arrese coi suoi agli imperiali, che lo ritennero prigione, lasciando andare libera con quanto di prezioso potè seco portare la moglie coi figli e le serve; e ciò avvenne nell’anno 1329.
L’imperatore offerse poi a Benedetto la prefettura dell’isola colla metà delle sue entrate, le quali ammontavano a circa cento ventimila bisanti d’oro, ma non volendo egli accettare tale proposta poichè pretendeva di continuare a possederla coi patti del padre, indispettito si ritirò a Galata, dove ad altro non pensando che a vendicarsi dell’ingiuria che credeva essergli stata fatta dal Paleologo, raccoltevi otto galee genovesi, con esse fece vela verso Scio, e sbarcate le ciurme attaccò la città, ma vigorosamente dai Greci respinto, lasciativi molti morti dei suoi, da quel lido fu costretto allontanarsi; per il che sentì tanto dolore che dopo sette giorni colto da colpo apopletico morì.
Ora nel narrare questi avvenimenti troviamo che lo storico greco confuse le persone, poichè dice la convenzione fatta con Benedetto I essere con esso stata prolungata due volte ed essere scaduta nel 1329, ma invece da sicuri documenti ci consta che successore in quella signoria gli fu il suo primogenito Paleologo, il quale fu padre di Martino e Benedetto II11; e Benedetto I non era più in vita nel 1311, vedendo in atto rogato in Genova li 13 gennaio detto anno, che Paleologo si scrive figliuolo quondam D. Benedicti Zachariae12.
Non trovandosi indi più menzione di esso in alcuna carta fatta in quella città, dobbiamo conchiudere che subito siasi recato in Scio, lasciando in patria i figli Martino e Benedetto II sopranominati, che in atto ivi fatto li 27 marzo 131313 sono detti figliuoli del vivente Paleologo14. Deve però questi esser mancato ai vivi nello stesso anno o nel susseguente, non trovando più i fratelli menzionati in Genova, e constando che Martino era già signore di quest’isola nel 1315, essendochè con diploma delli 21 maggio di quest’anno15 Filippo di Taranto, erede di Baldoino ultimo imperatore latino di Costantinopoli, e che continuava a pretendere alla sovranità di quell’impero, unitamente alla moglie Catterina, investendolo del regno dell’Asia minore, e della signoria di Onussa, Marmora, Tenedo, Lesbo, Scio, Samo, Nicaria e Cos, mediante l’obbligo d’aiutarlo con 500 soldati per riacquistare il trono di Bisanzio, lo chiama Martinum Zachariam de Castro dominum insulae Chii, prova che già era succeduto al padre e solo trovavasi nel dominio dell’isola.
Ritornando ora a parlare delle convenzioni fatte dal greco imperatore coi Zaccaria, e che abbiamo vedute si confuse dal Cantacuzeno, per convenire che l’ultima, ossia la terza, sia scaduta, come infatti lo fu, col 1329, dobbiamo dire che la prima per dieci anni con Benedetto I dovette passarsi tra il 1309 e il 1310 e durare incirca sino al 1319: che si segnò la seconda con Martino e Benedetto II in quest’anno, per cominciare la terza col 1324 e scadere col 1329, anno nel quale abbiamo veduto che vennero essi spogliati di Scio.
Intanto Martino continuava a gemere nelle prigioni di Costantinopoli, ove rimase sino al 1338, quando fu rimesso in libertà sulle istanze del papa e del re di Francia. Dopo alcuni anni essendosi unito ai crociati che erano andati per conquistare Smirne sugli infedeli, perdé la vita in un fatto d’arme contro i Saraceni avvenuto nel 1345.
Eragli già premorto il primogenito Bartolomeo, onde nei beni allodiali gli successe l’altro figliuolo chiamato Centurione, il quale andato alla corte di Maria di Borbone, principessa d’Acaia, talmente seppe insinuarsi nelle sue grazie, che oltre all’aver avuto in dono molti feudi, in breve divenne uno dei più importanti personaggi della sua corte. Morta essa, per trovarsi affatto inetto il suo successore, assumendo Centurione il titolo di principe poco per volta si rese assoluto padrone dell’Acaia che trasmise al suo figliuolo Azane, il quale lasciò lo stato a Centurione II e diede sua figlia Catterina in moglie a Tommaso Paleologo despota della Morea. Questi dopo morto lo suocero, impadronitosi per tradimento nel 1432 della persona del cognato e del suo stato in un coi figli, lo mise barbaramente a morte, e tale fu il fine dei Zaccaria in Grecia, e non come da taluno fu detto che perdessero l’Acaia quando fu nel 1458 occupata dalle armi di Maometto II.
Scio frattanto sotto il dominio dei Paleologi venne retta, in qualità di vicario imperiale, da Leone Caloteto, in compenso d’essere stato il principal motore a Costantinopoli per indurre quel sovrano a riprendere l’isola ai Zaccaria, e, caduto lui in disgrazia, ne fu dato il governo ad uno dei principali suoi abitanti detto dagli scrittori greci Caloianni Chibos, e dai liguri Gioanni Cibo16, sotto il quale, come ora vedremo, venne nuovamente l’isola in mano dei Genovesi.
Avvicinavasi la metà del decimo quarto secolo, quando dalle fazioni, dalle quali era da vari anni la città miseramente travagliata, fu cacciata da Genova la maggior parte dell’aristocrazia, che ritiratasi nelle riviere continuamente venne la propria patria colle scorrerie per terra e per mare molestando. Principali ne erano i Grimaldi che, andati a Monaco loro terra, cogli amici attesero nel 1345 a radunarvi un esercito di 10,000 uomini e ad armare 30 galee17; della qual cosa avutosi sentore dal doge Gioanni de Murta, subito pensò alla difesa della città, per il che incaricò alcuni popolani affinchè vi provvedessero. Siccome l’erario pubblico era esausto, questi deliberarono d’invitare quaranta quattro cittadini a mettere assieme a proprie spese una flotta, con promessa che dal comune sarebbe loro stato rimborsato l’esposto e compensati i danni, ipotecando per questo un’entrata di 20,000 lire sopra diverse gabelle, e concedendo anticipatamente le conquiste a farsi sino a che fossero gli armatori intieramente soddisfatti.
Sopra questi quarantaquattro soli ventinove18 concorsero ad armare caduno una galera, delle quali fu dato il comando al popolano Simone Vignoso19, che ricevette dal doge la bandiera di San Giorgio, cioè colla croce rossa in campo bianco, così chiamata perché era quella che mettevasi in mano al santo rappresentandolo a cavallo ed armato di tutto punto nell’atto di uccidere il drago, e che divenne lo stemma del comune.
L’ammiraglio recatosi colla sua squadra avanti a Monaco, talmente spaventò i fuorusciti non ancora preparati a sostenere l’attacco, che fuggirono a Marsiglia, onde esso ritornato a Genova ed avviatosi verso Napoli dando il guasto per istrada a Terracina e Traetto in odio del conte di Fondi, continuò il suo cammino per il Levante affine di proteggere quelle colonie contro i Munsulmani.
Giunto a Negroponte vi trovò 26 galere dei Veneziani e dei cavalieri gerosolomitani comandate da Umberto II delfino di Vienna, che gli offerse una grossa somma di danaro affinchè lo aiutasse ad impadronirsi di Scio; ma esso, vedendo quanto utile sarebbe venuto ai suoi dal possesso di quest’isola, rifiutata l’offerta, immantinente salpò verso di essa, dove giunse li 15 giugno del 1346.
Cinta subito d’assedio la città, dopo tre mesi l’ebbe a patti20, indi convenne per la cessione del castello col già citato Gioanni Cibo mediante 7,000 iperperi, vari privilegi e la cittadinanza di Genova, e così rimasto padrone di tutta l’isola, ne prese possesso a nome della sua patria inalberando sulla torre principale la bandiera della croce.
Sbarcato alcuni giorni dopo il Vignoso sulle coste dell’Asia minore, vi occupò Focea nuova indi si impadronì di Focea vecchia, cioè dell’antica21, già possedute dai suoi compatrioti e ricche per le miniere d’allume esistenti nelle loro montagne. Un fatto curioso è a notarsi nella convenzione che fece con questi abitanti li 20 settembre, ed è la clausola che vi vollero inserta, cioè che nessuno dei Zaccaria, dei Cattanei (che vi avevano signoreggiato) o dei loro parenti giammai potesse in esse abitare, posseder case o distretti, avervi impiego o giurisdizione, e percepirvi somma alcuna, il che proverebbe essere stato ben duro il loro governo.
Aggiunti indi a questi acquisti le piccole isole di Samo, Nicaria, Demussa e Santa Panagia, e lasciato un numero sufficiente di soldati alla loro custodia, con vari dei proprietarii delle galere, che avevano anche la procura di quelli rimasti in Scio, partì l’ammiraglio per Genova, dove giunto trovò che il comune era nell’impossibilità di soddisfare le spese da essi fatte, che pretendevano ascendere ad oltre duecentotre mila lire, onde i rappresentanti dei ventinove armatori convennero col doge li 26 febbraio 134722 che la suprema giurisdizione ed il mero e misto impero sopra queste conquiste restasse alla repubblica, che vi avrebbe nominato i podestà ed i castellani, ma che il possesso utile, cioè il ricavo delle imposte dirette ed indirette ed il commercio del mastice e dell’allume ad essi dovesse appartenere, e per tale amministrazione, costituitisi in società sotto la denominazione di Maona23, nominarono dodici massari scelti fra’ venti socii.
Stabilito il modo di elezione dei podestà di Scio e delle due Focee da farsi sopra una rosa di quattro cittadini da presentarsi dai maonesi, e sopra una rosa di sei pei castellani, se ne stabilirono i trattamenti; indi dichiarò il doge che posset dictus potestas (Scii) nomine comunis Januae cudi et cudi facere in insula Syi monetam argenti de liga et pondere de qua melius videbitur ipsi potestati, in qua moneta sint literae monetae ianuensis, et figurae ut deliberabitur per potestatem Syi et suum consilium, vel figura domini ducis Januensium et quae literae dicant Dux Januensium et Cunradus Rex. Ex cujus monetae fabricatione si fuerit utilitas convertatur in utilitatem et profichuum dictorum participum. Item quod ducetur de Janua unus bonus sazator.
Fu inoltre convenuto che della somma dovuta agli armatori, cioè delle L. 203,000 genovesi, in ragione di L. 7,000 per ciascuna galera, si formasse un numero d’azioni simili nella forma ai luoghi delle compere di Genova, le quali, almeno per la sesta parte ed oltre se volesse, fosse in potestà al comune di acquistare fra lo spazio di venti anni, e che qualora in detto tempo la totale somma venisse pagata ai compartecipanti, il possesso di Scio ed annessi resterebbe allo stato. Tale fu il principio della più antica associazione mercantile di privati che possedesse uno stato per proprio acquisto, e che quantunque non avesse tanti diritti e privilegi come quelle che sorsero nei secoli XVII e XVIII in Olanda, in Inghilterra ed altrove, tuttavia stante la sua buona costituzione ed amministrazione arrichiendo i suoi compartecipanti, potè durare assai più di quelle che le vennero dopo.
A capo dell’amministrazione fu nominato lo stesso Vignoso, che subito attese ad ordinarla; ma frattanto l’imperatore Giovanni Cantacuzeno, il quale trovavasi libero da alcuni potenti nemici, per il che sino allora gli era stato impossibile di attendere alle cose che succedevano in quest’isola, mandò nel 1348 ambasciatori a Genova24 chiamando che, stante l’alleanza esistente tra lui ed il comune gli venisse essa restituita. Al che il doge rispose esser giusta la sua istanza, ma che siccome Scio era stata occupata, senza il suo parere e consenso, da alcuni privati, i quali per questo avevano allestito a proprie spese una flotta, per indurli alla restituzione sarebbero stati necessarii grandi armamenti che il comune era allora nell’impossibilità di fare, aspettasse che col tempo, mediante molti maneggi, sarebbesi ottenuto che a lui nuovamente tornasse. Quindi inviò oratori a Costantinopoli, i quali convennero che tutte queste possessioni potessero per dieci anni godersi dai maonesi, purché versassero annualmente 25,000 bisanti bianchi al tesoro imperiale, e che per segno di dipendenza s’innalzasse sul castello la bandiera greca.
A questo il Vignoso formalmente si oppose, e colto il pretesto che in tal frattempo il già menzionato Giovanni Cibo, che aveva nominato castellano di Focea nuova, intesosi col governo bizantino, con una mano di Greci aveva tentato d’impadronirsi per sorpresa di Scio, nella quale azione perdè la vita, continuò, come prima, a tranquillamente governarla.
Essendo dopo alcun tempo mancato di vita questo prode ammiraglio, e risiedendo in Genova la maggior parte degli azionisti, fu forza di dare in appalto la riscossione delle entrate dell’isola ad un’altra società ugualmente composta di Genovesi, la quale, col nome di Maona nuova, erasi in essa già costituita pel commercio del mastice. Presto però essendosi dai vecchi maonesi venuto per affari di amministrazione a contestazione con essa, per metter fine alle loro vertenze s’indirizzarono le due Maone nel 1362 al doge Simon Boccanegra25, che le condusse ad un equo componimento, pel quale la nuova in tutto subentrò alla vecchia, e si obbligò solidariamente a soddisfare in Genova a quanto potesse spettare a cadun suo partecipante.
Questa nuova società, ai cui membri fu vietato di alienare a stranieri alcuna azione, era composta di Nicolò Caneto, Giovanni Campi, Rafiaele Forneto, Francesco Arangio, Nicolò di S. Teodoro, Gabriele Adomo, Paolo Banca (in atto del 29 settembre 1376 segnato come membro del consiglio degli anziani col nome di Giustiniani), Tommaso Longo, Andriolo Campi, Luchino Negro, Pietro Olivieri e Francesco Garibaldi, che essendo dodici formarono un egual numero di azioni, alle quali si aggiunsero due terzi d’una tredicesima per Nicolò di S. Teodoro. Ogni azione si divise in tre luoghi o caratti grossi, che suddividendosi in otto parti formarono 304 caratti piccoli, e di questi vari essendo stati venduti, passarono ai Reccanelli, che coi precedenti, abbandonando, ad eccezione dell’Adorno, il nome del proprio casato, adottarono quello di Giustiniani26, e formatisi in albergo sono ancora oggi rappresentati da alcuni dei loro discendenti, e specialmente dal marchese Pantaleo Giustiniani Reccanello, principe di Bassano.
D’onde traesse quest’albergo tale nome, che sin dal 1359 troviamo aver usato la nuova Maona, è ancora ignoto; tuttavia potrebbe essere che siccome in quelli anni questa risiedeva esclusivamente in Scio, la sua fattoria fosse in una casa spettante prima, cioè sotto il dominio greco, ai Giustiniani di Venezia; che se poi venne a possedere palazzi in Genova, questi non dovevano al certo anteriormente aver appartenuto a tali patrizii, non constando che alcuno di essi abbia mai avuto residenza in questa città. Adesso poi nemmeno in patria si ha più memoria del sito nel quale avesse stanza l’ufficio della Maona, composto prima di sei membri detti governatori, indi per legge del 1476 di nove. Certamente che dovette risiedere in una delle due strade oggidì ancora da quest’albergo denominate, ed appunto in caduna di esse tuttora esiste un palazzo di costruzione antichissima, dei quali quello nella strada superiore detto il Festone de’ Giustiniani, già tutto a zone bianche e nere, e che sebbene ora sia stato rimodernato per ridurlo a piccoli appartamenti, tuttavia conserva sulla facciata in basso rilievo una Vergine seduta fra due santi, avente il bambino Gesù sulle ginocchia, e sotto la data dell’anno in cui fu scolpito, cioè MCC. L’altro poi posto sull’angolo della piazzetta esistente nella via inferiore, ed appartenente tuttora ad uno dei membri di quest’albergo, troviamo che sin dal 1380 era di proprietà di un Antonio Giustiniani, credo Longo. Su di esso vedesi ancora scolpito su marmo il leone alato di San Marco con iscrizione che lo dice tolto a Trieste in detto anno, e sulla porta ha lo stemma del castello col capo dell’aquila dell’impero, segno che esso vi fu collocato dopo il secolo XIV. Ora vedendo citato nelle Pandette Richeriane un contratto delli 7 marzo 1479 actum in platea albergi de Iustinianis, col quale i governatori della Maona nominano due notai biennali per servizio della medesima, e non trovando in Genova alcun altro sito denominato così fuorchè quello nel quale s’innalza questo palazzo, abbiamo tutta ragione di credere che in esso avesse tale ufficio la sua residenza.
Venendo ora allo stemma giustiniano, esso fu da principio un castello di argento a tre torri merlate in campo rosso, probabilmente per quello di Scio, ma per concessione di Sigismondo imperatore delli 17 maggio 1413 a favore di Francesco Giustiniani Campi venne ad esso aggiunto il capo dell’impero, cioè un’aquila nera coronata in campo d’oro.
Fu invece chi scrisse che col castello vi si volle rappresentare lo stemma di Genova, da molti tale anticamente creduto, ma errarono, chè questa città alludendo al suo nome, detto nei tempi di mezzo per corruzione Ianua, sin dal dodicesimo secolo aveva adottato, soprattutto sulle monete, una porta di città, come distintamente vedesi, per esserne il campo più largo, in una bolla di piombo di quell’epoca, che ha nel rovescio la protoma di S. Siro, suo arcivescovo e protettore27.
Ritornando ai maonesi, affine di poter rimaner tranquilli per parte dei Greci, mandarono essi nel 136328 tre dei loro soci, cioè Domenico Giovanni Olivieri, Raffaele Forneto e Pietro Reccanello a Costantinopoli all’imperatore Giovanni Paleologo colla preghiera, certamente accompagnata dai soliti doni, di confermare alla compagnia il libero possesso di Scio, ciò che che ottennero con diploma munito della bolla d’oro, ma mediante un’annua retribuzione di cinquecento iperperi29. Questi stessi patti troviamo poi confermati a Tommaso Giustiniani Longo nel 136730, ed il suddetto tributo ancora pagato nel 1412.
Abbiamo veduto che il comune di Genova nel 1347 si era riservato il diritto di riscattare nel termine di venti anni i luoghi di Scio mediante lo sborso di 203,000 lire, e questi dovevano scadere nel 1366, ma nell’aggiustamento del 1362 detti fatali eransi protratti fino alli 26 febbraio 1374, convenendosi che in caso d’acquisto Genova dovesse per essi pagare solamente L. 152,25031. Prima però che tal giorno giungesse, trovandosi il comune, colle casse vuote per causa della guerra di Cipro, e non volendo, col lasciare scader l’epoca fissata pel riscatto, perdere i suoi diritti, fattasi imprestare da vari dei maonesi stessi la somma necessaria, acquistò li 21 novembre 137332 dagli attuali possessori tutti i sopraddetti luoghi o caratti, che calcolati in numero di 2030, e non più a L. 100 caduno, come era stato in principio convenuto, ma a sole L. 75, formarono appunto la suddetta somma.
Segnato l’atto di compra, il doge Domenico Campofregoso, col consenso del suo consiglio, subito tutti li rivendè agli stessi maonesi dai quali aveva ricevuto i denari per acquistarli e per la somma stessa sborsata33, però obbligandoli a pagare annualmente all’erario duemila fiorini d’oro, e ad anticiparne quattordici mila a conto dei sette primi anni. Fu pure nello stesso atto stabilito che riguardo all’amministrazione di questi possedimenti continuasse ad essere in vigore la prima convenzione; in quanto poi alla moneta poco si variò, statuendosi soltanto quod moneta quae cudetur seu stampetur in insula Scyri, stampiatur et formetur cum literis et figuris monetae Ianuae, vel cum signis domini ducis Ianuae, cuius fabricacionis monetae et sechae utilitas et fructus doveva restare alla Maona. Infine il comune si riservò il diritto di riscattare per la stessa somma tutti i sopraddetti luoghi nei due anni che sarebbero scorsi tra il 21 novembre 1391 e lo stesso giorno del 1393, cioè fra vent’anni, durante i quali qualunque provento, sia di Scio che delle due Focee ed isole adiacenti, doveva restare in tutto utile ai maonesi.
Passati ancora non erano sette anni che Genova, per poter sopperire alle enormi spese della guerra che sosteneva contro Venezia, cedè li 16 marzo 138034 per L. 100,000 al banco di S. Giorgio, con altre rendite, i suoi diritti sopra quanto annualmente doveano pagarle i Giustiniani, e continuando sempre maggiori le sue strettezze, senza aspettare l’epoca sopra convenuta pel termine stabilito, li 28 giugno 138535 rinnovò cogli stessi l’appalto di Scio, però coll’obbligo di pagare in due rate L. 25,000 e di aumentare l’annuo tributo di L. 2,500, e ciò mediante venne esso prolungato sino al 21 novembre 1416 coi due susseguenti anni pel riscatto. Questo termine fu poi li 11 marzo 141336 di nuovo protratto, mediante l’offerta di L. 18,000 e la solita annua retribuzione, sino alli 21 novembre 1476. In quest’anno si riconfermò l’appalto sino alli 16 novembre 1507, e per un biennio ancora, e finalmente anche per compensare la Maona delle grandi spese cui aveva dovuto sottostare per la difesa dell’isola in forza delle antecedenti convenzioni, se gliene lasciò il possesso sino allo stesso giorno del 1542.
Dopo però che Genova, riacquistando la libertà, ebbe nel 1528 riformato il suo governo, e che aprendosi il libro d’oro della nobiltà la maggior parte dei maonesi vi venne inscritta37, dal governo si rinunziò a qualunque diritto potesse avere sopra quanto ancora la Maona possedeva in Levante mediante l’annuo censo di L. 25,000, e così le rimase la total signoria di Scio sino a che ne venne spogliata dai Turchi. E questo quanto ai rapporti della società colla madre patria relativamente al possesso dell’isola e sue dipendenze; ora ci rimane a dire alcuna cosa delle sue condizioni esterne.
Come mezzo per poter con tranquillità e sicurezza attendere al commercio, ogni sforzo sempre fece questa compagnia pel mantenersi in ottime relazioni coi suoi vicini, anche con gravi sacrifizi procurando di conservare l’amicizia dei Greci e massimamente dei principi munsulmani dell’Asia minore, contuttociò trovossi alcune volte in grave pericolo la sua esistenza non solamente per parte di questi barbari che speravano di fare in Scio un grasso bottino, ma anche per parte dei Veneziani acerrimi rivali del commercio della sua nazione.
Ed appunto già prima che avesse fine il secolo decimoquarto questi avevano occupata Focea vecchia ed i Turchi l’isola di Samo, ma presto riavutele, dovettero i maonesi per le due Focee prestare nel 1403 omaggio al sovrano dei Mongoli, e dopo la caduta di questo pagare un tributo al sultano dei Turchi, ed un’annualità di 500 ducati al Selgiuchida Sarruk-kan, pesi che però presto cessarono per interposizione di Pietro Zeno signore di Andros.
Appena erasi ciò aggiustato, che, vedendo essi come Genova era caduta sotto il giogo di Francia, pensarono ad intieramente staccarsene, e gridata la libertà ne cacciarono il podestà altro loro proprio sostituendovi; per poter poi provvedere alla difesa dell’isola, pel caso che il governatore francese intendesse di mandarvi una flotta, si fecero imprestare dai commercianti in essa residenti i 15,000 ducati, e nel giorno dicembre 1408 ne proclamarono l’indipendenza. Ma giuntovi sulla metà dell’anno susseguente l’ammiraglio genovese Corrado Doria con un numeroso stuolo di galee, e senza spargimento di sangue avendo occupato il castello, li indusse a rientrare nell’obbedienza, e questo fu il solo tentativo di rivolta per parte dei maonesi.
Due anni dopo, cioè nel 141138, quando meno sospettavasi, sette navi di Catalani, nemici acerrimi dei Genovesi, sbarcarono le loro ciurme presso la città, e dopo averla battuta colle bombarde si ritirarono, saccheggiatine però prima i dintorni. I maonesi, armate in fretta cinque navi dei loro connazionali che trovavansi nel porto, alle quali poi si aggiunse una galea mandata da Dorino Gattilusio signor di Metelino, e messivi sopra 800 soldati, li raggiunsero nel porto d’Alessandria, e dopo varii giorni di combattimento ripresero il fatto bottino, col quale ritornarono nella loro isola.
Avendo nel 1413 inteso che sul trono ottomano era asceso Maometto I e che era venuto a Smirne, subito mandarono ambasciatori a complimentarlo39; ma nel mentre che cercavano i mezzi per guarentirsi dalla parte d’Oriente, venivano gravemente minacciati da Ponente, chè i Veneziani conoscendo come, stante la situazione interna di Genova, le sarebbe stato sommamente difficile di dare alcun valevole aiuto a Scio, nell’ottobre del 143140 mandarono nell’Arcipelago sotto il comando di Andrea Mocenigo una flotta di 36 e più vele, la quale sbarcò nell’isola una numerosa soldatesca, che subito diede l’assalto alla città; ma valorosamente difendendosi i cittadini, grazie specialmente alla grande energia del podestà Raffaele Montaldo, dopo un forte cannoneggiare e vari assalti, lasciativi morti col capitano Scaramucia molti dei loro, dovettero scornati ritirarsi e non pensar più a tale impresa.
I maonesi con questo poco o nulla ebbero a soffrire nel loro commercio, che anzi, grazie alla somma loro attività ed onestà, andossi talmente sviluppando, che i loro porti divennero i più importanti di quelle parti ed erano frequentati non solo dalle navi delle nazioni che toccano al Mediterraneo, ma persino dalle inglesi, che venivano a mercanteggiarvi ed esportarne allume e mastice, e specialmente di questo caricavansi ogni anno da 430 quintali, che vendendosi 45 lire caduno faceva sì che a ciascuna duodena, ossia per ogni tre caratti grossi toccavano incirca 1500 lire41, cosicchè compreso l’appalto dell’allume che veniva dalle Focee e le imposte che sopra vari oggetti percepiva la Maona, si calcolavano a centomila ducati d’oro ascendere le sue entrate, somma in quei tempi assai considerevole.
Questa condizione economica della società durava ancora prosperamente verso la metà del secolo decimoquinto, quando contro le sue possessioni ebbero principio le minaccie e poi gli attacchi per parte dei Turchi.
Sin dal 1435, essendosi il sultano Amurat II impadronito delle due Focee, i maonesi, per timore di uno sbarco sopra Scio, col mezzo di ambasciatori gli avevano offerto un’annua retribuzione di quattro mila fiorini d’oro, e ciò mediante ottennero la loro restituzione e molti vantaggi pel loro commercio. Essendogli alcuni anni dopo succeduto Maometto II, questi, dopo la presa di Costantinopoli nel 1453 e per la cui difesa tanto aveva operato il maonese Giovanni Giustiniani Longo, pensò di ridurre sotto la sua soggezione le varie signorie che i Latini ancora possedevano in Levante; e siccome tra esse Scio godeva la fama di esser un ricco emporio, così fu una delle prime di cui decise d’impadronirsi, e colto il pretesto che i maonesi fossero debitori verso un Francesco Draperio, nobile e ricco mercante genovese di Pera, che pretendeva da loro quaranta mila aspri per allume di rocca, il quale debito essi gli negavano, contro l’isola mandò nel 1455 una flotta42; ma siccome sin dal 1440 fortificazioni della città erano state d’assai aumentate e nel porto trovavansi venti navi genovesi, arditamente essi risposero all’ammiraglio turco che nulla dovendogli, facesse pure quello che credeva. Visto egli che per essere la città troppo ben difesa eragli impossibile di prenderla, rovinate le campagne, se ne allontanò; ma ritornatovi amichevolmente ad istanza dello stesso Draperio, che trovavasi sopra una delle sue navi, s’intese che due dei Giustiniani sarebbero andati ad Andrinopoli dal sultano per trattare; ma frattanto le ciurme avendo insultato i cristiani, si venne colle medesime alle mani, e nel ritirarsi esse sulle navi una se ne affondò. La flotta già maltrattata dal cattivo tempo si ritirò a Gallipoli, d’onde, d’ordine di Maometto, irritatissimo pell’accaduto, nuovamente partì sotto il comando d’altro bascià, il quale, prima occupate le Focee colla prigionia dei mercanti genovesi che vi si trovavano43, si recò avanti Scio, ma i maonesi, affine di evitare una guerra della quale temevano le conseguenze, vennero a trattative e convennero di pagare 30,000 ducati per la nave perduta e 10,000 di tributo, e mediante questo confidavano di non essere più molestati da quei terribili vicini; ma d’assai s’ingannarono, che quel governo nessuna occasione tralasciava per vessarli sempre colla speranza di estorquire loro nuovi denari, e questa si offerse quando nel 148644 dopo aver Francesco de’ Medici con una galeotta recato molti danni al commercio turco, si ritirò per alcuni mesi nel porto di Scio; per il che fingendo i danneggiati di credere che i Giustiniani sopra di essa avessero interessi, si indirizzarono al sultano perchè da essi facesse loro restituire il tolto. Baiazette, uditili, condannò i maonesi a questo ed inoltre ad una multa tale, che il pagarla sarebbe stato la loro rovina. Mandarono essi subito Lanfranco Pateri al gran maestro di Rodi Pietro d’Aubusson, pregandolo che interponesse in loro favore i suoi buoni uffici presso la Porta; ed esso in modo operò che ottenne venissero in tutto assolti, pel qual servizio gli inviarono in dono un magnifico bacile d’argento accompagnato da lettera di ringraziamento dell’ufficio della Maona in Genova.
La condizione economica della società per tali fatti facevasi ogni giorno più critica, che quantunque le sue entrate fossero tuttora prospere, tuttavia per poter pagare i tributi alla Porta, e pei forzati armamenti che doveva fare affine di tenersi pronta a qualunque estero attacco, fu costretta a contrarre imprestiti, e mediante questi e nuove imposte sull’isola potè continuare a soddisfar ancora per molti anni agli obblighi cui erasi vincolata, e conservarne il possesso quantunque quasi abbandonata dalla madre patria, la quale mandando nel 1558 Giovanni Franchi quondam Francesco Tortorino, ambasciatore a Costantinopoli, gli diede per istruzione che qualora sapesse che i maonesi ve ne inviassero uno proprio, dovesse dissimulare la sovranità di Genova sopra Scio per non dare alcuna causa di scandalo nè di ammirazione, ed a Nicolò Grillo, che vi doveva risiedere come bailo, a noi pare che non dobbiate pigliar alcuna cura di giurisditione nè di protettione de’ Sciotti nè de’ Peroti45; e quantunque sin dal 1564 conoscesse i grandi preparativi che la Porta faceva contro quest’isola, per nulla si mosse, e lasciò che tanto essa come le altre sue colonie, abbandonate a se stesse, nelle mani dei Turchi miseramente quasi senza difesa cadessero.
Correva l’anno 1566, e siccome, trovandosi i maonesi in grandi angustie, da due anni avevano ritardato al sultano il pagamento del solito tributo, che già era salito alla cospicua somma di 14,000 ducati d’oro annui, oltre i donativi di panno scarlatto ed altro agli ufficiali del serraglio, e per soprappiù il gran visir Maometto, uomo molto feroce, avendo fatto credere a Solimano46 che l’acquisto di Scio sarebbe stato di grande utile allo stato pel prodotto del mastice e pel comodo suo porto, esso ordinò al capitan bascià Pialì che ad ogni costo se ne impadronisse.
Con 120 galee questi partì da Costantinopoli, e li 15 aprile 1566 fece capo ad un punto dell’isola detto Passaggio, dove divisa la flotta in tre squadre, come amico entrò ne’ suoi tre porti, e come tale ricevuto chiamò a sè il capo della Maona Vincenzo Giustiniani ed i dodici governatori, e subito fattili mettere in catene, trionfalmente entrò nella città che lasciò saccheggiare dai suoi soldati, e fatta inalberare sul castello in luogo della bandiera della croce rossa quella della mezzaluna, sopra cinque navi mandò a Costantinopoli i principali dei Giustiniani colle loro donne e fanciulli.
Dei ragazzi ventuno furono tolti ai parenti, affinchè, abbracciato l’islamismo, fossero allevati nel serraglio; ma diciotto amarono meglio morire nei tormenti che abbandonare la propria religione, e gli altri tre, abbenchè circoncisi, appena il poterono fuggirono a Genova ritornando al cristianesimo. Intanto i poveri maonesi stettero qualche tempo nelle carceri di quella città, indi furono rilegati a Caffa nella Crimea, donde, dopo alcuni anni, ad intercessione di Francia, ottennero i superstiti dal sultano Selim di ritornare a Scio o di andare a Genova, dove la maggior parte infatti si recò, ed i loro discendenti sempre, abbenchè inutilmente, reclamarono sino al 1805 dalla repubblica il rimborso delle somme da essi versate nella banca di S. Giorgio a titolo di guarentigia verso il governo, e che ammontavano a seicento luoghi coi loro interessi.
Di quelli che ritornarono a Scio vivono ancora vari discendenti, dei quali molti, dopochè Genova nel 1814 venne annessa al Piemonte, ottennero la cittadinanza sarda, e di essi è Ignazio Giustiniani, tuttora vescovo del rito latino nell’isola.
Questi poveri cristiani, abbenchè sotto il giogo dei Turchi, poterono ancora godere di una discreta libertà sino al 1694, quando, mediante il loro appoggio, venne l’isola occupata dai Veneziani47; ma per la loro poca perizia nelle guerre di terra e per le cattive condizioni della flotta, presto essendo stati costretti a ritirarsi abbandonando per la fretta sino le munizioni militari, lasciarono che senza colpo ferire gli Ottomani vi rientrassero48. Allora per vendicarsi questi imposero ai Giustiniani enormi tributi, ridussero le chiese che ancora esistevano in moschee, e proibirono il loro pubblico culto ai cattolici.
Così Scio, dopo essere stata per due secoli sì fiorente sotto il dominio di questa società di Genovesi, da contare sino a centoventi mila abitanti, e nei suoi porti sempre un gran numero di navi di tutte le nazioni del Mediterraneo, perduto il suo commercio e rovinati i magnifici edifizi e templi che i Giustiniani vi avevano innalzati, poco per volta venne ridotta a quel misero stato nel quale trovansi le varie isole dell’Arcipelago soggette all’impero ottomano.
- ↑ Chronicon Andreae Danduli, Muratori - Rerum Italicarum scriptores. Tom. XII, col. 295. «Crediamo di dover dire che una gran parte di queste notizie vennero da noi estratto dagli scrittori bizantini, dall’archivio generale del regno in Torino, e dall’eccellente storia di quest’isola, scritta col modesto titolo di articolo (Giustiniani familie aus Genua) dal dottore Hopf, Professore e Bibliotecario dell’Università di Königsberg, ed inserto nell’Allgemeine Encyklopädie di Ersh e Gruler, sessione 1.ª, volume 68.»
- ↑ Historiae patriae monumenta. Liber iurium reipublicae genuensis. Angostae Taurinorun 1854. Tomus I, col. 1351.
- ↑ «Questi era già stato nel 1384 ammiraglio in patria, e tale era il prodotto dell’allume che ricavava da Focea, che il suo figlio Paleologo troviamo averne venduto nel 1298 in una fola volta cantari grossi 660 per L. 2000 di Genova.»
- ↑ Famiglie genovesi. M. S. dell’archivio del regno in Torino.
- ↑ Pandette Richeriane, fogliazzo I, ossia estratto dei protocolli dei notai di Genova Archivio generale del regno.
- ↑ «Michele Giustiniani nella Scio sacra di rito latino (Avellino 1658) a pagina 7 scrisse che Benedetto ebbe dal Paleologo per moglie una sua sorella ed in dote Scio, e cita in appoggio della sua asserzione gli annali di Genova del da Varagine, come riferito dal Federico Federici nelle Memorie Genovesi, c. 507, ma ciò non trovasi nè nel da Varagine ne nel Federici; dubitiamo perciò che per errore al Zaccaria siasi attribuito ciò che il Foglietta negli Elogi degli uomini chiari della Liguria (Genova 1579) a foglio 45 dice, di Francesco Gattilusio che ebbe l’isola di Metelino per dote della moglie, sorella dell’imperatore Giovanni Paleologo.»
- ↑ Pandette Richeriane, fogliazzo A, foglio 6.
- ↑ Cantacuzeni historiarum liber secundus. Bonnae 1828, pag. 370.
- ↑ Laonici Calcondylae historiarum libri decem. Bonnae 1842, pag. 591.
- ↑ Cantacuzenus, ut supra.
- ↑ Pandette Richeriane, fogliazzo A, foglio 98.
- ↑ Idem, foglio 10.
- ↑ Idem, foglio 98.
- ↑ «Ci perdoni il sig. Hopf se noi non possiamo convenire con lui che Paleologo venisse anche chiamato Benedetto II, poichè, come dimostriamo, del padre e del figlio i Greci fecero una sola persona, così nemmeno, come egli crede, Martino e Benedetto poterono essere figli di Nicolò che fu zio a Paleologo e padre solamente di Manuele marito di una Giacobina, della quale non è detto il casato, ma che sola di tal nome troviamo fra le donne entrate nei Zaccaria.»
- ↑ Giustiniani Michele. – Lettere memorabili. Vol. II. Roma 1669, pag. 4.
- ↑ «Questi, secondo il Cibo Recco negli Annali di Genova, che conservansi manoscritti nella Biblioteca di S. M. in Torino, apparteneva alla famiglia patrizia di tal nome, che traeva origine da quella città, ed anzi dice che ai suoi tempi, cioè nel secolo XVI, vi abitavano ancora alcuni nobilissimi uomini venutivi da quell’isola. Questo Giovanni poi doveva discendere da uno di quei mercatanti genovesi stabilitisi in Scio sin da quando il loro comune vi ebbe nel 1261 tanti privilegi da Michele Paleologo.»
- ↑ Giustiniano. Annali di Genova. Ivi 1537, carte 133.
- ↑ «Questi furono Simone Vignoso, Lanfranco Drizzacorne, Guglielmo Solari, Guglielmo Arangia, Giacomo Morando, Nicola Tarigo, Andriolo Pesario, Cosma Salvago, Nicola Cigogna, Giacomo Ornio, Filippone Alpano, Luchino Goano, Tommasino Illione, Lodisio Perrone, Antonio Rossi, Meliado Adorno, Federico Osbergerio, Leonardo Cornasca, Lodisio Panzano, Matteo Babo, Francesco Coconato, Pietro Rosasco, Ansaldo Olivieri, Ampugnino Cantello, Raffo Piscina, Andriolo di Centa, Agostino Bennato, Antonio Viviani e Francesco Cottegario.»
- ↑ Liber jurium reipublicae genuensis, Tomus II, col. 558. Angustae Taurinorum 1857.
- ↑ Cantacuzeni liber tertius. Bonnae 1831, pag. 543.
- ↑ «Queste due città dagli scrittori italiani dei secoli XV e XVI sono chiamato Foglie vecchie e Foglie nuove, denominazione alterata dal dialetto genovese, nel quale le Focee dicevansi Fogge, e siccome così anche chiamavano le foglie degli alberi, detto nome italianizzarono in Foglie.»
- ↑ «In quest’atto già sopra citato, e che per essere stato anche inserto nell’originale del Liber jurium colla falsa data del 1447, fu stampato per doppio alla col. 1498 del Tomo II, è minutamente narrato come fu condotta la cosa per ottenere l’armamento di questa flotta, e vi sono specificate le convenzioni fatte dal Vignoso. »
- ↑ «Varie sono le opinioni circa l’origine ed il significato della parola Maona. Alcuni dicono che derivi dal greco Μονας, unità, altri dall’arabo Mo-unet, aiuto, favore, ed altri, avendo trovato nella marineria turca grossi bastimenti da essi detti Maone, credettero che da questo genere di navi la genovese compagnia avesse preso il suo nome. Nessuna però di queste opinioni ci parve soddisfacente, chè le due prime per nessun verso possono indicare un qualunque genere di associazione, ed in quanto alla terza per riconoscerla erronea, basta sapere che queste navi inventate dai Turchi, i quali avevano cominciato a costruirle come grosse galere, e poi tolti i remi, ne avevano fatto larghi bastimenti a vela, non potevano aver esistito avanti il secolo XV, quando solamente questa nazione cominciò ad avere propria marineria, anzi esse presso i vari storici non vedonsi nominate che dal 1500. Credemmo in conseguenza di dover cercare se nelle carte di Genova avessimo potuto scoprire la vera origine di tale parola, ed appunto nel fogliazzo A delle Pandette Richeriane troviamo gli estratti di tre atti notarili del secolo XIII, cioè al foglio 81 uno delli 18 aprile 1236, col quale un Giovanni di Lanfranco Tornatore cede a Baldoino de Vindercio i suoi diritti sull’ammontare delle perdite da esso fatte nella rissa avvenuta in Ceuta (d’Africa) tra i Cristiani ed i Saraceni, cioè bisanti miliaresi 58 1|2, i quali gli spettano in illis quos recipere debeo in madona de Septa et qui sunt super me scripti in dicta madona occasione damni et perditas dictae; unde cedo tibi omnia iura quae habeo occasione bisanciorum 58 1/2 in dicta madona; altro delli 15 maggio detto anno col quale Enrico Banchieri vien nominato procuratore da Ugo Fornari per esigere 900 bisanti milliaresi in Madona Septae e dovuti da quel re; ed al foglio 140 un altro pure fatto in Genova, però li 27 aprile 1237, per il quale Pietro d’Oria dichiara a Tedisio Fieschi quod de eo quod scriptum est in cartulario prudentium septem et quod dicitur Maona, contingunt tibi libras trecentum. Dal primo poi dei surriferiti atti, spettante alla prima metà del secolo XIII, si vede che esisteva una società di commercio, di quelle che ora diconsi banche, la quale chiamavasi Madona, e dal secondo ricaviamo che i direttori di altra simile società genovese nominavano Maona il gran libro nel quale erano registrati gli averi dei suoi partecipanti, nome appunto col quale chiamaronsi indi quelle compagnie che possederono le entrate di Scio e di Famagosta.
Or tutti sanno come nei bassi tempi in Italia qualunque associazione o corporazione era sotto l’invocazione o protezione di un santo, e che la parola Madona così sola usavasi, come anche al presente, per indicare la Vergine Maria, onde non crediamo di errare dicendo che tali società volevano così significare che erano sotto la sua protezione, come posteriormente fu di quella detta di San Giorgio, e siccome nel carattere del dialetto genovese volentieri si sopprimono per amor di brevità le consonanti, così, tralasciata la lettera D, dissero solamente Maona.
Il fatto di Ceuta al quale alludono le due carte del 1236 è distintamente narrato all’anno 1234 dal Caffaro (Muratori, Rerum Italicarum scriptores, Tomus VI. Annales Genuenses, col. 471-72-73); però non vi è detto che questi crocesignati Calculini o Calcurini, secondo il Giustiniani popolazione delle coste della Spagna verso la Biscaglia o la Navarra, i quali pare amassero portare le loro armi dove vi fosse molta preda a fare, e che poca distinzione mettevano tra cristiani e maomettani, sulle coste d’Africa, appunto in vicinanza di Ceuta, bruciarono una nave chiamata S. Marco, propria di Giacomo Caracapa e Guglielmo Formica savonesi, il qual fatto si legge nel fogliazzo I delle citate pandette, nelle quali, oltre vari altri mercanti genovesi derubati, trovasi che un Ottobono della Croce nella rissa che ebbe luogo in detta città tra i suddetti e gli abitanti, perdette tanto grano per bisanti milliaresi 1516, delle quali perdite quel sultano si era obbligato d’indennizzarli, essendosi così con Genova convenuto per compensarla delle spese da essa fatte nell’allestire una numerosa flotta sotto il comando di Lanfranco Spinola per la sua difesa.
Tale armamento prova di quanta importanza fosse pel nostro comune questo scalo, per mezzo del quale potevano con gran facilità commerciare coi mori sia di Marocco che di Spagna, ed appunto per consoli usava mandarvi persone importanti, come vi vediamo nel 1237 Pietro ed Ugo Lercari, il qual ultimo nell’anno susseguente fu da Lodovioo IX, re di Francia, nominato ammiraglio della flotta che lo doveva portare alla crociata di Affrica.» - ↑ Cantacuzeni liber quartus. Bonnae 1832, pag. 81.
- ↑ Liber iurium. Tomus II, col. 714.
- ↑ «I genealogisti antichi italiani, e fra essi il Zazzera Della nobiltà d’Italia. Napoli 1615, ed il Tommasini, Selva genealogica, Venezia 1699, trattando dei Giustiniani di Genova, ne fanno una sola famiglia che credono d’origine comune con quella di Venezia, anzi il secondo li fa discendere da un Marco stabilitosi in Genova nel 722 al servizio di Liutprando, re dei Longobardi; ma crediamo affatto inutile confutare tali favole, quando, come vediano dai documenti, il contrario ci risulta.»
- ↑ «Con quest’occasione credo di fare cosa grata agli amatori della spragistica patria dando la notizia d’un sigillo annesso ad una lettera scritta nel 1257 da Guglielmo Boccanegra, capitano del popolo di Genova, al capitano di Ventimiglia. Ecco come è descritto nell’atto notarile col quale essa veniva rimessa, e che per estratto è inserto nel fogliazzo II, foglio 38 delle Pandette Richeriane: Sigillum in quo erat sculptus agnus ferens vexillum cum cruce super asta vexilli. Circumscriptio sigilli talis erat. Plebs Iani magnos reprimens est agnus in agnos. Allusione manifesta dell’opposizione dei popolani ai maggiori cittadini.»
- ↑ Speroni — Real grandezza della repubblica di Genova. 1669, pag. 306.
- ↑ «Il Foglietta a pag. 159 della sua Storia di Genova dice che il Paleologo concesse coll’atto suddetto facoltà ai maonesi di coniare monete d’oro; ma ciò nei due diplomi che cita non esiste, onde tale sua asserzione si vede affatto erronea.»
- ↑ Speroni, pag. 206.
- ↑ Liber Iurium. Tomus II, col. 783.
- ↑ Idem, col. 789.
- ↑ «Nel citato atto del 1373 i suddetti trentotto luoghi furono calcolati L. 4,006. 11. 9 cadauno; ma quantunque questa somma a primo aspetto compaia piccola, trovandosi che li 15 gennaio 1375 (Pandette Richeriane) la metà d’uno di essi fu venduto in Genova L. 3,000, tuttavia se si tien conto delle somme che i nuovi acquisitori si avevano addossato l’obbligo di pagare al comune, si vede che il contratto fu piuttosto equo.»
- ↑ Archivio di S. Giorgio in Genova. Liber magnus contractuum.
- ↑ Liber iurium. Tomus II, col. 1016.
- ↑ Codice Giustiniano. Libro I. M. S. nell’Archivio generale del regno.
- ↑ «Prima di tal epoca i membri di quest’albergo non erano ascritti alla nobiltà, e se Francesco Giustiniani Campi fu conte palatino, ebbe tal titolo personale nel 1413 dall’imperatore Sigismondo; e siccome possedevano essi sulla seconda metà del secolo XV case nella contrada della Chiavica, nella quale stava una loro loggia ed aveva stanza il loro albergo in quella di Malcantone e della Croce di Caneto, come risulta dalle Pandette Richeriane, libro fasciato di cartina, così fra le famiglie popolane dovettero esser stati ascritti alle compagne Plateae longae e Machagnanae, che comprendevano tali Conestagie ossia contrade popolari, secondo l’estratto di un registro del 1471, riportato dal preclaro cav. Luigi Belgrano a pagina 252 dei Documenti inediti riguardanti le due crociate di San Ludovico IX re di Francia. Genova, in corso di stampa.»
- ↑ Iohannis Stellae Annales Ianuenses. Muratori, Rerum Italicarum scriptores. Tomus XVII, col 1238.
- ↑ Michaelis Ducae historia byzantina. Bonnae 1834, pag. 106.
- ↑ Giustiniani Andreolo — Poemetto inedito sopra l’assedio di Scio postovi dai Veneziani nel 1431.
- ↑ Hopf — Articolo Giustiniani, pag. 333.
- ↑ Michaelis Ducae historia byzantina, p. 322.
- ↑ Michaelis Ducae historia byzantina, pag. 333.
- ↑ Bosio — Storia dell’ordine gerosolimitano. Tomo II. Napoli 1630, pag. 495.
- ↑ Descrizione del viaggio dell’ambasciatore genovese a Solimano nel 1558, scritta per Marcantonio Morinello. H. S. dell’archivio generale del regno in Torino.
- ↑ Bosio — Storia dell’ordine gerosolimitano. Parte III. Napoli 1864, pag. 755.
- ↑ Dell’acquisto e del ritiro dei Veneti dell’isola di Scio nell’anno 1094 (Trento 1710).
- ↑ «Essendosi questa impresa dei Veneziani fatta l’anno primo del dogato di Silvestro Valier, coll’osella secondo l’uso allora coniata se ne volle conservare la memoria, meschina gloria di governo cadente.»