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Jacopone da Todi - Laude (XIII secolo)
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Signore, damme la morte — nante ch’io piú te offenda;
e lo cor se fenda — ch’en mal perseverando.
Signor, non t’è giovato — mostrarme cortesia;
tanto so stato engrato, — pieno di villania!
pun’ fin a la vita mia — ch’è gita te contrastando.
Megli’è che tu m’occidi, — che tu, Signor, sie offeso;
ché non m’emendo, giá ’l vidi; — nante a far mal so acceso;
condanna ormai l’appeso, — ché caduto è nel bando.
Comenza far lo iudicio, — a tollerme la santade,
al corpo tolli l’officio — che non agia piú libertade;
perché prosperitade — gita l’ha mal usando.
A la gente tolli l’affetto, — che nul agi de me piatanza;
perch’io non so stato deretto — aver a l’inferme amistanza;
e toglieme la baldanza — ch’io non ne vada cantando.
Adunense le creature — a far de me la vendetta;
ché mal ho usate a tutture — contra la legge deretta;
ciascuna la pena en me metta — per te, Signor, vendecando.
Non è per tempo el corotto — ch’io per te deggo fare;
piangendo continuo el botto — dovendome de te privare,
o cor, co ’l poi pensare — che non te vai consumando?
O cor, co ’l poi pensare — de lassar turbato amore,
facendol de te privare — o’ patéo tanto labore?
or piagne ’l suo descionore — e de te non gir curando.

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