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L'amante sciocca - I L'amante sciocca - III

II.

L’improvviso e soggiogante amore di Paolo Spada per Adele Cima aveva preteso che ella venisse ad abitare con lui nella casa di San Sebastianello. La resistenza della donna era stata debole e vaga: l’amante con facilità le aveva dimostrato che essendo ella libera e sola, nulla di meglio le restava a fare che unirsi a lui.

— Io ti darò grande noia: tu sei abituato alla solitudine — aveva ella opposto, timidamente, due o tre volte.

— Tu sei incapace di annoiarmi, cara — aveva sempre risposto lui, con quella tenerezza indulgente che era la nota principale del suo amore per Adele.

Ella era rimasta interdetta e pensosa, come se cercasse una idea, ancora oscura nella sua mente, e, forse, la forma per esprimerla. Finalmente, alle reiterate richieste dell’amante, perchè si decidesse a venire da lui, definitivamente, ella ebbe il coraggio di dire questo:

— E se tu, un giorno, non mi ami più?

— Io? Ti amerò sempre, diletta. Capisci che non vi è una ragione al mondo, perchè io finisca di amarti.

— Pure.... se non mi ami più? — aveva ella replicato, incapace di entrare in nessuna delle sottigliezze, talvolta crudeli, del suo amante.

— Non è possibile. Se accadesse.... rimarremmo egualmente insieme....

— Come?

— I mariti e le mogli non ci restano, forse, anche quando non si amano più?

Adele tacque: ma non era convinta. Con una espressione di rammarico, soggiunse:

— Senza l’amore, non ci vorrei restare.

Ma queste brevi e innocue discussioni non potevano portare che a un sol risultato: alla vittoria della volontà di Paolo Spada su quella di Adele Cima. Ella lo amava profondamente, in una forma tutta rudimentale, cioè cieca e assoluta. Venne a stare con lui. L’artistico quartierino non fu guastato in nulla, giacchè vi furono unite altre due stanze, accanto, che erano disponibili e dove Adele Cima trasportò i suoi semplici mobili. Un tappeto di Smirne messo innanzi a una porta della camera di Paolo, nascondeva la comunicazione tra il quartierino e le due stanze di Adele, tanto che per molto tempo, tutte le visite di Paolo Spada, amici, ammiratori, seccatori, ignorarono l’esistenza della donnina dai morbidi e lunghi capelli castani, dai grandi occhi lionati, così sempre pieni di meraviglia. Appena ella udiva il campanello, diventava inquieta. Invano Paolo cercava di trattenerla: se un passo si avanzava, indicando che la persona era stata ammessa dal cameriere, ella si levava, spariva dietro il tappeto, senza far rumore, come un’ombra. Gli amici di Paolo Spada le davano una soggezione grande. Dalla sua stanza, involontariamente, poichè ella si sarebbe vergognata di origliare, ella udiva elevarsi il tono della conversazione, molto forte: le dispute si accendevano da un minuto all’altro, ed ella, non intendendone nè la causa nè lo scopo, non udendone bene le parole che non arrivavano precise sino a lei, finiva per avere una paura orribile di queste liti, di questi scoppii di voce, di questi urli. Poco a poco esse si chetavano: le voci si facevano più fioche: tacevano: passava un tempo di silenzio. Timidamente, ella sollevava il tappeto, faceva capolino: o Paolo Spada era uscito e la casa era deserta: o lo trovava sdraiato sopra un divano, sprofondato in quei trenta o quaranta piccoli cuscini di raso ripieni di piume, che gli formavano un letto di riposo, fumando una sigaretta, a occhi socchiusi, tranquillissimo:

— Che avevate, a gridar tanto?

— Parlavamo d’arte.

— Ah! e si grida così?

— Così, cara.

Del resto, quando non vi era nessuno, Adele Cima stava sempre accanto a Paolo Spada. Essi pranzavano assieme; un cuoco mandava loro il cibo, da fuori, giacchè Paolo Spada odiava l’odore della cucina, in casa; il cameriere li serviva a tavola. Questo pranzo fatto di pietanze cucinate alla francese, sempre un po’ fredde, un po’ monotone nella loro voluta bizzarria, servite in fretta e in silenzio, nella piccola stanza da pranzo, sotto il chiarore azzurrino, come acquitrinoso, di una gran lampada sospesa e coperta di uno strano paralume, era una delle cose che più spostava i gusti e i costumi di Adele Cima. Tutte quelle conserve, quelle mostarde di gusto inglese che Paolo Spada sovrapponeva alla cucina francese, finivano di stordirla nelle sue quietissime inclinazioni culinarie. Per far piacere al suo amante, ella gustava di tutto, con un certo coraggio, giacchè molte di quelle cose non le piacevano punto: e sorrideva a lui, con quel luminoso sorriso dove ella trasfondeva tutta la sua adorazione per Paolo. A furia di dominarsi, ella aveva quasi finito per amare il fegato d’oca di Strasburgo, e per tollerare il caviale: ma non le riesciva di sopportare il roseo salmone, di cui egli era così ghiotto, pranzando solo con quello, talvolta, e con una tazza di tè. Egli capiva perfettamente lo stordimento di Adele, e ne godeva, e ogni volta che l’amore compiva un’altra di queste sorprese e un altro di questi miracoli, egli aveva un senso di trionfo nel suo animo. Non solo egli era riconoscente ad Adele Cima, che essendo una povera cara scema, cercava di seguirlo in tutte le naturali anomalie della vita delle persone di talento, ma le era anche grato che, malgrado lo stupore, malgrado l’impressione cattiva, ella restasse quel che era, così tenera, così adorabile nella sua adorazione per lui. Egli pensava:

— Ella non ama questa cosa: ama me, però: e per questo si sforza di amare la cosa che odia; forse, non ci riesce: ma a me, che importa? Vedo il risultato, io. Essa mi adora e divorerebbe i carboni ardenti, per me.

Uscivano insieme, sempre. Ella avrebbe preferito di andare per il Corso: anzi, ella trovava via Nazionale la più bella delle vie. Viceversa, egli era un appassionato, come tutte le anime artistiche, dell’antica Roma e più della sua solenne e poetica campagna romana. Egli non si stancava mai di ritornarvi, sebbene da anni ed anni vi andasse, figliuolo devoto dell’augusta città, ma più delle sue vaste solitudini. Colà, egli più si raccoglieva e pensava. Quelle estensioni di terra brunastra, qua e là appena appena sparse di qualche striscia di erba, quelle ondulazioni singolari del terreno, come per sommovimento tellurico, quelle alte barriere che dividono, non si sa perchè, quei campi infecondi, l’uno dall’altro, quelle rive cretose che discendono al fiume giallo, inclinandovi i neri bracci stecchiti dei salici, erano il miglior orizzonte per il suo gran sogno di arte e di poesia. E, amando Adele Cima, volendola insieme, sempre, come emblema di amore e di pace, come compagnia di equilibrio e di serenità, egli la conduceva seco, spiegandole benignamente tutta la grandiosità e la bellezza di quel paesaggio, che non rassomiglia a nessun altro. Ella lo ascoltava, incantata dal suono di quella voce così toccante nella sottile velatura che la rendeva un po’ roca, incantata da quella luce di entusiasmo che rendeva più seducenti i bellissimi occhi di Paolo Spada, incantata dall’armonia di quello che egli diceva: e chinava il capo, assentendo, diceva un monosillabo, stringendo la mano del suo amante. In verità, quella campagna romana la sgomentava; quella solitudine, quella sterilità, quel gran fiume torbido, quei neri carri di pozzolana su cui passavano lunghi distesi, sonnecchiando, pipando, fischiando lugubremente, talvolta, i carrettieri, le opprimeva i nervi. Però, piaceva a Paolo: ciò bastava. Lo seguiva, docilmente, ogni giorno, in queste passeggiate: anche quando il tempo era bigio, plumbeo e il gran cielo così tragicamente si abbassava sulla campagna: ogni tanto egli esclamava:

— Guarda, Adele, quanto è bello....

— Bellissimo — rispondeva lei, subito.

Viceversa, il suo cuore era pieno di tristezza, per quell’ambiente. Fra le altre cose, ella temeva per Paolo e anche per lei, di prendere la febbre in quei giorni di autunno, in quelle ore crepuscolari. Ella che non aveva l’abitudine di fumare, gli chiedeva una sigaretta. Le avevano detto che la sigaretta è eccellente, contro l’infezione della febbre romana:

— Tu fumi, cara?

— Sì, sì — diceva lei, con un pallido sorriso.

Ma presto la sigaretta, spenta, le cadeva dalle dita. Ella si stringeva nel suo mantello. Aveva i piedi gelati e non osava mai portare un plaid, per non dare fastidio a Paolo. Costui, assorto, taceva. Giacchè, nella consuetudine che aveva dapprima di andar solo nella campagna romana e nel gran fascino che quell’ambiente esercitava su lui, egli si dimenticava di avere accanto Adele Cima e lasciava trascorrere il tempo, nel più profondo silenzio. Il cocchiere seguitava a far trottare il cavallo, pigramente: la carrozza andava, andava, lontano, punto nero sopra la via giallastra; e Adele, obbliata, era presa da una voglia irresistibile di piangere. Allora, quando non ne poteva più, si voltava a Paolo, lo guardava coi suoi belli occhi grandi, sorpresi e un po’ supplici. Egli la guardava, ma non aveva l’aria di vederla. Ella lo chiamava, piano:

— Paolo....

— Che vuoi?

— Dimmi qualche cosa.

— Che cosa?

E la voce sua era così strana, come di un dormiente che sogna, una voce di persona lontana, una voce di anima distaccata dal minuto presente, dallo spazio presente. Adele trasaliva:

— Mi ami, Paolo? — gli chiedeva, per il bisogno di parlare, di sottrarsi all’incubo dell’ambiente.

— Ti adoro — rispondeva lui, con un tono di maggior sonnambulismo.

Poi, un silenzio. La carrozza andava sempre.

— Torniamo, Paolo?

— Ancora un po’.

— È tardi, amore....

— Non è tardi.

Ma spesso, queste interruzioni dei suoi pensieri, dei suoi sogni lo turbavano molto.... Senza durezza, poichè egli amava Adele, le diceva:

— Taci: lasciami pensare.

— A che pensi, amore?

— Penso; lasciami stare.

— Dimmi a che....

— È inutile che tu lo sappia — rispondeva, inasprito, a un tratto.

Ella aveva pianto, la prima volta che le parlò così; ma, peggio, egli non si era accorto di quel pianto. Da allora, si era rassegnata a subire tutte le interminabili e tristi passeggiate nella campagna romana, senza parlare che quando lui la interrogava. Moriva di freddo e di tristezza, ma soffriva tutto questo per amore di Paolo. Quando rientravano in città, man mano, si veniva riscaldando: Paolo esciva dal suo silenzio. Ella sorrideva, di nuovo: e un’altra prova era passata.

D’altronde, a questi profondi assorbimenti di Paolo ella doveva cercare di assuefarsi, poichè, in casa, lo coglievano spesso. Loquacissimo e beffardo, insieme, ma graziosamente beffardo, egli cadeva, ad un tratto, in una mestizia taciturna che scombussolava, subito, tutto l’umore sereno e dolce di Adele Cima. Sdraiato, con la sigaretta spenta fra le dita, immerso in quei molli cuscini che erano così cari alle sue ore di riposo e di malinconia, Paolo Spada aveva l’aspetto immobile e triste, l’aria disfatta e triste, gli occhi socchiusi lasciavano errare uno sguardo vago e triste. Subito, Adele gli chiedeva:

— Hai sonno?

— No.

— Sei stanco?

— Sì.

— Di che sei stanco? Non sei uscito.

— Sono stanco — mormorava lui, con quella sua voce lontana.

Ella faceva trascorrere un po’ di tempo in silenzio. Indi ritornava a lui:

— Ti senti male?

— No.

— Vuoi qualche cosa?

— No.

— Debbo andarmene?

— Resta pure: ma taci.

Adele chinava gli occhi per non piangere. Le riesciva impossibile d’intendere la causa della tristezza di Paolo Spada, sfuggendole assolutamente tutto il lavorio dell’anima di costui. Ella non vedeva che l’immobilità, il pallore, la taciturnità; ella non capiva, che la risposta indifferente, o quella dura, nella loro durezza esteriore: ella intravedeva un mistero superiore dello spirito, arcano, avvolto in tali veli che giammai la sua piccola mente avrebbe potuto sollevare, e una pena acuta, intimissima, nascosta con gelosa cura la torturava, senza che ella volesse mai esprimerla, o trovasse mai parole per narrarla. Andava a prendere un suo lavoro all’uncinetto, una di quelle interminabili coltri a rosoni, bianche, e seduta in una poltroncina, lavorava nel più grande silenzio. Talvolta, la stanchezza la sorprendeva. Ella sonnecchiava. Il capo le si abbassava sul petto.

— Tu dormi? — le dicea lui.

— No, non dormo — rispondeva lei, trasalendo, scuotendosi.

— Poverina, ti annoio.

— Non mi annoi.

— Le mie ore d’inchiostro sono così odiose!

— Nulla di te, è odioso — ella replicava, a bassa voce.

Ma questa frase ore d’inchiostro le faceva l’effetto di un gran buco nero nero, dove precipitassero Paolo Spada e l’amor suo, donde ella non potesse cavar più fuori nè l’amante, nè l’amore. Giacchè la paura più umile, più comune, che la teneva sempre, che la tormentava in segreto, era che Paolo Spada l’amasse poco, o non l’amasse punto. Non sapeva, ella, per quale paese dei sogni egli partisse, in queste sue ore tetre; neppur supponeva che vi fosse un immenso, interminabile, infinito paese dei sogni dove se ne vanno le anime dei poeti, degli artisti, dei sognatori: ma intuiva, così, semplicemente che Paolo Spada era ben lontano, lontano da lei e dal suo amore in quei momenti, e che quel corpo, abbandonato fra i cuscini, quel volto smorto e chiuso non avevano nè sentimento, nè volontà. Ella lo adorava con tutto il suo piccolo e serio cuore, con la sua piccola e limitata mente, e oltre l’amore, per natura, per temperamento, per carattere, non poteva vedere. Beninteso che, sempre, Paolo Spada usciva da una di quelle crisi di tetraggine, per gittarsi in impeti di folle gaiezza. Allora egli colmava la sua amante di liete carezze, di adorazioni gioconde e quasi infantili: la obbligava ad entrare nei magazzini di mode, dove le comperava pazzamente delle cose che non le servivano punto; la costringeva a seguirlo nelle grandi trattorie dove ordinava dei pranzi squisiti, sostenuti da vini generosi: la conduceva ai teatri, nelle grandi serate: e, sovra tutto, parlava con lei, rideva con lei, la corteggiava gaiamente, divertendosi di tutte le inveterate timidità della donna, delle sue ritrosie, del suo terrore del pubblico. Dappertutto, ella andava a malincuore, poichè ella preferiva, infine, la loro casa, in cui sempre l’ambiente la sconvolgeva, ma dove, almeno erano soli. Adesso, a poco a poco Paolo Spada la veniva presentando ai suoi amici, senz’altro nome che questo: la mia Adele, e al primo movimento di consolazione e di orgoglio che questo nome le produceva, detto così, da lui, ne subentrava uno di malinconia, sentendosi ricacciata nell’anonimo, senza personalità, più, come una povera cosa appartenente a lui, come gli apparteneva un bastone o un fazzoletto. Questi amici di Paolo Spada erano così singolari, anche essi! Le parevano tutti affetti da una leggiera o più grave pazzia, manifestantesi nei modi o familiari troppo, o fittiziamente freddi, nelle voci bizzarre che pronunziavano parole anche più bizzarre. Nelle loro conversazioni che ella si ostinava a voler intendere, ella non afferrava che le prime frasi, e subito la sua mente si confondeva in quei paradossi sull’amore, sull’arte, sulla vita, e non ci si raccapezzava più. Nei caffè, per le vie, le discussioni si prolungavano, accanite, rinascenti, giranti intorno all’argomento, col ritorno di certi nomi, di certe frasi, di certi intercalari; ella ascoltava, fingendo l’attenzione, ma senza capire più nulla. Talvolta, queste discussioni erano nelle vie, di sera: Paolo Spada e qualche suo amico andavano lentamente, fermandosi ogni tanto, accalorati, ardenti, e Adele Cima imitava il loro passo, si fermava con loro, sempre taciturna, levando ogni tanto il suo bel volto bianco e sorpreso verso Paolo, quasi a pregarlo di finire, di rientrare. Ma egli non vedeva lo sguardo timido e pregante dei bei grandi occhi limpidi e semplici, e la disputa si prolungava, mentre ella cadeva dall’oppressione in un sonno, per cui andava a casa come una sonnambula. Una notte, così, girarono per due o tre ore, intorno a piazza Navona, Paolo Spada e Massimo Dias, slanciati in una feroce discussione sull’Ariosto ed ella, alla fine, mezza morta, non osando dire nulla, si lasciò cadere a sedere sullo scalino, presso la fontana. Fu allora che egli si decise a metterla in carrozza ed a portarla a casa, invaso da una improvvisa pietà che lo rese dolcissimo e amorosissimo verso la donna.

Questi amici di Paolo Spada la trattavano anche singolarmente. Alcuni la salutavano correttamente, ma non le dirigevano la parola; altri le indirizzavano delle frasi galanti in istile letterario; altri la riguardavano come un camerata e usavano familiarmente con lei, a grosse strette di mano, chiamandola Adele. Con quella intuizione delle persone semplicissime, ella sentiva che sotto la correttezza di alcuni si nascondeva il disprezzo; le galanterie in frasi fiorite la imbarazzavano e la facevano arrossire; le familiarità la turbavano. Qualche volta, malgrado la sua timidità, aveva sorpreso qualche parola che suonava caricatura per lei e certi sorrisi le sembravano dubbi. Ne aveva parlato a Paolo Spada:

— I tuoi amici mi ritengono per una stupida.

— No, cara.

— Credilo, è così.

— Da che te ne accorgi? Saresti diventata furba, per caso?

— Non lo so: ma per loro, sono un’oca.

— Per loro, come per me, sei una bella, buona, cara donnina, ecco tutto. Vuoi dei complimenti, a quanto pare.

— Se sono un’oca per te, non voglio essere un’oca per gli altri — ella soggiungeva, assai più triste, convinta che Paolo Spada si vantasse della sua ocaggine.

— O cara ochetta sentimentale e mesta, cara piccola oca bianca e malinconica, finirai per rassomigliare a un cigno — diceva lui, con la sua voce sonora e pure velata che la seduceva, toccandone le fibre più recondite del cuore.

Avrebbe ella, forse, voluto allontanarlo da queste conversazioni, da queste dispute con questi amici dagli occhi stralunati, dalle ciere malaticcie, che fumavano la pipa, talvolta, o che erano in una perfetta tenuta da gentiluomo, in marsina, con la pelliccia aperta, col fiore all’occhiello, ma che avevano egualmente la ciera morbosa e gli occhi sognanti, quasi allucinati. Ma era un desiderio, niente altro: ella era fatta per seguire Paolo Spada in ogni suo vagabondaggio e per obbedirgli in ogni suo capriccio. Gli faceva qualche obbiezione, soltanto:

— Ti diverti tanto, in compagnia di Massimo Dias, di D’Arcello, di Lamberti?

— Non mi diverto punto.

— E allora, perchè li cerchi tanto?

— Mi sono necessarii.

— Oh!

— Le dispute riscaldano il sangue ed eccitano i nervi....

— E fan male alla salute.

— Del corpo, forse. Viceversa, fanno bene alla salute dell’anima, che è la sola interessante.

— La salute dell’anima? La vita eterna, cioè?

— No, cara — concludeva lui, con quel sorriso d’indulgente amore che gli spuntava sulle labbra, quando ella diceva una sciocchezza.

Bensì arrivava il tempo in cui Paolo Spada abbandonava lui gli amici, non uscendo, chiudendo la sua porta, vivendo in casa per intiere settimane, fra le sigarette, il caffè e il lavoro. Questi furori di prosa e di poesia lo assalivano improvvisamente, dopo una gita nei dintorni, dopo la lettura di un libro, dopo aver ritrovato un vecchio pacchetto di lettere, ed egli si dava tutto a quel lavoro della composizione d’arte e della successiva scrittura, sommergendosi negli abissi della creazione e della forma, come chi da un altissimo picco si getta nel mare. Non conosceva più, Paolo Spada, in quelle sommersioni, nè misura di tempo e di spazio, nè fatti o circostanze, nè necessità o capricci, egli dimenticava l’ora del sonno come quella dei pasti, egli volentieri restava, in pieno meriggio, con le imposte sbarrate e la lampada accesa; inchiodato nel suo seggiolone di cuoio, chino sulla carta, levando ogni tanto, da essa, un par d’occhi nuotanti nelle visioni, o passeggiante per la stanza da studio, rapidamente, da un capo all’altro, a testa china, o leggendo ad alta voce, anzi declamando dei versi o della prosa, gettandosi, talvolta, da una sedia a una poltrona, ritornando al seggiolone, e, talvolta, cedendo al sonno, sul gran tavolino da scrivere, con la testa sulle braccia, come un fanciullo. L’amore? sparito, morto. L’artista si trovava nel gran tumulto interno che sconvolge ogni altro affetto e che trasporta nelle ansie e nelle ebbrezze della concezione e della procreazione d’arte, la febbre che lo ardeva aveva invaso e incendiato tutto il suo sangue, e le sue fantasime d’arte erano più vive, innanzi agli occhi della sua fantasia, più belle, più vive, più desiderate, più amate della vivente Adele Cima, che gli sembrava un’ombra vana e fredda.

Ella si rendeva un’ombra. Girava intorno a Paolo Spada con un passo così lieve che non si udiva, non urtava un oggetto, non faceva stridere una chiave, spariva dalle porte come se si dileguasse nell’aria. Così ella faceva, un tempo, quando aveva assistito sua madre gravemente inferma: le pareva di essere presso un malato, tanto lo stato fisico e morale di Paolo Spada le sembrava scombussolato, tumultuario, perduto ogni senso di realtà. Obbediente come un bimbo buono, ella lo aspettava con pazienza alle ore dei pasti, non andava a letto, talvolta, che tardissimo, vegliando accanto a lui, leggendo un libro qualunque il cui senso le sfuggiva, o dicendo il suo rosario, o stando immobile, oramai abituata a questa vita di statua. Lui, che giammai aveva potuto lavorare con una persona presente nella stanza o anche nella casa, tollerava perfettamente quella di Adele Cima, tanto ella si rendeva piccola, minuta, inesistente. Anzi, la voleva presso a lui. Era come un mobile che si ama, su cui si posano gli occhi volentieri e le cui linee corrispondono a non so quale bisogno estetico interiore. Talvolta, in un brevissimo, lucido intervallo, era vinto dalla compassione:

— Va a letto, cara.

— No, ti aspetto.

— Io ho molto da scrivere, va, va.

— Che importa? aspetto.

— Creperai di noia e di sonno.

— No, niente. Aspetto. Tu hai molto da scrivere?

— Moltissimo: enormemente.

— Non importa, non importa.

Di amore, in lui, non un atto, non una parola. Questo ella vedeva bene, e un morso le afferrava il cuore. La febbre del lavoro e di quel lavoro la colpiva solo per i suoi fenomeni morbosi; ella non ne comprendeva nè la purissima fiamma, nè il nobile tormento, nè l’ebbrezza del travaglio. Non si spiegava perchè un uomo giovane, sano e bello, amato, amante come Paolo Spada si desse a quella passione singolare che ne consumava i giorni, la salute, la beltà, che lo toglieva, sovra tutto, all’amore. Ah questo, questo, ella non se lo spiegava ed era il suo cruccio più intimo e più costante! Nel suo giudizio stretto e poetico della vita, le pareva che un’altra donna le potesse togliere Paolo Spada, ma non già un foglio di carta bianca e una penna intinta nell’inchiostro. Che egli scordasse i suoi baci, le sue carezze, il suo amore così saldo e così affascinante nella semplicità, per restare i giorni e le notti nella sua stanza di studio scrivendo, lacerando carte, riscrivendo, passando la penna a grandi colpi sulle linee scritte, per cassarle, leggendo, declamando, fumando, bevendo caffè, senza sole, senza luce, senz’amore, proprio, senz’amore, le sembrava una cosa tanto folle, tanto ingiusta e tanto crudele che, spesso, sparendo nella sua povera cameretta, se ne andava a piangere in un cantuccio, solitariamente. Per lei l’amore era la sola passione, la sola occupazione, il solo pensiero e il solo affare, e tutto questo, molto semplicemente, in vero temperamento muliebre nato per il ristretto campo dell’amore. Giammai, in queste sue ore di desolazione, ella trovava un pensiero contro l’egoismo artistico di Paolo Spada, giammai ella si pentiva di essersi data a lui, di esser venuta a vivere con lui, ma si sentiva ed era una creatura perfettamente infelice.

Quando era stata lungamente assente, egli la chiamava. Ella si lavava in fretta gli occhi, riappariva, quasi sorridente ed egli non vedeva punto il rossore delle palpebre.

— Perchè te ne vai, Adele?

— Ti disturbo, forse.

— Non mi disturbi. Non ti vedo neppure.

— E allora, perchè mi vuoi?

— Così, per consuetudine.

Ella crollava il capo, mentre si faceva pallidissima. Paolo Spada non se ne accorgeva. Nell’orgoglio fugace dei momenti di creazione, le diceva, esaltatamente:

— Sai? Sto scrivendo un capolavoro.

— Lo credo, Paolo.

Ma non gli chiedeva che fosse. Temeva di dire una stupidaggine, chiedendo.

— È una novella, una lunga novella: ma un capolavoro. Si chiama: il vincitore della morte. Ti piace il titolo?

— Sì, mi piace.

— Veramente, ti piace? Di’ la verità.

— Mi piace moltissimo.

— Ora te ne leggo un pezzo. Ti secchi?

— No, amore, no.

Egli dava di piglio alle molte cartelle dove scriveva col suo carattere lungo e sottile, e con voce tremante, mentre le dita che tenevano il manoscritto tremavano, egli cominciava la lettura. La voce si facea più ferma e ondeggiava nei periodi che si legavano l’uno all’altro, e si abbassava mollemente, s’innalzava violenta. Attentissima, ella non batteva palpebra. Pure, quest’attenzione non gli bastava:

— Tu, non mi ascolti?

— T’ascolto.

— Hai l’aria distratta.

— Non è così. Leggi.

Paolo riprendeva la lettura. Si arrestava, per vedere se sul volto di Adele Cima passasse qualche impressione: e la vedea mutar di colore. In verità, era quella voce dell’amante, quella esaltazione, il rombo della lettura, che la commovevano.

— Ti piace? Ti piace?

— Moltissimo.

— Dici sul serio?

— Sul serio.

— Non già perchè mi vuoi bene?

— Non so: mi piace.

Egli finiva la lettura, entusiasmato.

— Ti piace?

— È bellissimo.

— Sì, credo di aver fatto una cosa buona — diceva lui, già un po’ smontato.

— Quante cartelle ne hai scritte? — domandava Adele, dando un’occhiata obbliqua al manoscritto.

— Sessantacinque.

— E quante altre te ne restano?

— Centocinquanta, più, forse.

— Ah!

Si voltava in là, per non fargli osservare il suo viso, dove la pena che questa febbre ancora molto, troppo durasse, si dipingeva. L’indomani, lo trovava tetro e disfatto.

— Ho scritto delle corbellerie ignobili — le dichiarava lui.

— Come? Non ti sembravano un capolavoro?

— Mi sembravano. Ero esaltato. Sono corbellerie.

— A me piacevano.

— Naturalmente.

— Paolo! — era la sola rimostranza dolorosa.

— Mia cara, che vuoi capire tu? Quando piace a te, è segnale di ignobile corbelleria.

— E allora, perchè leggi a me?

— Così, per sfogare: niente altro.

— Perchè mi domandi il giudizio?

— Perchè gli scrittori sono delle bestie inconcludenti, deboli e vigliacche — esclamava lui, nella brutalità delle giornate di abbattimento.

— Non dire questo, Paolo.

— Taci, Adele. Vattene.

Ebbene, ella si accorgeva che negli accasciamenti della sua febbre d’arte, in quegli accasciamenti in cui tutti i mortali chiedono soccorso di tenerezza, ella non poteva consolarlo. Sensibilissima sentimentalmente, ella misurava col cuore timido e trepido questa sua impotenza e la esagerava. Quel male ignoto e quel dolore ignoto traevano origine da radici di profonde e sconosciute infermità morali e forse fisiche: ella poteva bene piegare il volto su quell’ombra, il suo inesperto sguardo nulla vi potea mai distinguere. Adele si ritraeva, con un senso vivo di umiliazione sempre rinnovantesi e che le aveva omai aperto nell’anima una fine ferita sempre sanguinante e sempre frizzante. Il silenzio era il suo rifugio, dove naturalmente, le più semplici e anche le più tormentose supposizioni la facean dubitare di sè stessa, di Paolo Spada, dell’amore. Forse, egli era stanco di lei e non glielo diceva per gentilezza d’animo; forse, questo suo amore che era niente altro che amore, offerto con tanto abbandono, ma con tanta monotonia, aveva già nauseato Paolo; forse egli pensava a quelle sue donne così raffinate, così squisite, che lo amavano in una forma complicata e straordinaria, che gli scrivevano quei pacchi di lettere da lui conservate preziosamente, da lui spesso rilette, spesso giacenti in confusione sul tavolino da scrivere — talvolta, egli si serviva di quei documenti per la sua storia d’amore — mentre ella non aveva mai osato di scrivergli un biglietto, temendo di commettere degli errori di grammatica e di ortografia; forse, egli già ne aveva trovata un’altra.... ella era così sciocca, così infelicemente sciocca! Con cura, ella nascondeva i suoi sospetti, per non torturarlo, giacchè ella gli risparmiava, amorosamente, qualunque puntura; ma, senza volerlo, trapelavano.

— Anche oggi, sei così triste, Paolo?

— Anche oggi.

— Ma a che pensi?

— Mi è impossibile di narrartelo: è troppo lungo.

— Dimmi, almeno, a chi pensi?

— A chi? A nessuno, cara.

— A nessuno, proprio? A nessuna donna?

— .... No. Che pensi?

— Nulla, m’immagino. Credevo.... perdonami. Non sei stanco di me?

— No, non ancora.

— Dimmelo, quando sei stanco.

— Te lo dirò, non dubitare.

Ognuna delle risposte di Paolo Spada la meravigliava e la faceva soffrire. Lo credea sincero. Non amava un’altra donna: non era stanco di lei: ella gli piaceva ancora. Ma dunque era proprio per questo terribile lavoro dello scrivere, che il suo amante l’abbandonava, si dimenticava di lei come se non esistesse, la guardava in volto trasognato come se non l’avesse mai vista, non le prendeva una mano, non la baciava? Così sono, dunque, questi uomini che scrivono? E quest’arte, questa parola che ella udiva ripetere continuamente, senza intenderla, quest’arte pronunziata ora enfaticamente, ora a bassa voce in tono pauroso, quest’arte le cui quattro lettere escivano, pronunziate dalla bocca di Paolo Spada, con un ardor amoroso meglio di qualunque amorosa parola, ella aveva finito per odiarla in silenzio, con tutta la muta ribellione del suo cuore. Non era una donna l’arte, nè aveva i capelli neri, biondi o rossi, diversi dai suoi; non era una persona slanciata dagli occhi grandi e bruni e scintillanti, mentre i suoi erano limpidi e tranquilli e la sua persona era piccola e graziosa; non era una donna intelligente e sapiente, mentre ella era una povera buona, ignorante: eppure Adele era gelosa di quest’arte e la detestava, con tutto il cuore, come se fosse una creatura viva. A poco a poco i libri, le carte, il calamaio, l’inchiostro e la penna, e tutto quello che è il corredo di chi scrive, le cominciarono a fare orrore: e gli accessi di lavoro feroce, o gli assorbimenti lunghi in vaghe contemplazioni di Paolo Spada, le davano l’impressione d’una sua sciagura personale, sempre respinta e sempre ricadente sul suo cuore. Un giorno, quasi fosse presa da una curiosità puerile, gli domandò:

— Come ti è venuto in mente, di scrivere?

— A me? Non me ne ricordo.

— Ma infine, hai dovuto cominciare?

— Sì, ho cominciato.... non potevo far di meno di cominciare.

— Perchè?

— Era il destino, cara.

— Non hai mai pensato a fare un’altra professione?

— Mai. Non avrei saputo farla.

— Tu sai far tutto. Perchè non hai tentato?

— E perchè dovevo tentare? — gli disse lui, un po’ meravigliato.

— Così.... per fare quel che fanno tutti gli altri — diss’ella, penosamente.

Egli intese qualche cosa:

— Ti piacerebbe, eh, che io fossi un medico? O un impiegato? O un ufficiale di cavalleria? — e una lieve ironia era nella sua voce.

Ella impallidì e arrossì. Subito, negò tutto:

— Mi piaci come sei, Paolo.

— Ma saresti più felice con un medico, m’immagino: felicissima, con un ufficiale di cavalleria: arcifelicissima, con un impiegato, Adele.

— No, no, no — esclamò lei, disperatamente — non posso esser felice che con te. — Temo.... temo che tu sia infelice.... sono così incapace di capirti....

— Non vi è bisogno, che tu mi capisca — soggiunse lui — nessuna donna capisce mai un uomo e viceversa. Io sono perfettamente felice, del resto, con te che non mi capisci: te lo assicuro. Amami e basta.

Infatti, in quell’amore, così quieto e così uniforme, in quel sentimento rudimentale che di nessun altro si addoppiava e si facea difficile, in quell’espansione semplice quotidiana, senza grandi scene tragiche come senza troppo fini scene di commedia, in quella bontà costante e suadente, in quell’affetto dove mancava qualunque sorta di enigma, egli trovava l’ambiente migliore per il suo spirito stanco e per il suo cuore disgustato di eccentricità. Per troppo tempo, la donna era stata per lui elemento di curiosità vivacissima nella vita e nell’arte ed era, quindi diventata sorgente di disordine e di squilibrio: per troppo tempo, egli aveva errato per i paesi dove il peccato era anche romanzo e dove il romanzo conduceva al peccato: per troppo tempo, egli aveva cercato nella donna il pascolo della immaginazione artistica e l’urto obliquo e complicato dei sensi. Adele Cima era il riposo della sua stanchezza, era l’equilibrio dell’asse della sua vita, era la relazione posata e lunga, lunga e sicura, dove il peccato perdeva ogni tinta turpe e acquistava gentilezza mite coniugale. Mentr’ella era fuori centro, spostata, messa a contatto di una esistenza che aveva capovolte tutte le sue poche idee, messa a contatto con un uomo cento volte a lei superiore, della cui superiorità ella era un’adoratrice ma anche una vittima, mentre Adele Cima non giungeva più a riunire le sue forze per vivere, disperse in un’atmosfera troppo alta per i suoi polmoni, Paolo Spada si sprofondava nella beatitudine egoistica di colui che ha trovato, per una rarissima fortuna, lo strumento più adatto alla propria felicità. Per pensare, per leggere, per lavorare, egli aveva bisogno di non aver più nè lettere amorose da scrivere o da andar a prendere alla posta; di non aver più convegni da chiedere o da aspettare; di non aver più sciarade da sciogliere o drammi da annodare, tutte cose che impediscono, a uno scrittore, il pensiero, la letteratura, la scrittura. Adele Cima, in quei tempi di travaglio, mentre era intorno a lui, non vi era, camminava piano, non urtava gli oggetti, non chiudeva i libri, non muoveva le carte, spariva, riappariva, senza domandare di uscire, di pranzare, di dormire: nella sua semplicità o, piuttosto, nella sua stupidaggine, era un arnese umile e perfetto di pace amorosa e di paziente tenerezza.

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