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Mario Ferruccio Belli
San Floriano di Chiapuzza - La riscoperta di un luogo dell’anima, fra storia e leggenda
LE ORIGINI
Poco, o quasi nulla, si conosce sulle origini della cappella di san Floriano a Chiapuzza di San Vito di Cadore, recentemente riapparsa dalle sabbie e dall’incuria che l’avevano sepolta. Secondo gli studiosi cadorini (G. Barnabò, T. Jacobi, A. Ronzon, P. Da Ronco, G. Fabbiani e, più recentemente, Giuseppe Belli de Tòful) la cappella risaliva almeno al secolo XII, se non prima. Cioè all’epoca di altri sacelli e istituzioni esistiti lungo la cosiddetta strada regia, fra il nord e il sud delle Alpi. Ricordiamo san Lorenzo di Taulèn a Borca, distrutta dalla frana del 1821, santa Elisabetta a Venas (ancora visibile alla base del campanile), la Madonna dei Rissi con il sottoportico a Vallesina (sparita alla metà dell’Ottocento), lo Spirito Santo a Valle demolita nel 1825, sant’Andrea a Damós, san Rocco a Perarolo, ecc. ecc. Occorre poi tenere presente che a nord esisteva nei tempi remoti un villaggio denominato Androne (Andronis), più volte citato nelle pergamene, seguito da abitazioni e osterie: alle vares de Salomón, quindi una cappella a pra Danèl, poi le borgate di Acquabona, Zuel, Manaigo, Pezié, Cojana, la cappella di san Francesco a Cortina, e ancora case a Majon, a La Vèra; e dopo un andare solitario finalmente i santi Antonio e Nicolò a Ospitale d’Ampezzo. Ma la devozione religiosa non finiva qui; anche nel Tirolo era un succedersi di sacelli dedicati ai santi dei pellegrini della tradizione nordica, fino all’alta Baviera dove il paese natale del papa Benedetto XVI ha per patrono, appunto, san Floriano. Una lunga collana di devozione ai bordi delle strade. Un succedersi di chiese disponibili notte e giorno anche come riparo in caso di maltempo. Alcune sono scomparse in tempi lontani, qualcuna é cresciuta diventando chiesa curaziale o parrocchiale, di altre resta appena il labile ricordo.
San Floriano di Chiapuzza è caratterizzata da alcune circostanze ambientali non ancora del tutto chiarite, che la distinguono dalla Parrocchiale, costruita a partire dal 1754, ma sul sito di una preesistente chiesa del XIV secolo, tuttora dedicata ai patroni Vito, Ermagora, Fortunato, Modesto, Crescenzia, Modestino e Modestina. Si tratta di santi venerati nella diocesi di Aquileia, ma, nelle vecchie carte, si scopre che nei secoli andati i primi due erano ricordati a pari merito con Floriano, che è invece di provenienza nordica. Così nella pievanale si custodisce la vecchia pala che si trovava sull’altar maggiore, poi sostituita con il capolavoro di Francesco Vecellio, fratello maggiore di Tiziano. Si tratta di un trittico attribuito ad Antonio Rosso da Tai, o a qualche suo allievo, dove sono raffigurati Vito al centro, Ermagora primo vescovo di Aquileia a sinistra, Floriano alla destra. Le loro feste cadevano in quest’ordine: san Floriano il 5 maggio, san Vito il 15 di giugno e sant’Ermagora il 14 luglio.
DONI E LASCITI TESTAMENTARI
A prova della profonda e diffusa devozione per san Floriano di Chiapuzza vediamo ora qualche documento. Il primo in cui si parla di questo luogo sacro è un testamento redatto in Ampezzo il 13 aprile 1277. Vi appare che certo Azone di Giovanni da Col lascia in eredità i suoi beni, in parti eguali, alle chiese dei santi Filippo e Giacomo d’Ampezzo e a San Floriano di Chiapuzza. Dobbiamo pensare che in quell’anno non esistessero altre chiese in valle del Boite, come scrive Piero Da Ronco in Cronaca d’Ampezzo (Archivio per l’Alto Adige, anno VII, 1912)? Il secondo riferimento si trova in un altro testamento del 4 novembre 1331, scritto su una pergamena custodita nella casa della famiglia Zorzi a Zuel. La studiò Giuseppe Richebuono, descrivendola in Due Soldi dell’ottobre 1970. Qualche battuta. «L’anno del Signore 1331, indizione XIV, il giorno 4 novembre, Gerardo da Crignes, che giace a letto oppresso da una grave malattia, ma di mente sana e buona memoria, non volendo morire intestato, fece il suo testamento e dispose riguardo ai suoi beni in questo modo…, lascia in legato una mezza d’olio per illuminare ognuna delle chiese seguenti: san Nicolò della valle di Ospitale e la chiesa di S. Floriano di Chiapuzza». Il terzo documento è una pergamena datata 28 dicembre 1367, custodita nell’archivio del Comune di San Vito, che riporta le ultime volontà dettate al notaio da certa Margherita da Vodo, sposata e dimorante a Resinego. Fra le altre disposizioni ordina che, fra i beni lasciati al marito, quelli che non siano stati consumati in vita da lui vadano al momento della sua morte per intero alla scuola dei battuti e alle due chiese dei santi Vito e Floriano. Nel 1376 arriva un altro legato testamentario da certo Zanetto di Filippo da Resinego, che lascia mezza libbra d’olio a favore del lume di san Floriano. Finiamo con il documento più importante, scritto il 15 agosto 1434, e cioè con il «Laudo del Comun dei monti» della Regola generale di San Vito, cui facevano capo Chiapuzza, Costa, Resinego e Serdes, nel quale si ordina al «marigo» di fare ogni anno un’offerta di soldi 40 alla cappella di san Floriano. Letteralmente «il marigo sia tenuto pagar ogni anno in perpetuo al monego di S. Floriano soldi 40».
DEVOZIONI DALL’AUSTRIA
Come corollario romantico, riportiamo anche come san Floriano di Chiapuzza era venerato nei secoli andati dalla comunità di Ampezzo, territorio austriaco. La prima citazione appare nel registro del consiglio comunale sotto la data 11 giugno 1617. «Fu deliberato a pien balotte di concedere gratia al reverendo signor Piovano de santo Vito de tante tolle per poter soffittar la giesa di santo Floriano, conforme sua domanda…» Il pievano di San Vito aveva fatto domanda al comune di Ampezzo di alquante assi per soffittare la chiesetta di san Floriano e gli ampezzani le concedono generosamente, senza esigere alcun pagamento! Tre decenni più tardi si parla invece della processione che gli ampezzani solevano fare a Chiapuzza. Un rito consueto, cui partecipava un rappresentante per famiglia, e che era di tanta importanza che i «marighi» erano autorizzati a punire gli assenti con una multa di mezzo fiorino. Ecco il documento.
«Adì 13 luglio 1652. Fu delliberato che il giorno che si va con la processione fuora a san Florian li capi della Comunità debbano commandar che vadino uno per caù et che quelli che mancarono siino castigati in mezzo fiorino per persona». La processione fu più volte confermata, l’ultima nel 1657, con questa motivazione. «Fu determinato di far osservar la festa di santo Florian et quella esser ordinata in perpetuo, per protecion sopra il fuoco».
I pellegrini d’Ampezzo che scendevano con le croci a S. Floriano erano visti con simpatia dai sanvitesi, tanto che nel Laudo sopra ricordato era stata inserita la prescrizione di accoglierli come ospiti graditi, offrendo loro una refezione di pane e vino. «Il Marigo deve far le spese agl’Ampezzani quando vengono con le croci loro a S. Vito, come di consuetudine».
LA CAPPELLA COM’ERA
Di san Floriano non risulta che vi sia alcun disegno o pianta negli archivi della parrocchia o del comune e nemmeno in quelli della curia a Belluno. È vero che san Vito fa parte della diocesi di Belluno soltanto dal 1847, ma, secondo l’archivista diocesano appositamente consultato, non vi sarebbero documenti di qualche interesse nemmeno in quelli di Udine. Perciò sotto il profilo artistico occorre fidarsi del poco che c’è. Nell’archivio dell’arcidiaconato di Pieve è custodita una relazione manoscritta sulle chiese del Cadore, trascritta a macchina qualche anno fa per la Biblioteca cadorina di Vigo. Non porta né data né firma, come se l’autore l’avesse lasciata volutamente incompiuta. Tuttavia per lo stile, e per certi riferimenti storici, viene attribuita a Taddeo Jacobi (1753-1841), ultimo vicario del Cadore. San Floriano è così descritto: «Vi è un solo altare di legno intagliato e dorato, non antico, nel quale esistono tre tavolette di legno, col fondo dorato, dipinte a tempera nel secolo XV com’è presumibile. La prima ha nel mezzo Nostra Signora seduta, col Bambino ignudo ed ai lati i santi Floriano e Battista in piedi. Le altre portano le immagini di una Regina santa (santa Caterina d’Alessandria?) e della Maddalena. Sotto il coro, in una delle pareti, quella a monte, stanno dipinte a fresco, con rozzo antico pennello, che presenta un s. Sebastiano, la cena di Gesù con gli Apostoli, avanti la quale un devoto in ginocchione. Lavori di diversi autori e di diverse epoche, ora molto guasti. Vi ha qualche indizio che sotto vi fossero più antiche pitture». Sulla grande mappa a colori, dipinta nel 1800 dall’ingegner Pancera, custodita nel comune di San Vito, san Floriano appare isolato in fondo al paese. La casetta ha il tetto a due spioventi. Al di sopra della facciata d’ingresso rivolta verso Ampezzo, sembrerebbe esserci un piccolo campanile, come sovrastruttura del tetto più che corpo separato. I recenti scavi archeologici hanno evidenziato invece l’esistenza, in tempi remoti, di un vero campanile, costruito all’esterno dell’abside, sul lato a monte. Significa forse che al tempo della redazione della grande mappa era già scomparso, magari sotto una frana, e già sostituito con la piccola struttura in legno sul tetto?
IL RICUPERO DELLA STORIA
Per ricuperare definitivamente la storia di questo luogo servivano dunque, e soprattutto, conoscenze archeologiche. Occorreva iniziare la ricostruzione filologica del sito, ripulendo il sito con cautela per rintracciare ogni piccolo elemento. Nella primavera del 2006 l’iniziativa è stata raccolta da Piero Menegus de chi de Martin, presidente delle Regole di San Vito, proprietarie del terreno dove sorgeva la chiesa, che ha stanziato i primi fondi. Da Padova sono arrivati la dottoressa Gangemi e il dottor Gerardini della Sovrintendenza archeologica del Veneto. Nei primi giorni di maggio è stato aperto il cantiere, dove un’equipe formata dai tecnici Fabio Ombrelli, Simona Moranti, Giorgio Rosas e Riccardo Alciati ha incominciato i rilevamenti. Nella prima grossolana pulizia sono riapparsi i due pavimenti in malta liscia dell’aula e del coro, che era sopraelevato di un gradino. È stato possibile rilevare l’antica delimitazione del tempio, lungo, fra coro e aula, 20 metri, per una larghezza di 10 nel punto maggiore. E’ riapparsa la vasta sagrestia di mq 36, dalla quale si accedeva con un gradino al coro. Sono riapparse le due porte d’ingresso: il portone a due ante al centro della facciata che guarda verso Ampezzo, e una porta laterale ad una sola anta, sulla parete ovest. Sono state identificate le quattro pareti, tutte debitamente intonacate all’interno, costruite con sassi legati con malta di calce bianca. Lo spessore minimo risulta di circa 60 cm per i tre lati nord, ovest e sud, che diventa di 80 cm e più per quella a monte. Il che, al di là dell’ovvia constatazione che su quel versante il muro doveva reggere la spinta del terreno in pendio, apre altri interrogativi per la presenza di un paio di sporgenze quasi appartenenti a costruzioni estranee adiacenti alla chiesa, oppure a non ben chiare superfetazioni. È stato concluso, seppure in via d’ipotesi, che san Floriano aveva subito nei secoli almeno una ricostruzione. In seguito alla distruzione seguita al terremoto del 1348? E’ stato possibile accertare le modalità dello scoppio durante la prima guerra, di cui tanto si è parlato, che è stato ridimensionato. A circa metà navata, al piede della parete est, è stata ritrovata una piccola voragine (circa 70-80 cm di diametro e altrettanto di profondità) che sembrerebbe ciò che resta dello scoppio, a causa del quale ci sarebbe stata la caduta verso l’interno del muro. Dunque non una demolizione voluta e attuata scientificamente, che avrebbe sospinto all’esterno le muraglie, ma piuttosto un incidente più o meno accidentale nel maneggio di una granata, della quale è stata rinvenuta parte dell’ogiva. Ciò spiega perché, nonostante la deflagrazione, la chiesa non era esplosa interamente. Infatti, proprio sul lato a monte era rimasto in piedi il tratto di muro con l’affresco dell’Ultima Cena. Nel mese di settembre 2006 gli scavi sono ripresi per una seconda tornata di ricerche, sotto la direzione del dottor Fabio Ombrelli, facendo apparire quasi in testa alla chiesa sul lato est l’antico campanile. Una scoperta che ha lasciato a bocca aperta gli studiosi che, sulla scorta della ricordata mappa Pancera, avevano dedotto che il campanile fosse una piccola torre al di sopra del frontone. Invece, oltre che essere ampia e capace di forse un paio di centinaia di persone, la cappella aveva pure un solido campanile, sul lato a monte. La cella campanaria portata alla luce è di m 2,30 x 3, è intonacata ed ha muraglie di spessore tale da confermare una buona altezza. La qualità della cella fa anzi pensare che il luogo fosse abitato, forse dal nonzolo, come risulta essere abitudine anche altrove. A questo punto quali altre scoperte potrebbero venire alla luce? Secondo gli archeologi occorrerebbe ripensare il piano dei lavori, cominciando dal pavimento nei secoli di questo straordinario tempio che tutte le fonti concordi definiscono «il più antico del Cadore». Solo così si potrebbe accertarne la nascita. Chiarire poi la presenza di due tronconi di muro sul lato a monte. Scoprire l’origine dei residui di combustione, anche questi apparsi sul lato a monte, dove sembra di capire esistessero abitazioni. Forse il villaggio di Androne? Impegni che, mentre da un lato stimolano ad ulteriori ricerche, dall’altro incoraggiano a completare il lavoro egregio eseguito dalla regola di Chiapuzza e dai suoi coraggiosi responsabili, sostenendoli nella loro battaglia culturale, una delle più importanti che in Cadore sia stata recentemente intrapresa. Una bacheca sotto vetro andrà quanto prima installata sul posto, per il turista o per chiunque voglia ricordare mille anni della nostra piccola storia.