< Le Selve Ardenti
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Capitolo XIV
La carica degli americani
XIII XV

Capitolo XIV.


La carica degli americani.


Per parecchi minuti nell’ampia tenda regnò un profondo silenzio, rotto solo dal crepitìo delle fiamme e dai grugniti di Nube Rossa, il quale aveva preso un nuovo calumet e lo aveva caricato con moriche fortissima, forse per istordirsi maggiormente.

John era rimasto immobile, appoggiato ad una delle pertiche del wigwam. Conservava una calma meravigliosa, che non poteva sfuggire agli sguardi acuti del vecchio sakem, buon conoscitore d’uomini valorosi.

Ad un tratto Minehaha scattò in piedi come una furia, e chiese con accento feroce all’indian-agent:

— Dov’è la capigliatura di mia madre?

— La porto in testa io — rispose John.

— Me l’avevano detto.

— E la mia pende sempre nel centro dello scudo di guerra?

— Sì.

— Vorrei vederla, dopo tanti anni che mi è stata strappata.

— Quando tu mi avrai data la capigliatura di mia madre. —

L’indian-agent, che già sapeva di non potere in alcun modo difenderla, si levò l’ampio sombrero messicano e si tolse la parrucca formata di lunghissimi capelli neri che avevano dei riflessi metallici, dicendo:

— Eccola! Ed ora guarda l’opera compiuta dal tuo coltello sul mio povero cranio.

Guarda, guarda! Lo voglio! —

Minehaha gettò uno sguardo sulla testa dell’indian-agent, e non seppe frenare un moto d’orrore.

Quel cranio, che aveva subita l’atroce operazione dello scalp, così largamente usato da tutte le pelli-rosse dell’America settentrionale, era orribile a vedersi.

La pelle vi si era riformata ma tutta raggrinzita, tutta rossastra, quasi color di sangue, ma nessun capello era tornato a spuntare.

— L’hai veduta la mia testa, ora? — chiese l’indian-agent con rabbia sorda.

— Non è la prima! — rispose freddamente Minehaha.

— Ti credo, sakem: ti hanno chiamata la Scotennatrice. —

Prese la parrucca e la gettò con disprezzo a terra.

Minehaha la raccolse vivamente, la guardò a lungo con una commozione che invano cercava di nascondere, affondò una mano dentro i lunghi capelli, poi disse, rivolgendosi al capo dei Corvi:

— Ecco la capigliatura di mia madre: ecco la capigliatura di tua moglie.

Era tempo che la grande Yalla potesse entrare nelle praterie celesti. —

Nube Rossa la guardò di traverso, aggrottò la fronte, poi continuò a fumare senza dir nulla.

John intanto si era rimesso in capo il sombrero, poichè il suo capo scorticato non poteva affrontare l’aria fredda senza produrgli acuti dolori.

— Ora mostrami la mia ― disse a Minehaha, che continuava a lisciare i capelli di sua madre.

La sakem ebbe un sorriso crudele e rispose:

— Hai ragione, viso pallido. Vedremo quale delle due sarà meglio conservata. —

Aprì un vecchio cassettone e tolse il suo scudo di guerra di grosso cuoio di bufalo, di forma rotonda, adorno di piastre d’argento, che volevano raffigurare tanti coltelli da scotennare.

Dal centro, appesa ad un anello pure d’argento, pendeva una capigliatura un po’ grigiastra, assai meno lunga di quella di Yalla, tuttavia assai abbondante.

— Eccola! — disse Minehaha. — La riconosci tu? —

L’indian-agent mandò un vero ruggito di collera e fece atto di scagliarsi, ma subito si trattenne, poichè Nube Rossa aveva deposto il calumet per afferrare la sua scure di guerra, pronto a difendere la figlia.

— I miei capelli! — disse poi con voce rauca. — Dammeli perchè mi faccia formare una nuova parrucca.

La mia testa, da quando la lama fredda del tuo coltello passò sul mio cranio, soffre atroci dolori ogni volta che il tempo si butta al cattivo.

— Tu non ne hai bisogno, — disse Minehaha.

— Perchè, giaguara della bassa prateria? — urlò John tendendo le pugna.

— Perchè domani sera, prima del tramonto, tu ed i tuoi compagni sarete tutti morti. —

Nube Rossa fece udire un grugnito, e si volse rabbiosamente sull’altro fianco.

— Ah, è vero! — disse l’indian-agent con un amaro sorriso. — Mi ero scordato di trovarmi fra le unghie di Minehaha, la figlia della donna che scotennai. —

Poi, alzando la voce tonò:

— Sei proprio sicura di uccidere me ed i miei compagni? Gli americani sono stanchi di queste atrocità, e non so quale spaventosa vendetta ne prenderebbero. Pensaci, Minehaha. Essi possono giungere da un momento all’altro e distruggere completamente la frazione dei Sioux che ha assunto il nome di Selve Ardenti. —

Un sorriso sprezzante contorse le labbra della sakem.

— Noi sapremo morire colle armi in pugno! — disse poi, con orgogliosa fierezza. — La nostra razza è destinata a scomparire e mescolare la polvere delle sue ossa a quelle dei bisonti.

Vada distrutta tutta, ma prima di cadere noi faremo cadere molti dei larghi coltelli dell’ovest.

Vengano: siamo pronti! —

Alzò la voce, gridando:

— Aquila Bianca! —

Il sottocapo, che doveva vegliare dinanzi all’apertura della tenda colla sua scorta, fu pronto ad entrare.

— La sakem mi chiama? — chiese.

— Conduci via questo viso pallido — rispose Minehaha, con alterezza. — Mi ha annoiato abbastanza.

— Che cosa devo farne?

— Lo saprai domani. Portalo via.

— E la mia capigliatura? — disse John mordendosi le mani dalla rabbia.

― Rimarrà sul mio scudo finchè avrò un soffio di vita — rispose la sakem. — Va’!

― Non so, Minehaha, se la mia capigliatura ti porterà fortuna ― disse l’indian-agent. — Io sono certo di non morire così presto e di non trovarti nelle praterie celesti. —

L’Aquila Bianca afferrò per le spalle il prigioniero e lo spinse fuori della tenda, dove già attendeva la scorta.

Minehaha rimase un momento diritta dinanzi alla fiamma crepitante; poi ripose lo scudo adorno della capigliatura di John, nel cassettone.

— Sono la figlia della grande Yalla? — chiese poi volgendosi verso Nube Rossa.

Il vecchio Corvo ebbe un sussulto che parve uno scatto di rabbia a malapena franata.

― Sì, — disse poi.

— Era così fiera mia madre?

— Forse più di te.

— Io ho strappato più di trenta capigliature.

— Tua madre non ne strappò che una, eppure godeva fama di grande sakem.

― Quella capigliatura apparteneva ad un viso pallido che l’aveva sposata prima di te ― disse Minehaha con ira.

Nube Rossa lasciò andare il calumet, afferrò il tomahawk e si alzò con un’agilità da pantera.

― Hai detto? — ruggì.

― Che la grande Yalla era stata prima la sposa d’un uomo bianco, e che tu, Corvo, la sposasti dopo.

― E vorresti dire?

― Che i Corvi non sono Sioux. ―

I lineamenti di Nube Rossa si contrassero spaventosamente, poi alzò il braccio armato dell’ascia di guerra, facendola roteare sopra la testa di Minehaha, la quale lo aveva intrepidamente affrontato.

― Sei mia figlia! ― disse con voce terribile ― ed io, secondo i nostri usi, potrei spaccarti il cranio e poi scotennarti come una donna bianca.

Lo sai tu?

― Lo so ― rispose Minehaha, facendosi innanzi colle braccia strettamente incrociate e gli occhi accesi. ― Se vuoi, uccidimi. ―

Nube Rossa per la seconda volta roteò in alto il tomahawk, proprio sopra la testa della figlia, poi mandò un suono rauco.

L’ascia di guerra cadde al suolo, e vi si conficcò fino al manico.

― Se tu non fossi stata la figlia di Yalla ― disse poi ― a quest’ora saresti dinanzi al buon Manitou. —

Raccolse il calumet che fumava ancora, si avvicinò ad un’altra vecchia cassa, estrasse una bottiglia di wiskey di prateria, la decapitò col suo coltello da scotennare e bevette parecchi sorsi.

― Che cosa fai, padre? — chiese Minehaha.

― Bevo il veleno che distruggerà la nostra razza — rispose asciuttamente Nube Rossa.

Si rimise in bocca il calumet, e tornò a sdraiarsi; poi, guardando sua figlia un po’ ferocemente, le chiese:

― Che cosa vuoi fare di quegli uomini bianchi?

― Domani sera saranno morti.

― E non hai pensato tu, che gli americani c’inseguano?

― Che cosa m’importa?

― E che se ci raggiungono e se sapranno che noi abbiamo uccisi altri quattro uomini bianchi, ci stermineranno tutti? Hanno ora delle macchine che valgono molto più dei nostri winchesters.

— Ci uccidano! — rispose Minehaha, scrollando le spalle.

— Vorresti tu essere la causa della distruzione delle Selve Ardenti e della morte di Piede Grosso, che il male tiene inchiodato sotto la sua tenda?

― Io non voglio che una cosa sola: vendicare mia madre. ―

Nube Rossa fece un gesto d’impazienza, poi disse:

― Molti anni sono trascorsi da quando tua madre cadde nel combattimento che Caldaia Nera aveva voluto impegnare, e molta acqua è passata su quella macchia di sangue.

D’altronde anche noi abbiamo scotennate molte donne dei visi pallidi.

— Ciò non mi riguarda.

― Pensaci, Minehaha. I larghi coltelli dell’ovest sono ormai troppo potenti ed hanno giurato la distruzione della nostra razza.

— Mio padre avrebbe paura di morire? — chiese la sakem, scattando colla sua solita violenza.

Nube Rossa digrignò i denti come un vecchio giaguaro, poi slacciò rabbiosamente la sua casacca di pelle di daino ricamata in azzurro, e mostrò alla figlia il petto d’atleta, dicendole:

―Qui vi sono sette cicatrici di ferite prodotte da armi da fuoco e da armi bianche.

Sai da chi le ho ricevute?

— Dai larghi coltelli dell’ovest.

— E combattendo per chi? Per la mia tribù forse, che io aveva lasciata con pochi fedeli per sposare tua madre che l’uomo bianco aveva abbandonata? No, per i Sioux. —

Minehaha rimase silenziosa ed abbassò gli sguardi.

— Io ho preso parte a più di trenta combattimenti, caricando sempre alla testa dei miei guerrieri coll’ascia di guerra in pugno, poichè sdegnavo le armi da fuoco; — proseguì Nube Rossa con voce irata — e tu vieni a domandare ad un tale guerriero se ha paura di morire? Tu, mia figlia! È vero che tua madre mi teneva in poco conto perchè invece di essere un Sioux ero un Corvo, come se quelli della mia razza non avessero sempre combattuto contro l’odiato viso pallido. Tua madre era cattiva; tu sei una piccola giaguara. L’indian-agent ha avuto ragione di dirtelo. —

Minehaha continuava a tacere. Si era novamente seduta dinanzi al fuoco, appoggiando il mento sul palmo della mano sinistra, mentre colla mano destra, armata d’un tizzone mezzo consunto, frugava dentro i carboni accesi sollevando, di quando in quando, piccoli sprazzi di scintille e qualche nuvoletta di fumo.

Nube Rossa si era messo a passeggiare intorno, pestando fortemente il suolo.

Ad un tratto si fermò dinanzi ad una delle casse che ingombravano il wigwam, l’aprì impetuosamente, tolse una bottiglia d’aguardiente, la decapitò col suo coltello da scotennare, e si mise a bere a lunghi sorsi, come se volesse soffocare la collera terribile che gli avvampava nel petto.

Minehaha fingeva di non vedere. D’altronde sapeva che tutti i grandi guerrieri dalla pelle rossa erano pure grandi bevitori. Quando la bottiglia fu semivuota, il vecchio Corvo tornò verso sua figlia e le chiese con voce roca:

— Che cos’hai deciso?

— Che quegli uomini morranno! — rispose freddamente la sakem. — Non voglio lasciarli ancora negli Stati del Gran Padre bianco, mentre noi emigriamo verso il settentrione.

Dove li ritroverei dopo, quando noi avessimo varcato il confine del Dominio Inglese?

— Non ti ha restituita la capigliatura di tua madre, l’indian-agent?

— Non mi basta: voglio il suo sangue.

— E poi fuggiremo, tu dici o speri. Ma Piede Grosso è troppo ammalato per affrontare i disagi d’un viaggio con questo freddo intenso.

Non l’odi tu, tossire? —

Minehaha alzò leggermente le spalle.

— Quello non è un Corvo, è un Sioux, un grande guerriero che tutti ammirano e che nessuno abbandonerebbe.

Aspetteremo che sia guarito.

— E intanto gli americani giungeranno, troveranno i pali di tortura, indovineranno tutto e si vendicheranno ferocemente.

Pensa che non siamo tutti guerrieri: abbiamo con noi anche delle donne e dei fanciulli.

— Anch’io sono una donna — rispose Minehaha. — Che le altre combattano al mio fianco.

D’altronde io credo, padre, che i larghi coltelli dell’ovest siano ancora ben lontani e che abbiano perduto perfino le nostre tracce.

— Ed io ti dico, Minehaha, che li sento giungere.

— Ma non li odi ancora.

— Il mio fiuto di vecchio guerriero vale più di quello di tutti i nostri cani.

— Al tuo fiuto non credo. —

Nube Rossa riprese il suo calumet, lo riempì, lo riaccese, e dopo aver lanciato verso la figlia uno sguardo quasi feroce, uscì dalla tenda e si mise a sedere su un vecchio tronco d’albero che si trovava lì presso.

Minehaha invece era rimasta accanto al fuoco.

L’alba spuntava, e le nevi che coprivano tutta l’alta prateria si tingevano vagamente di rosa.

Il sole si sforzava di mostrarsi attraverso un denso strato di nebbie che imprigionavano i suoi raggi.

Tutto il campo si era svegliato. Quegli uomini, che durante la notte avevano vegliato accanto ai fuochi ormai morenti, si affrettavano a ritirarsi sotto i wigwams per prendere un po’ di riposo, mentre gli altri, che avevano dormito, uscivano a governare i cavalli, aiutati da un centinaio di donne e da una folla di fanciulli sgambettanti, seminudi, fra la neve.

Da lontano di quando in quando giungevano dei cavalieri mandati ad esplorare le rive del Lupo, e si arrestavano dinanzi alla tenda che s’ergeva accanto a quella di Minehaha col suo totem sventolante in alto nel quale era raffigurato un piede gigantesco di colore azzurro.

Là sotto, Piede Grosso gravemente malato di pneumonia, lottava ferocemente ma invano, contro la morte che l’aveva ormai avvinghiato.

I prigionieri intanto, quantunque avessero molto perduto delle loro speranze e fossero anzi convinti di non vedere il sole del domani, dormivano tranquillamente.

Si erano rassegnati a subire l’atroce tortura del palo? Forse.

A mezzodì, due indiani li fecero alzare, offrendo loro una bottiglia d’aguardiente e del maiz condito col solito grasso d’orso.

John, che aveva una fame feroce, questa volta non osò scaraventare addosso a loro la colazione.

— Ho ammirata la tua prudenza — gli disse Harry, un po’ sorridendo. — Morire sia pure, ma col ventre perfettamente vuoto mi sarebbe dispiaciuto.

To’! Guarda quanta attenzione ha per noi Minehaha. Perfino dell’aguardiente.

E forse questa è l’ultima che si trova in tutto l’accampamento.

— Avrei preterito che mi avessero mandato Sandy-Hook alla testa degli americani — rispose l’indian-agent.

— Che sia morto? — domandò il signor Devandel.

— Chi lo sa? I lupi possono averlo divorato; può aver incontrato qualche orso grigio affamato o qualche banda di esploratori indiani.

Chi potrebbe dirlo? —

E furono le ultime parole che si scambiarono durante l’intera giornata, poichè un grande scoraggiamento si era impadronito di loro.

Non era il pensiero della morte che li faceva fremere; ma quello delle orribili torture del palo indiano che avrebbero dovuto subire.

Che cosa avrebbe inventato di nuovo la piccola giaguara per farli soffrire di più?

La corsa delle verghe, le schegge di legno cacciate sotto le unghie, le micce solforate accese e strette fra dita e dita, un carbone ardente cacciato dentro l’orbita d’un occhio prima vuotata colla punta d’un coltello, un fuoco acceso sul ventre ed alimentato da rami resinosi, sarebbero bastati per farli lentamente morire?

Di ora in ora che il sole si abbassava, un’angoscia indescrivibile si era impadronita dei quattro prigionieri.

Morire di fronte al nemico, colle armi in pugno, fra l’acre odore della polvere, il luccichìo delle sciabole o dei tomahawks, ubriacati dagli urli di guerra e travolti in una carica spaventosa, sarebbe stato niente per quegli uomini che da anni ed anni lottavano sulle frontiere del Far-West, sfidando ogni giorno la scotennatura.

Già il sole stava per tramontare e quattro pali della tortura erano stati rizzati dinanzi alla tenda di Minehaha, ed i guerrieri si erano dipinti in rosso, in giallo ed azzurro per la grande festa, quando un cane dell’accampamento mandò un ululato lunghissimo. John era balzato in piedi col volto un po’ smorto ma col sorriso sulle labbra.

— Questo cane annuncia il nemico! — disse. — Gli yankees vengono. Che Dio mi danni per tutta l’eternità se io m’inganno!

Ah, Sandy-Hook, anche se tu sei stato un terribile bandito, io ti bacerei! —

All’urlo del cane avevano risposto altri urli.

I guardiani a quattro gambe dell’accampamento avevano fiutato il nemico.

Pochi istanti dopo, alcuni cavalieri giungevano a briglia sciolta, gridando:

— All’armi! I larghi coltelli dell’ovest!

Nel campo vi erano trecentocinquanta guerrieri fra Sioux e Corvi, e altri centocinquanta fra donne e fanciulli.

In un lampo le pelli-rosse si appostarono dietro ai carri e dietro ai loro mustani, pronti a montare in sella e tentare una carica furiosa.

Gli esploratori si ripiegavano gli uni dopo gli altri, galoppando sfrenatamente. Il grido si ripeteva:

— All’armi! I larghi coltelli dell’ovest!

Nube Rossa era stato uno dei primi a lasciare il wigwam, armato della sua vecchia carabina e della sua ascia di guerra.

Minehaha l’aveva subito seguìto.

— Mi ero ingannato io? — le chiese digrignando i denti. — Eppure sono un Corvo e non un Sioux.

— Sì, tu non ti sei ingannato — rispose la sakem. — Che cosa fare adesso?

— Tu hai detto stamane che io avevo paura della morte.

Ora ti mostrerò come sanno cadere i Corvi.

— Ed io ti mostrerò, padre, — rispose orgogliosamente Minehaha — come sanno morire le Selve Ardenti, che un giorno si chiamavano Sioux.

Vedremo chi caricherà meglio. —

Intanto nella tenda dei prigionieri si svolgeva una rapida scena.

Avendo ancora le mani libere, con un tizzone tuttora fumante avevano bruciati i lazos che legavano loro le gambe, poi tutti e quattro si erano cacciati sotto le vecchie pelli di bisonte, col viso contro terra.

Alcuni colpi di fucile rimbombarono. Il generale americano Farsythe, alla testa del settimo Reggimento di cavalleria delle frontiere col colonnello Whiteside, giungeva a corsa sfrenata per impedire la ritirata alle Selve Ardenti, che da più d’un mese inseguiva ostinatamente senza essere mai riuscito a raggiungerle.

Gl’indiani dopo pochi colpi di arme da fuoco si erano radunati intorno alle tende di Piede Grosso e di Nube Rossa, ritirando i loro mustani.

Il colonnello Whiteside si avanzò verso l’accampamento con sessanta uomini al comando del capitano Wallace.

Fu intimata subito la consegna delle armi. Le Selve Ardenti non ne diedero che due.

Il colonnello, irritato, diede ordine ai suoi uomini di mettere piedi a terra e di perquisire le tende.

Altri sessanta fucili caddero nelle mani del capitano che conduceva i suoi uomini, e non era entrato che in pochissime tende, temendo alle sue spalle una sorpresa.

Gl’indiani avevano lasciato fare. Seduti intorno alle due tende nel centro dell’accampamento, un po’ nascosti dallo loro coperte, avevano intonato un canto, il canto della morte dei grandi guerrieri.

Ma tutto ad un tratto, gettate all’aria le coperte, si scagliarono furiosamente contro il plotone, armati di winchesters, di asce da guerra e di coltelli da scalp.

Il capitano e tutti i suoi uomini caddero gli uni sugli altri, e furono scotennati sotto gli occhi del Reggimento.

Allora il generale Farsythe, disperando di domarli, ordinò una carica furiosa e fece mettere in batteria quattro mitragliatrici Gattling, coprendo il campo di proiettili.

La cavalleria intanto caricava intorno al campo per impedire la fuga alle pelli-rosse, facendo un grande spreco di colpi di rivoltella. Piede Grosso, udendo tutto quel fracasso, con uno sforzo supremo si era alzato, aveva impugnato il suo winchester ed era comparso sulla soglia della tenda, gridando ai suoi guerrieri:

— Uccidete! Uccidete! Scotennate i maledetti figli del Gran Padre bianco. —

Si preparava, a sparare, quando cadde fulminato da una scarica delle mitragliatrici.

Una confusione orribile regnava nell’accampamento spazzato senza posa da nembi di proiettili.

Le donne ed i fanciulli spaventati si erano slanciati fuori delle tende urlando disperatamente, e cadevano a dozzine.

I guerrieri, stretti intorno a Nube Rossa ed a Minehaha, resistevano ferocemente, bruciando le loro cartucce.

Ma le Gattling non dovevano tardare ad aver ragione. Le pelli-rosse cadevano a gruppi insieme alle loro famiglie e gli americani, come sempre, massacravano con inaudita brutalità.

Per mezz’ora quei disgraziati si dibatterono sotto un vero uragano di fuoco.

Tutte le donne e tutti i fanciulli erano caduti insieme con dugentodieci guerrieri.

Rimaneva ancora un gruppo formato da Nube Rossa, da Minehaha e da poche dozzine di combattenti, per la maggior parte feriti.

― A cavallo! — gridò il vecchio Corvo, dominando colla sua voce potente il crepitare delle mitragliatrici.

Poi, volgendosi a Minehaha che continuava a sparare il suo piccolo winchester con una calma meravigliosa e senza affrettarsi, le disse:

— Vuoi seguirmi?

— Sì, padre, — rispose la sakem.

Erano rimasti ancora vivi, dietro le due altissime tende sulle quali sventolavano i totem delle tribù tutti foracchiati dalle palle, parecchie dozzine di mustani.

Molti altri invece rantolavano, e si dibattevano disperatamente sferrando calci ai combattenti che erano caduti presso di loro.

Nube Rossa, Minehaha e sessantatrè guerrieri, tutti quelli che ancora restavano, si slanciarono sui cavalli, formarono rapidamente due linee e partirono a gran galoppo attraverso l’accampamento.

La cavalleria americana continuava la sua corsa circolare sempre sparando e urlando.

Nube Rossa, che comandava la carica impugnando il tomahawk, sfondò con impeto irresistibile il Reggimento, che aveva dovuto molto assottigliarsi per la vastità del campo.

— Mano alle sciabole! — gridò allora il colonnello Whiteside.

Era troppo tardi. Le due colonne indiane avevano ormai forzato il cerchio di ferro a gran colpi d’ascia.

Parecchi guerrieri erano caduti, ma i più, con Nube Rossa e Minehaha, erano riusciti ad allontanarsi.

Avendo essi i mustani ben riposati, mentre gli americani li avevano ormai spossati completamente, in pochi minuti furono fuori di portata dalle armi da fuoco ed anche liberi da un inseguimento.

Cinque minuti dopo le ultime Selve Ardenti scomparivano verso il settentrione in mezzo ad un turbine di nevischio.


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