< Le Selve Ardenti
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Capitolo I
Una notte terribile
Le Selve Ardenti II

Capitolo I.


Una notte terribile.


L’urlo feroce d’un cane echeggiò acutissimo, lugubre, segnalando certamente un pericolo improvviso, che s’avanzava attraverso la tenebrosa prateria.

Nella capanna, costruita col sistema canadese a qualche centinaio di passi dal Middle Loup, affluente del North Platte, uno dei principali corsi d’acqua che solcano il Nebraska, si accese subito un lume.

Due uomini, che forse dormivano come i gendarmi, ossia con un occhio solo e gli orecchi tesi, si erano subito gettati giù dalle brande, afferrando i loro rifles.

Come abbiamo detto, una lanterna, una grossa lanterna da marina, era stata subito accesa.

La capanna era modestissima, una vera capanna di scorridori di prateria. Grossi tronchi d’abete formavano le pareti; il tetto era piovente; per mobili, una sola tavola con quattro scranne sgangherate, costruite con rami di pinon, che zoppicavano una peggio dell’altra.

I due uomini, che all’urlo del cane si erano precipitati giù dai loro lettucci, non si rassomigliavano affatto.

Uno aveva almeno sessanta primavere sul groppone, ciò nonostante era ancora ben dritto, robustissimo, ed in grado di galoppare ventiquattro ore di seguito o di fare una partita di boxe con uno molto più giovane di lui, e colla piena sicurezza di abbatterlo.

Indossava il pittoresco costume degli indian-agents: casacca di panno azzurro grossolano con molti cordoni e molti fiocchi; calzoni di pelle di daino non conciati; mocassini variopinti, adorni al di fuori invece di capigliature umane, come usavano gl’indiani, di sottilissime strisce di pelle, che cadevano su due enormi sproni d’argento.

In testa portava un ampio sombrero, che forse non si levava nemmeno quando dormiva, e che copriva in parte una certa capigliatura rossastra e lunga di dubbia provenienza.

Il suo compagno invece non aveva più di quarant’anni. Era alto, robustissimo anche lui, molto abbronzato, con occhi neri e baffi foltissimi, e indossava il non meno pittoresco costume degli scorridori di prateria: sombrero molle con ghiande d’argento, camiciotto di pelle gialla stretto da un’alta cintura pure di pelle, calzoni di panno azzurro ed alti stivali alla scudiera. L’urlo del cane si era novamente fatto udire, mentre accendevano la grossa lanterna di marina.

Era un urlo acutissimo, che aveva del cane e del lupo, pieno di ferocia.

I due uomini, il vecchio ed il giovane, si guardavano l’un l’altro con ansietà stringendo le loro carabine.

— John, — disse il più giovane — Curlam ha dato l’allarme. Che ritornino già, o che quel maledetti Sioux, diventati oggi Selve Ardenti, abbiano scoperto il nostro rifugio e cerchino di arrostirci qui dentro? Come sai, la cinta e la capanna sono formate da tronchi di pino che contengono tanta resina. Che fiammata, amico! —

L’indian-agent scosse il capo, poi disse:

— Il mio cane non può ingannarsi. Curlam ha un fiuto ammirabile.

— L’ho già provato.

— Harry, usciamo: noi non passeremo la notte tranquilla. O sono loro che tornano colla mia capigliatura e quella di Minehaha, o sono le Selve Ardenti che cercano di farci provare le delizie della loro fuga attraverso i boschi brucianti. —

Con un calcio spalancò la porta, che non era nemmeno assicurata colla traversa, prese la grossa lanterna ed uscì seguìto dal compagno.

Come usavano allora i coloni americani sperduti nelle solitudini del Nebraska, immenso territorio quasi ancora vergine, sul quale si erano rovesciate le ultime tribù degli Sioux, la capanna era circondata da una palizzata abbastanza alta e molto robusta e con grosse traverse, che potevano opporre una lunga resistenza anche agli urti più violenti.

Un grosso cane, un vero mastino spagnuolo, discendente probabilmente da quelli che erano stati importati nelle colonie del sud per dar la caccia agli schiavi, dal pelame rossastro, le mascelle enormemente sviluppate, stava col muso appoggiato contro lo stecconato fiutando rumorosamente l’aria.

Le sue orecchie battevano febbrilmente, ora alzandosi ed ora abbassandosi, ed il suo pelame di quando in quando si arricciava. Pareva pronto a scagliarsi contro un nemico che lui solo sentiva.

— E dunque, Curlam? — gli chiese l’indian-agent, battendogli sulle robuste spalle. — Che cos’è che t’inquieta? —

Il mastino volse la testa, alitò in viso al padrone come una nuvola di fumo, essendo la notte così fredda da gelare il fiato lo guardò per qualche istante con i suoi occhi intelligentissimi, poi abbaiò sommessamente tre volte.

— Ti comprendo — disse l’indian-agent. — Tu mi segnali quei maledetti vermi rossi.

Ripeti, ma prima ascolta bene, Curlam, poichè potresti ingannarti. —

Il cane fiutò a più riprese l’aria gelata, che il vento del settentrione spingeva attraverso all’immensa prateria coperta di neve, poi mandò un latrato, uno solo.

— Uomini bianchi! — esclamò John. — Questo è il tuo modo di segnalarli. Come vedi ti eri ingannato. —

Subito per altro il mastino, per far meglio comprendere al padrone che non si trattava solamente di uomini bianchi, ripetè i tre latrati.

L’indian-agent fece un gesto di collera.

— Uomini bianchi e vermi rossi! — disse — Tuo fratello, Harry, ed il signor Devandel sono inseguiti dalle Selve Ardenti.

— Come puoi saperlo tu, John? — chiese lo scorridore di prateria, facendo un gesto di stupore.

— Ho insegnato al mio cane a fiutare a distanza gli uomini bianchi, le belve e gl’indiani, i tre maggiori nostri nemici, poichè tu sai quanti briganti dal viso pallido si aggirano negli Stati quasi ancora vergini, e forse non sono meno pericolosi dei vermi rossi.

— Mi ricordo di Sandy-Hook.

— Ora il mio cane ha abbaiato la prima volta, poi ha mandato tre latrati. Se ne avesse mandati due, avrebbe segnalato l’avvicinarsi di qualche orso grigio o di qualche altra grossa e pericolosa selvaggina.

Mi pento di aver accordato, così presto, a tuo fratello ed al signor Devandel il permesso dì fare una rapida esplorazione nei nuovi campi degli Sioux.

— Temi un attacco?

— Quei due giovani hanno commesso certamente qualche imprudenza e si sono fatti inseguire.

La notte non passerà tranquilla, te lo dico io, Harry; e domani mattina il nostro rifugio, che da quattro sole settimane abitiamo, non sarà altro che un braciere.

— E noi saremo cucinati come salsicciotti di bisonte? — chiese io scorridore sorridendo.

— Non scherziamo, Harry, — rispose l’indian-agent, con voce grave. — Questo non è il momento.

— Le pelli-rosse le abbiamo combattute per tanti anni!...

— È vero.

— E poi ti abbiamo promesso di riprenderti la tua capigliatura. Levati la parrucca, che ti sta così male. —

L’indian-agent con una mossa brusca fece cader via il largo sombrero messicano che gli copriva la testa, e si tolse la splendida parrucca nera che gli scendeva fino alle spalle.

Un orribile spettacolo si offerse agli occhi dello scorridore, quantunque non nuovo.

La testa del povero indian-agent non aveva più un capello.

La sua pelle color sanguigno si era rinfrignata qua e là in modo orribile. Il coltello degli scotennatori indiani aveva operato ferocemente su quel cranio.

— Aspetterò la mia, — disse con voce rauca — quantunque io non debba salire nelle praterie celesti del buon Manitou, perchè non sono una pelle-rossa. Potevo perciò aspettare ancora la mia vendetta.

— Tu sai che quando gli scorridori della prateria promettono, mantengono.

— E il figlio del colonnello?

— È un ufficiale dell’esercito americano che combatte sulla frontiera. Egli vuole vendicare suo padre.

— Se Minehaha è sua sorella!...

— Sangue indiano, sangue traditore. Se domani quel demonio dal mantellone bianco potesse prendere il figlio del colonnello, la Scotennatrice non lo risparmierebbe. —

In quel momento Curlam, il grosso mastino, che continuava a fiutare l’aria, fece udire dapprima un latrato sommesso, poi dopo qualche istante tre altri più bassi, più profondi.

— Uomini bianchi e indiani, — disse l’indian-agent. — Curlam non s’inganna mai.

— Che cosa dobbiamo fare? — chiese Harry.

L’indian-agent ebbe una forte scossa. Due colpi di fucile erano rimbombati nella prateria coperta da un fitto strato di neve, seguiti poco dopo da urli acutissimi, i quali per altro non avevano nulla di terribile.

Il grido di guerra delle pelle-rosse, checchè si sia scritto, non ha niente di spaventoso.

Sembra un concerto di cani più o meno arrabbiati, ma nulla di più.

— Harry, — disse l’indian-agent, il quale sembrava in preda ad una viva commozione — hai udito tu?

— Come il tuo cane.

— Corri al fiume e va’ a vedere se la barca è ancora in ottimo stato. Temo che le grosse lastre di ghiaccio l’abbiano rovinata.

Vuoi che ti accompagni?

— Ma che! Dammi un pezzo di candela. Io non ho paura quando tengo nelle mani il mio fedele rifle e alla cintura due rivoltelle vere Colt, che contengono sei proiettili ciascuna.

Con queste armi io dispongo della vita di tredici uomini.

Qua la candela, John! —

L’indian-agent rientrò nella capanna e porse invece allo scorridore un occhio di bue, che poteva servirgli meglio col vento taglientissimo ed impetuoso che soffiava sulla prateria gelata. Curlam non abbaiava più. La riviera del Lupo, che correva appena a cento passi dietro la capanna, rumoreggiava invece sinistramente, trascinando fra le sue onde biondastre enormi lastroni di ghiaccio.

L’inverno era piombato sul Nebraska, coprendo le praterie e le foreste d’un fitto strato di neve ed i fiumi di ghiaccio.

Harry prese l’occhio di bue, si armò del fedele rifle, ed uscì per la stretta porticina che s’apriva dietro la capanna.

John invece aveva ripresa la sua guardia dietro la cinta, tenendo Curlam per il grosso collare di ferro.

I suoi sguardi interrogavano ansiosamente la bianca prateria che si stendeva a perdita d’occhio verso il settentrione.

Di quando in quando scoteva la testa come fosse poco convinto di quella gran calma, rotta solamente dall’urlo lontano di qualche lupo affamato.

Era trascorso appena un minuto da che lo scorridore si era avviato sulla riviera, quando due detonazioni secche, due veri colpi di carabina, rimbombarono verso il nord.

Curlam mandò un urlo lunghissimo; poi, dopo un breve intervallo, altri tre.

Ti comprendo, Curlam, — disse John scotendo novamente la testa. — Uomini bianchi e vermi rossi.

Ora vedremo chi saranno quelli che giungeranno prima a tiro dei nostri infallibili rifles. —

Un leggiero rumore gli fece volgere la testa.

Harry, lo scorridore della prateria, era tornato, e illuminava il suo passaggio coll’occhio di bue.

— John! — chiese. — Chi ha sparato?

— Tuo fratello ed il signor Devandel, suppongo.

— Sono inseguiti?

— Chi lo sa? Solamente il mio Curlam potrebbe dirlo. E la chiatta?

— Perduta.

— Perduta, hai detto?

— Degli enormi tronchi d’albero trascinati dalla corrente insieme coi ghiacci devono averla sfondata.

— Dei tronchi d’albero?

— Sì, John. Ve ne sono almeno venti arrenati sulla riva.

— E allora serviranno a noi come scialuppe — rispose tranquillamente lo scorridore. — Abbiamo delle scuri e sapremo con quelle, tenerle ferme e dirigerle.

Al freddo ci siamo abituati.

Odi? —

Un urlìo ferocissimo aveva rotto il grande silenzio che regnava sulla biancheggiante prateria, seguito subito da altri due colpi di carabina.

— Vengono! — disse l’indian-agent. — Sono essi che giungono. Domani la nostra capanna sarà in fiamme.

Poggiamo verso il fiume prima che la ritirata ci venga tagliata.

Su, Harry, prendi il tuo rifle e seguimi. Se ci capita il destro di fare un colpo buono contro quella dannata Minehaha, lo faremo, te lo giuro.

— Ed i nostri cavalli?

— Non ci servirebbero in questo momento. La nostra salvezza sta fra i ghiacci della riviera.

Apri loro la porta della scuderia e lasciali andare. Ne troveremo facilmente degli altri. —

Lo scorridore fu lesto ad obbedire, e un momento dopo due bei cavalli, completamente bardati, si slanciavano all’aperto nitrendo allegramente.

— Eccomi, John, — rispose Harry, udendosi chiamare.

— Non abbiamo un momento da perdere. A me, Curlam! —

Scivolarono sotto la piccola porticina, non senza aver avuto prima la precauzione di armarsi di due solide scuri per guidare gli alberi, e si gettarono fuori gridando:

— Giorgio! Signor Devandel! Al fiume! al fiume! —

Due cavalieri s’avvicinavano alla capanna a corsa sfrenata, sparando di quando in quando un colpo di carabina.

Dietro a loro, ad una distanza di circa quattrocento metri galoppavano parecchi cavalieri, i quali rispondevano ai colpi di fuoco.

— Abbaia, Curlam, — disse l’indian-agent.

Il cane si mise a latrare furiosamente, indicando così ai due cavalieri la via che dovevano tenere, e che non era più quella della capanna.

L’indian-agent e lo scorridore, che si servivano dell’occhio di bue, erano appena giunti sull’altra riva del fiume, la quale scendeva rapidissima, tutta coperta di cespugli biancheggianti di neve, quando i due cavalieri giunsero loro addosso.

— Giorgio.... signor Devandel.... siete proprio voi? — chiese John, il quale si era voltato puntando il rifle.

— Sì, siamo noi — risposo uno dei due. — Abbiamo almeno cinquanta Selve Ardenti alle spalle, e le guidano Minehaha e Nube Rossa.

— Disgraziati! Vi siete lasciati sorprendere!

— È vero, John, ma ti assicuro che ci avrebbero egualmente scovati fra qualche giorno.

— Vi credo, signor Devandel.

— Dove andiamo?

— Non ci rimane che traghettare o scendere la riviera — rispose l’indian-agent. — Lasciate andare i vostri cavalli che non potrebbero resistere al freddo intenso; prendete le vostre armi e le munizioni e seguiteci subito.

— Minehaha non ci ha presi ancora. —

I due cavalieri scesero di sella senza muovere alcuna obbiezione, e si slanciarono dietro lo scorridore ed all’indian-agent, i quali si aprivano il passo fra i cespugli candidi di neve.

Gl’indiani continuavano a inseguirli schiamazzando e sparando i loro winchesters, ma essendo la superfice della prateria ormai totalmente gelata e non avendo i loro mustani i ferri agli zoccoli, non potevano farli correre troppo.

Preceduti da Curlam, i quattro fuggiaschi invece di scendere si lasciarono andare giù per la china, e giunsero ben presto in riva al fiume.

La riviera del Lupo, una delle più grosse che solcano le parti quasi ancora vergini dello Stato del Nebraska, misurava in quel punto almeno centocinquanta metri, e la sua corrente, piuttosto impetuosa, trascinava ghiacci ed enormi tronchi di pino.

— Dov’è la nostra chiatta? — chiese uno dei due cavalieri.

— Scomparsa: sfondata forse da ghiacci o da tronchi d’albero, signor Devandel, — rispose l’indian-agent.

— Allora le Selve Ardenti ci rovesceranno nel fiume.

— Ah ba’! Fate come faccio io signor Devandel, e badate solo a non bagnare le vostre munizioni. —

Vi erano molti tronchi di pino, lunghi quaranta ed anche cinquanta metri, imprigionati fra i ghiacci.

L’indian-agent ne liberò uno a colpi di scure e vi salì a cavalcioni senza curarsi dell’estrema freddezza dell’acqua.

Curlam aveva già preso il suo posto dinanzi a lui.

— Presto, signor Devandel, — disse John, vedendo che il giovane pareva esitare. — O prendere un bagno freddo, o perdere la capigliatura.

Non avete che da scegliere.

— Preferisco il bagno, vecchio mio, — rispose il signor Devandel.

— Montate! —

Infisse profondamente la scure nel tronco per tenerlo fermo ed impedirgli di girare su sè stesso, poi con quattro poderosi calci allontanò i ghiacci.

Harry e suo fratello Giorgio avevano già fatto altrettanto, e filavano rapidamente allontanandosi dalla riva.

— In viaggio — gridò John. — Vedremo se le pelli-rosse avranno tanto coraggio di lanciare i loro cavalli nel fiume. Badate alle munizioni. Io rispondo di tutto! —


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