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Sogno di una notte d'estate
L'amante sciocca

SOGNO DI UNA NOTTE D’ESTATE

A Roberto Bracco.

Massimo era solo. L’amico d’infanzia, non veduto da anni e poi incontrato improvvisamente per la via, dopo il lieto riconoscimento era venuto, alle sette, a pranzare in casa di Massimo. E costui che trascinava pesantemente il fardello di un’estate cittadina, mentre tutti gli altri anni era partito nel mese di giugno, si riprometteva una buona serata di ricordi, in compagnia dell’amico ritrovato. Avevano, infatti, passato due ore insieme fra il pranzo, la sigaretta e i liquori, chiacchierando dei tempi antichi, cominciando tutti i loro discorsi con un ti ricordi, sorridendo vagamente alle care memorie che si affollavano alla mente, interrompendosi talvolta, dando in qualche esclamazione di rimpianto, di nostalgico desiderio. Ma nella amichevole giocondità che aveva dilatato i loro cuori, si era presto infiltrato un senso di malinconia; avevano fatte vie diverse ed erano diventati assai diversi, in tutto; partiti dal medesimo punto, avendo fatto gli stessi studii, l’amico era adesso un illustre avvocato di provincia, con moglie e figli, con idee pratiche e semplici, un po’ appesantito di fibre e di spirito; e Massimo se ne era andato per dieci o quindici anni all’estero, di legazione in legazione, diplomatico senza passione, indolente, non facendo carriera per la sua pigrizia, contento o non malcontento del suo posto di segretario, bello come un meridionale bello, ma già appassito, coi capelli che si facevano radi sulla fronte e gli occhi smorti, non ricchissimo, ma abbastanza ricco, e adesso inchiodato da un anno a Napoli, in licenza — in penitenza, dicevano gli amici. Massimo era fine, originale, ma già consumato dalla sua esistenza, e segretamente oppresso da altre cure: l’amico era pieno di talento, ma forte e tranquillo, rimasto un po’ grossolano, chiuso nel buon senso provinciale che chiama follia l’originalità, e che si mortifica nel presente, per godere in un troppo tardo avvenire. Così, mentre l’uno raccontava all’altro la propria vita, colui che ascoltava, apprezzava, giudicava, freddamente giudicava, senza dire il suo giudizio in forma cruda, mitigando, è vero, per riguardo all’amicizia d’infanzia, ma facendo intendere come si trovassero lontani: e a un certo punto si guardarono in viso, perchè pensarono di essere, oramai, due estranei; ma non lo dissero. E forse, in fondo, Massimo invidiava all’illustre avvocato di provincia la sua limitata ambizione e il suo assiduo lavoro, e la famiglia grassa, pacifica, al sicuro delle tempeste, e la casa messa alla buona, ma la casa degli avi, la casa dei figliuoli, e quel senso di praticismo, di serietà, di equilibrio, tutte le cose, infine, che gli mancavano; mentre l’avvocato invidiava a Massimo la vita vagabonda ma aristocratica nelle Corti straniere, e l’avvenire che potea essere splendido, e la libertà di scapolo, e tutte le avventure di quella esistenza fantastica, e quella casa di giovanotto elegante e squisito, visioni che avrebbero oramai turbato i suoi sonni di provincia. A un certo momento, sospirarono ambedue. La serata era calda: dal balcone aperto del salotto dove fumavano, non spirava un soffio di aria: solo un acuto profumo di gelsomini veniva di fuori. Si accorsero di essere diventati malinconici. Troppe cose del passato avevano ricordate, troppe pietre sepolcrali di persone care perdute, di amori morti avevano rimosse: tutto questo non si fa senza un triste piacere, e il piacere poi fugge, e la tristezza resta. Fumavano in silenzio, con la testa rovesciata sulla spalliera della poltroncina; poi l’avvocato aveva guardato l’orologio. Per cortesia, disse a Massimo:

— Vieni via con me?

Ma non si eran forse detto tutto? E non avevan forse fatto male, a dirsi tutto? Massimo rispose vagamente che doveva scrivere alcune lettere urgenti; che si sarebbero veduti piú tardi, alla Villa, verso le undici, senz’altro. Freddamente, l’avvocato promise di esserci, e si divisero, convinti che non si sarebbero riveduti quella sera, e forse mai piú. Per dolce che sia il passato, esso è morto; e fantasmi, anche soavissimi, turbano l’animo dei piú coraggiosi. Quando fu solo, Massimo si pentí di essersi condotto a casa quell’amico: tante chiuse cicatrici avevano stillato sangue, in quelle due ore! Mentre egli seguitava a fumare, nel salotto, udiva il suo servitore che riordinava la piccola stanza da pranzo; e poco dopo, il giovanotto gli venne a chiedere se avesse bisogno di lui, in quella sera, chè avrebbe voluto andarsene a trovare certi amici, per fare una passeggiata, con quel caldo cosí grande. Massimo, con una parola, lo licenziò: la porta si richiuse; egli era perfettamente solo. Ma la sua serata era perduta, postochè aveva voluto risalire imprudentemente il fiume del passato, in compagnia di una persona che aveva amata: il viaggio lo aveva scoraggiato, facendogli perdere quell’ultimo resto di morale pazienza, che lo aiutava a tirare innanzi quella solitaria e fastidiosa estate napoletana. In queste ore di ribellione, sdraiato, abbandonato a una mortale spossatezza esteriore, mentre dentro gli si sollevava il cuore, egli fumava assai certe stupefacienti sigarette egiziane, che per lo piú finivano per stordirlo: ma in quella sera di estate le sigarette gli si sfacevano fra le labbra strette ed egli le buttava via, semispente, a pezzetti. Andò al balcone: era al terzo piano di un gran palazzo di via Gennaro Serra, ed essendo piú basse le case innanzi alla sua, pel livello della via, vedeva un po’ di mare e un grande arco di cielo stellato.

La notte era bellissima, con un gran palpito luminoso della Via Lattea; ma la brezza non veniva e l’aria opprimeva. Sentendosi avvampare la testa, solo, stanco e pure non potendo restar fermo, prese la penna e volle scrivere: ma improvvisamente, innanzi alla carta bianca, si fece in volto piú bianco della carta stessa, quasi che avesse veduto apparire non so quale visione, fra le penembre della stanza. Dalla via Gennaro Serra, un continuo rumore di carrozze si udiva: tutti uscivano dalle loro case, tutti se ne andavano per le strade, a respirar meglio, a guardare le stelle, a godere la notte napoletana bella, fresca nelle ore alte. Egli si fece di nuovo al balcone, soffocando: ritornò alla scrivania, si rimise a scrivere, ma non vi riuscì. E perchè avrebbe dunque scritto? A che servono le negre parole scritte sulla candida carta, nella effervescenza della solitudine, quando il parente, o l’amico, o l’amante che le riceve, le legge forse dinanzi a estranei, freddamente, ridendone? Troppo tempo e troppe cose passano fra il momento che si scrive e quello che si legge, fra chi scrive e chi legge, perchè una lettera serva a qualche cosa. Un organetto si fermò in piazza Monte di Dio, a suonare, con un metro largo, con un tempo largo, una canzonetta assai allegra, la quale così diventava bizzarramente triste; Massimo s’impazientì contro quel sentimentale o stanco suonatore di organino, che mutava una tarantella in marcia funebre. Forse il suonatore era vecchio; forse aveva fatto una magra giornata; forse era un infelice, perciò usciva dalla sua mano quella nenia così stravagante. Massimo si abbassò sulla ringhiera del balcone, e da quell’altezza buttò a caso una moneta da due lire al suonatore. La musica, dopo un poco, tacque: e Massimo se ne dolse; ora si sentiva piú solitario, piú annoiato, piú insofferente che mai della sua dimora in Napoli. Che fare, dove andare, dove portare il suo corpo e il suo spirito, con quali sciocchi? con quali indifferenti, con quali esseri detestabili andare? Come passare quella notte di estate? Non avrebbe avuto riposo, lo sentiva: e sentiva che non vi era rimedio alla sua agitazione. Andava e veniva dalla scrivania al balcone, macchinalmente, quando un, sottile canto vicino lo colpí. Si fermò, ascoltando. Il canto veniva da un balcone poco discosto dal suo, anch’esso al terzo piano: aguzzò gli occhi, vide un’ombra bianca, era una donna che cantava una vecchia romanza del Tosti, poco nota, che è piuttosto un recitativo e che comincia cosí:

Il gallo canta; e i sogni lieti o tristi
Fuggon nel grande oblío.
Torna al mondo dei sogni, onde venisti,
Larva dell’amor mio........

La voce era tenue e un po’ tremula, ma le parole si udivano distintamente. Massimo tese l’orecchio, guardò acutamente, e si accorse che la donna si dondolava sopra una sedia, cantando, come se si cullasse; aspettò che ella avesse finito, poi, piegandosi sulla ringhiera, chiamò:

— Luisa, Luisa?

— Che volete? — rispose una fresca e lieta voce femminile.

— Buona sera: vi sto ascoltando, ma la vostra canzone è troppo triste.

Perchè non ridete un poco?

— Così, per ordine vostro?

— Ve ne prego: ridete.

— A che servirebbe?

— Per rallegrare la mia infinita malinconia.

— Voi, malinconico? — e diede in uno scroscio di risa fresco e limpido.

— Brava, brava! — egli esclamò, applaudendo.

Lei, per parlare con lui, si era alzata dalla sedia, si era messa all’angolo del balcone, curvandosi per veder meglio, e non li divideva che lo spazio di una stanza; le due case erano vicine.

— Vi basta? — chiese Luisa ridendo ancora.

— Mai abbastanza. Sono un uomo morto, Luisa. Ma quando sarò da quattro giorni nella tomba come Lazzaro, veniteci voi e ridete; io risusciterò, ve lo prometto.

— Ci vedremo allora, non mancherò — diss’ella ridendo.

Poi tacque improvvisamente. Massimo, per ringraziarla, si mise a cogliere dei gelsomini bianchi, odorosissimi, li raccolse in pugno, tentò due volte di buttarglieli sul balcone: ma erano così leggieri che caddero in istrada, candidi, roteanti.

— Peccato, peccato! — gridò lei, che aveva indovinato il grazioso pensiero.

E restò a guardare, giù, come se potesse ancora scorgere quella pioggerella di gelsomini odorosi. A un tratto, ella diede un piccolo grido:

— Che è?

— Ne ho trovato uno, per terra. Grazie! Sul balcone di Luisa un’ala di ventaglio si agitava ed egli ne vedeva luccicare le stelline:

— Siete voi, che avete quel ventaglio?

— Sì; perchè?

— Perchè pare un pezzo di firmamento.

— Non mi burlate — disse lei un po’ seria.

Parlavano così tranquillamente, come se stessero in un salotto di conversazione: ma le notti estive sono così belle a Napoli, ed è così naturale stare al balcone, o sulla terrazza o nelle vie, è così naturale la chiacchiera all’aria aperta! Certo l’elegante addetto non avrebbe fatto così a Bruxelles, o a Copenaghen, dove le notti sono gelide, e i balconi hanno triplici imposte: nè con le dame della società sua, si sarebbe permesso una simile famigliarità. Appunto per questo egli trovava gusto in questa conversazioncella borghese con una semplice ragazza, da un balcone all’altro, dimenticando la profonda noia e il disgusto che lo avevano assalito mezz’ora prima. Adesso, sorgendo da quel poco di mare che si vedeva dai balconi, un globo rossastro si levava nel cielo, e ascendendo, impallidiva, diventava roseo....

— .... ecco la luna, signor Massimo — mormorò lei, piano.

Eppure egli udì.

— È una bellissima luna, Luisa — le rispose, con convinzione.

— Fra poco si nasconderà dietro quelle case, e non la vedrò più — disse la fanciulla, sempre piano.

Egli udiva benissimo. A un tratto, chiamò:

— Luisa?

— Che volete?

— Volete uscire, a veder la luna?

— Sola?

— Con me.

— .... nossignore — disse lei, dopo aver esitato.

— Perchè nossignore?

— Per questo — replicò Luisa, enigmaticamente.

— Venite, via. Torniamo presto.

— No, non posso.

— Siete cattiva, sapete.

Luisa non rispose.

— Se non vi decidete, vado via solo. La notte sarà magnifica e voi non la vedrete. Peggio per voi! Sono abbastanza vecchio, per non compromettervi. Volete venire?

— .... non posso.

— Buona sera.

— Buona sera — mormorò ella, lentamente.

In verità, rientrando nella sua stanza, per prendere il cappello e i guanti, Massimo era indispettito. Aveva trovato un diversivo alle tristezze supreme di quella serata; la compagnia di Luisa come quella di un buon camerata, di un buon amico, lo avrebbe distratto. Ed ecco che quella sciocchina faceva la ritrosa, mentre era libera, indipendente, mentre egli non si era mai sognato di farle una linea di corte, da un anno che si conoscevano. Nervoso, abituato a superare facilmente tutte le difficoltà, il più piccolo inciampo lo inquietava: non andò di nuovo al balcone, spense tutti i lumi, e battè fortemente la porta, uscendo sul pianerottolo; anche Luisa era una sciocca! Ma passando innanzi a un’altra porta che dava sullo stesso pianerottolo, la vide schiudersi un poco e il profilo bruno di Luisa apparve:

— Signor Massimo? — fece ella, guardandolo coi neri e dolci occhi, chiedendogli scusa col tono della voce, con lo sguardo.

— Andate là, che non capite niente! — esclamò lui, nascondendo un sorriso, fingendo di essere ancora in collera.

— Io.... capisco — disse lei, schiudendo addirittura la porta.

Ora si vedeva tutta la sua snella e alta figura, rivestita di un abito bianco di semplice mussola, con un nastro di velluto nero alla cintura: si vedeva il delicato volto ovale e bruno, dove la piccola bocca rosea si schiudeva come un fior di granato; e le sottili sopracciglia nere e arcuate davano agli occhi neri, per sè buoni e soavi, un’aria d’infantile meraviglia.

— Perchè avete detto di no, Luisa? Avete così poco spirito? Vi ho forse mai fatto la corte, io, perchè dobbiate temere la mia compagnia?

— È vero, non me l’avete mai fatta — rispose Luisa, senza sorridere, abbassando gli occhi.

— O dunque? Andiamo, prendete un cappello e una mantellina, fate una collezione di risate, e venite con me. Sarà un’opera di misericordia spirituale: sono così infelice!

— Sì? Tanto? — interrogò lei, ansiosa.

— Infelicissimo — confermò lui, fra il tragico e il burlesco.

— Per amore, eh? — chiese ella, arrossendo della domanda.

— Nossignora, ragazza curiosa. Naturalmente, nessuna donna mi ama e io, naturalmente, non ne amo nessuna. Andate a vestirvi e fuggiamo....

Ella voltò le spalle, ubbidendo. Massimo restò appoggiato allo stipite della porta aperta, col cappello in mano, rigirando il suo bastoncino di ebano fra le dita, tranquillo adesso, abbandonandosi al minuto che passava, senza pensare ad altro. Dopo un poco, brevi passi discreti si riudirono e Luisa apparve, infilando i morbidi guanti lunghi di camoscio: aveva messo una mantellina di merletto nero a perline nere sul suo vestito bianco e un gran cappello di velo nero, una di quelle scuffie ampie e caratteristiche che stanno divinamente solo a un volto giovanile. Sorrideva, con le labbra, con gli occhi, guardando Massimo, così fresca, così luminosa di gioventù e di spirito, che egli espresse immediatamente la sua opinione.

— Siete una creatura incantevole — disse, con un tono fra la galanteria e la verità, tanto che ella non seppe nè adontarsene, nè rallegrarsene.

Per nascondere il proprio imbarazzo, Luisa si voltò a chiudere la porta di casa sua, mettendosene la chiave in tasca. Si avviarono, accanto, per le scale, senza che Massimo le offrisse il braccio: ella aveva un modo di camminare leggiero e spedito che le veniva dalla estrema giovinezza.

— Sentite — le diceva lui, scendendo — ognuno di noi si secca....

— Io non mi secco mai.

— .... non mi contraddite, voi vi seccate, come me, della solitudine. Quando state sola, che fate?

— Penso....

— E non vi viene voglia di uccidervi?

— Neppur per sogno. I miei pensieri sono dolci.

— A che pensate?

Ella fu lì lì per rispondere, con sincerità: ma fortunatamente si rattenne.

— Che v’importa? — mormorò invece, con una certa malinconia.

— Ma insomma, se deviate sempre il discorso, non lo finirò mai. E vi assicuro che è grazioso, che vale la pena di udirlo. Dunque, che voi vi possiate seccare o no nella solitudine, questo non preme, ma nella solitudine mi secco io, e voi siete allegra, voi cantate, voi suonate l’arpa, voi ridete così bene. Uniamoci insieme, fraternamente, così io non mi seccherò più, e voi, credo, vi divertirete meglio. È deciso, eh? Come fratello e sorella, naturalmente. Un giorno o l’altro, poi, vi mariterei a un amico che amassi molto. È deciso?

Ella rideva, rideva, sommessamente, mentre attraversavano l’ampio portone. Una risata, però, che aveva qualche soverchio trillo nervoso.

— Non volete saperne? — disse lui, seriamente, fermandosi, sul marciapiede. — Non è mica una cattiva offerta. Sono vecchio, io, ma sono sempre un buon figliuolo: ho viaggiato, vi posso raccontare delle storielle interessanti.... pensateci bene....

— Sì.... sì.... combineremo, un giorno o l’altro — e la fanciulla voltò la faccia in là, per non farsi scorgere.

Massimo e Luisa scendevano per via Gennaro Serra incontrando una quantità di gente che saliva e scendeva, ondeggiando, a coppie, a gruppi, a crocchi, a file, con la mollezza estiva della folla napoletana. Malgrado che fossero le dieci, molte botteghe erano ancora aperte e illuminate: non vi si lavorava; delle donne in giacchettina bianca prendevano il fresco sulla porta, chiacchierando, e dall’Egiziaca veniva un suono di chitarre e di mandolini. La birreria Dreher, sotto i marmorei portici di San Francesco di Paola, aveva messo fuori tutti i suoi tavolini di marmo, e le tazze di birra, dalla cima schiumosa e nevosa, apparivano alte sui vassoi, portati dai camerieri, mentre i pesanti piattini di cristallo si accumulavano innanzi agli avventori. Adesso, sorgendo pallida e mancante sul lato sinistro, elevandosi sopra l’arsenale di marina, la luna illuminava tutta piazza Plebiscito. La facciata della Prefettura, tutta chiara sotto il raggio lunare, aveva delle persone che si muovevano sui suoi grandi veroni: il Gran Caffè e i suoi tavolini, allargantisi sulla via, e i molti avventori erano avvolti in un chiarore fantastico, e le donne recavano con lentezza il cucchiaino del sorbetto alle labbra, o agitavano il ventaglio pian piano, con gli occhi sgranati, quasi sognassero. Nella piazza Plebiscito, andando lentamente nella morbida luce lunare, la gente passeggiava, sulla striscia di pietra bianca, innanzi alla fontana: e il grande getto d’acqua, alto, sottile, pareva una piuma bianca, immobile, tutta penetrata dalla luminosità della luna.

— Che bella notte! — susurrò Luisa, affrettando il passo.

— Vi è troppa gente — disse lui, buttando la sigaretta, diventato a un tratto pallido e pensoso.

Luisa se ne accorse. Affettuosamente gli toccò la mano con la sua mano guantata, interrogandolo con lo sguardo; egli non rispose, ma le fece un cenno che non chiedesse, che non voleva parlare. Per temperare questo silenzio, graziosamente le prese la manina guantata e se la passo sotto il braccio, e camminarono più presto, andando verso Santa Lucia. Qualcuno si voltava a guardare la fanciulla biancovestita, i cui occhi brillavano soavemente sotto la nera e trasparente aureola del cappello; ma ella non vedeva nulla, si piegava ogni tanto a guardare il suo compagno, per osservare se l’umor torvo si fosse allontanato.

— Ma che avete? — chiese, alla fine, agitata.

— Vorrei.... vorrei non essere qui — proruppe lui, esprimendole tutta la sua nostalgia inguaribile.

— Ah! — disse ella, senz’altro, chiudendo gli occhi, mentre le labbra le tremavano.

E Massimo non seppe, o gli mancò la forza di spiegare, di modificare la sua scortesia. Alta già sopra Capri, la luna imbiancava tutta la via marina di Santa Lucia, dove mille lumicini si agitavano, dove i trams, carichi di gente che andava verso Posillipo, passavano, ogni cinque minuti a suono di cornetta, dove le venditrici ambulanti di acqua sulfurea davano il loro richiamo, dove i pescatori accovacciati nelle nasse, fumavano la pipetta corta che aveva lo stesso colore della loro pelle. Appoggiati al largo parapetto che dà sulla via inferiore di Santa Lucia e sul mare, uomini e donne godevano la prima brezza notturna che si era messa al sorgere della luna; si udiva suonare il pianoforte nel salone all’Hotel de Rome, il salone che dà sul mare; laggiù, laggiù, verso il Wermouth di Torino, dei cantori ambulanti cantavano. Negli equipaggi signorili, passavano le donne in abiti chiari, coi diamanti che scintillavano alle orecchie. Dovunque gente, dovunque suoni e canti, dovunque la vitalità di un popolo che lentamente sorbisce la felicità di una notte estiva lunare.

Senza dirle nulla, invece di andare verso il Chiatamone, portandosi la fanciulla a braccetto, egli le fece discendere la scala che porta alla via inferiore di Santa Lucia, donde si va ai bagni la mattina; dove i vaporini approdano, dove approdano i barcaiuoli, con le barchette, dove sono le sorgenti dell’acqua sulfurea: ivi, su quella lingua di terra, brulica una folla di marinai, di pescatori, di donnette popolane, e una trattoria ha le sue tavole, quasi quasi sino all’acqua nera della riva; i bevitori di acqua sulfurea vi mettono le loro sedie di paglia, e i bimbi vi vendono le ciambellette brusche. Pure, in quella notte, quel brulichio bruno si rallentava, quasi che il placido lume della luna quietasse tutti i movimenti, rammutolisse tutte le voci, e desse tutta la sua dolcezza alla vivace scena. Quando furono sull’ultimo scalino dell’ampia gradinata, Massimo e Luisa si arrestarono un minuto.

— Andiamo a cena? — domandò lui, distratto.

— Oh no!

— È vero, sono una bestia. Eppure dobbiamo far qualche cosa.... andiamo per mare, allora?

— Sì — rispose lei, pensosa — andiamo.

— Ma vi piace di andarvi? non lo dite per compiacenza? Io vi annoio terribilmente, lo so.... Ma, non è colpa mia. E poi, voi siete buona e perdonate. Se non volete andare in barchetta, rinunziamoci.

— Andiamoci subito.

Ed egli intese, in quelle parole, una preghiera così spontanea, che chiamò subito un barcaiuolo. Entrò prima Massimo e invece di dar la mano a Luisa, per farla discendere, mentre ella esitava, vedendo quel baratro nero, le stese le braccia, la sollevò leggermente e la depositò sul cuscino di cotonina, accanto a sè. Il barcaiuolo che aveva avuto ordine di andare verso Mergellina, vogava tacitamente. Massimo fumava: ma ogni tanto, dando uno sguardo a Luisa, la vedeva così tranquilla, così serena, così intimamente felice; ella era così bella in quell’abito bianco, sotto la trasparente ala del suo cappello, con le mani abbandonate in grembo, che egli non osava dire una parola, non volendo turbare quel soave spettacolo. La barchetta si allontanava in linea retta, per poi girare intorno al forte Ovo: e le case di Santa Lucia, e la collina di Pizzofalcone parea che crescessero verso il cielo, verso la luna, come attirate da quel morbido chiarore. Massimo e Luisa non scambiavano una parola, solo egli la guardava con insistenza; tutto il delicato volto e la persona candidamente vestita, avevano in quell’ora e in quel paesaggio un effluvio di poesia che avrebbe inebriato il cuore più freddo. Ella gli sorrideva, così, naturalmente, quasi che il suo destino, nella vita, fosse di sorridergli sempre; e l’ingenuo, giovanile fascino del sorriso rammentava a lui altri tempi, altre cose, vagamente, dandogli un infinito e indefinito sentimento di tenerezza. Allora, sottovoce, egli provò il bisogno di chiamarla:

— Luisa.

— Che dite? — rispose ella, piegandosi per udir meglio.

— Niente.

Ma ancora, più tardi, mentre si allontanavano sempre più verso l’alto mare, nel candore immacolato della luna, verso l’orizzonte; che si era fatto chiarissimo, egli la chiamò per nome, assai piano, come se pronunciasse quel nome per sè stesso, evocandolo, invocandolo, emblema di dolcezza nelle sue sillabe, nelle sue lettere, nel musical suono, in quello che era, in quello che rappresentava. Quando quel lieve soffio l’animava, come una carezza, Luisa s’inchinava, attratta, vincolata dalla voce e dalla musica; e Massimo vedea che il viso le si tramutava, onde di sangue le fiottavano alle guancie, onde di pallore le salivano alla fronte. E non so quale acuta, spirituale voluttà lo teneva, di vedere scolorare, al suono della sua voce, quel purissimo volto giovanile: e tutta la tenerezza ch’egli poneva nella parola Luisa, si facea più profonda, sgorgava più larga, per circondare, avvolgere, abbracciare quella persona di donna. Ma fu un punto, e la emozione di Luisa era così intensa, egli vide tale smarrimento negli occhi della fanciulla, che si fermò, e riaccendendo una sigaretta:

— Perchè non cantate? — le disse. — Voi dovete cantare, me lo avete promesso.

Scherzava con quella ironia cortese che serviva a nascondere il proprio pensiero. Luisa crollò il capo, tristemente: l’incanto si dileguava; ella udiva un’altra volta, mentre Massimo parlava, quella velatura di sogghigno che guastava quante affettuose cose egli dicesse. Tentò di riafferrare un minuto di dolcezza:

— Chiamatemi ancora — gli disse pregandolo.

— Oh Luisa, Luisa, Luisella, piccola fanciulla cara, se non cantate, io vi riporto a terra.

A lei gli occhi si riempirono di lacrime; il sangue ascese impetuosamente dal cuore agli occhi; nonostante schiuse la bocca e con la sottile voce tremula, diede alle fragranti aure marine una vecchia canzone. Con le mani congiunte in grembo, con la testa un po’ levata, guardando il gran cielo intorno, ella cantava; la fine bocca rosea si schiudeva ad arco, mostrando i denti bianchi, scintillanti, e ogni tanto i soavi occhi seguivano quasi il movimento molle della musica, aprendosi più grandi sul paesaggio. Massimo si era voltato verso lei, appoggiando il braccio sul bordo della barchetta, seguendo il ritmo della canzone che pareva si cullasse nel ritmo del mare. A un tratto, la voce le si velò; ella tacque.

— Che avete?

— Nulla, nulla.

— Perchè siete così triste, Luisa?

— V’ingannate, non sono triste.... sono anzi così contenta di esser qui.... credetelo....

Una emozione era in tutto quello che diceva, così sincera!

— Vi credo, Luisa. Dite un’altra canzone....

— Sono tutte cose vecchie!

— Non importa....

— E non tutte sono liete.

— Non importa.... Mi basta che le cantiate voi.

— Non volevate che io ridessi? — insistè lei. — Raccontatemi una delle vostre storielle interessanti e riderò!

— Se vi racconto una storiella, io, vi faccio piangere — e buttò la sigaretta in mare.

— Allora tacete. È così dolce questa notte.

Mentre il barcaiuolo vogava verso Mergellina, con un cenno largo Luisa indicò a Massimo le carezzose linee delle colline che vanno da San Martino al capo di Posillipo, tutte bagnate dalla luce lunare, con le loro case chiarissime dalle mille finestre aperte e illuminate, coi lumi che cingono l’arco della marina napoletana come una linea di fuoco, con uno scintillio dovunque, per le vie e sulle colline. Essi attraversavano, tagliandola, la grande striscia fredda, lucente come metallo, che la luna alta metteva sul mare, dall’orizzonte alla riva, lunghissima, occhieggiante, come mille specchietti moventisi nel raggio lunare. Massimo guardò intorno, ma i suoi occhi tornavano al purissimo viso di Luisa, come se da esso partisse quel fascio di dolcezza. Ella sostenne un minuto lo sguardo di Massimo, poi le palpebre le batterono, ammaliate, non reggenti a quel fascino:

— Siete voi che siete dolce — le disse lui, all’orecchio.

Adesso avevano voltato l’angolo di Mergellina, costeggiavano, lungo la via di Posillipo, tutta piena di ville, di osterie, di trams che passano continuamente, in tutte le ore della sera, specialmente in estate. Talvolta, tendendo l’orecchio, si udivano dei canti venire dalla terra, affievoliti; e le ville, piene di gente sulle terrazze, sembravano quei castelletti di carta, dai cento bucherelli, che i bambini illuminano con un solo cerino interno, giocattoli frastagliati o trasparenti dai personaggi minuscoli. Passando rasente una di esse dal giardino pensile tutto fiorito arrivarono delle risate, degli allegri strilli femminili.

— Abbiamo un pubblico cortese — disse Massimo — ci prendono, per due amanti.

— Ah! — rispose lei, niente altro.

Il palazzo di Donn’Anna si delineava, nero, avanzandosi sul mare: sul suo lato destro e sul sinistro, delle trattorie popolari erano piene di banchettatori e di bevitori, ma la facciata che dà sul mare serbava il suo carattere di rovina disabitata, col mare che entrava chetamente nei suoi portoni, ormai trasformati in grotte, come quelle di Sorrento e di Capri. La luna batteva sulla facciata del palazzo, che la ricchezza e la superbia di donn’Anna di Medina Coeli non aveva potuto finire, prima di ritornare alla Spagna natìa: e i finestroni e le finestre prendevano il chiaror lunare, fantasticamente; la rovina pareva meno aspra, meno tetra, sotto il placido raggio.

Il barcaiuolo che remava più lentamente, per riposarsi, chiese a Massimo se voleva entrare in una di quelle grotte, con la barca.

— Avete forse paura? — chiese lui a Luisa, prendendone distrattamente la mano appoggiata al bordo della barchetta.

— No, non ho paura — ella rispose: eppure la voce era velata di emozione.

L’apertura della grotta era tutta bianca e l’acqua vi fiottava sordamente, gorgogliando: ma quando la barca s’internò in quel chiuso laghetto di acqua marina, la oscurità si fece profonda. La barca stava immobile, in un gorgoglio fresco di onda che batte alle pareti di pietra, in una gran tenebra. La mano di Luisa era restata in quella di Massimo: egli la sentiva molle, abbandonata, nella sua, quasi che non vi fosse miglior sorte, miglior destino per essa. Involontariamente, egli la strinse, e intese che la mano rispondeva alla sua stretta, fiaccamente, ma dicendo sempre: . Allora egli si piegò; in quell’ombra, per distinguere la faccia di Luisa; il barcaiuolo remava, per uscire dalla grotta e quando furono di nuovo sull’aperto mare, al lume della luna, egli vide due lunghe lacrime scendere da quei belli occhi e disfarsi sulle guancie. Ah! egli non poteva veder piangere nè un bimbo, nè una donna, foss’anche di gioia: e fu più turbato di lei.

— Che avete? Avete avuto paura, avete freddo? — chiese precipitosamente, tenendole le mani, che erano gelide, invero, nei guanti.

— No, no....

— Sì, sì, sbarchiamo, questo viaggio in mare, alla luna, vi ha gelato. Sbarchiamo, cammineremo a piedi, per riscaldarci.

Presso il palazzo Donn’Anna vi è spiaggia. Sbarcarono, in fretta, egli pagò il barcaiuolo e lo licenziò: quello gli disse delle parole di augurio; anche lui li prendeva per due amanti. Per salire alla strada dovettero passare presso una di quelle trattorie, fra le tavolate dei mangiatori e dei bevitori, senza guardare nè a dritta nè a sinistra, egli sempre un po’ agitato, ella che lo seguiva senza badare a nulla, quasi che il suo fato fosse quello di seguirlo sempre, dovunque, senza sapere dove si andasse. I bevitori e i mangiatori ridevano e gridavano: la bianca figura di donna non ne fece voltare nessuno, tutti erano ebbri del vino, della notte, o delle chiacchiere dette, con la tanto bella e felice esaltazione meridionale. Massimo e Luisa scesero per la stretta scaletta, uno presso l’altro, e quando si trovarono sulla via di Posillipo stettero, esitanti.

— È forse tardi per voi? Volete rientrare?

— Non so.... Voi rientrate?

— Vi accompagnerei, sì, ma senza rientrare. Non dormirò, io, stanotte.... — e voltò la faccia in là.

— Allora.... allora rimarrò ancora un poco — disse fievolmente lei.

— Grazie, siete buona — e le strinse la mano.

Così, camminarono, senza darsi braccio, verso Posillipo, sul piccolo marciapiede rasentato dai trams che vanno e vengono: imbattendosi in gente che tornava a piedi, in piccole comitive schiamazzanti, in coppie solitarie appoggiate al parapetto, guardanti il mare. Massimo e Luisa, avanzando lentamente, non parlavano, divisi sempre da coloro che transitavano. Le ville a mezza costa, e quelle giù, al mare, avevano innanzi ai portoni delle carrozze che aspettavano: i balconi lasciavano udire la musica che vi si faceva, il sottile e immemore concerto delle notti estive napoletane: degli equipaggi, di ritorno, passavano; le donne erano avvolte in lievi scialli bianchi. Senz’accorgersi della via, Massimo e Luisa andavano innanzi, innanzi: la linea dei trams finì; si fecero rare, poi sparvero, le osterie; la gente s’era diradata, a poco a poco, e quando ebbero voltato l’angolo della villa Dini, la solitudine fu perfetta. Solitudine bianca, senza terrori di ombre, senza la tetraggine che ispirano la campagna e il mare, di notte. Solo un alto, lontanissimo cielo; solitudine mite, piena di giardini in fiore tutti candidamente frastagliati dalla luce lunare, piena di parchi dai grandi alberi immersi nel chiarore, piena di vigne folte che l’autunno aspettava, per la vendemmia, piena di orti dove ancora, come un po’ dappertutto, si udiva l’odore del gelsomino notturno. La via era deserta, l’ora era tarda, ormai: e solo, ogni tanto, qualche rara carrozza ritornava da villa Postiglione: tutto Posillipo, con le sue campagne, col suo mare, coi suoi rotondi piccoli golfi che sembrano, in fondo alla riva, un grande occhio azzurro divino, coi suoi profumi, pareva che appartenesse a Massimo e Luisa, Egli camminando con la testa bassa, con gli occhi bassi, giuocava con la mazzettina di ebano, urtando le pietruzze della via; Luisa andava accanto a lui, fissando gli occhi sul mare: ma i suoi occhi avevano un velo innanzi, il suo sguardo aveva la fissità di chi non vede. Ogni tanto levava una mano alla fronte, per respingere da parte una ciocca dei suoi neri capelli che ricadeva sempre: e quel movimento aveva qualche cosa di assai leggiadro. Quanto tempo camminarono, così, senza scambiare un detto? Nessuno di loro avrebbe potuto dirlo: presi dal loro mondo interiore, presi dall’ambiente che li aveva vinti, mancava oramai a loro la nozione del tempo e dello spazio, erano in quell’oblìo quieto, addormentatore, che vince tutti i cuori, dopo le emozioni che dà il sentimento, o che danno le cose. Massimo si riscosse pel primo:

— Che cattivo compagno son io! — esclamò. — Saranno due ore che non vi dico una parola.

— .... Forse non avevate nulla da dirmi — azzardò lei, con un timido sorriso.

— V’ingannate: se vi dicessi tutto quello che dovrei dirvi, sarebbe un opera in-folio, in ventiquattro volumi!

— Dite, allora....

— Ci vorrebbero alquanti anni della vostra vita, per udirmi, cara: e.... credo che sia meglio non farne niente.

— Ditene qualcuna, di queste cose.... — insistè lei, con un tremito nella voce.

— No, no — replicò Massimo, recisamente.

Ella lo guardò, così triste, che egli non potette celare un moto di dispetto.

— Ma Luisa! Ma che siete una sensitiva? State ridendo, il che è una cosa graziosa per tutti, graziosissima per me, e basta guardarvi perchè la risata vi si spenga sulle labbra! Sorridete, e basta che vi si dica una parola perchè sparisca il vostro sorriso! Figliuola mia! Vi avverto che di questo passo, ci vuol poco a essere la donna più infelice di questa terra.

— Non importa, la felicità — ella rispose, con un sorriso estatico.

— Bugia, bugia! Bisogna esser felici, bisogna avere il cuore di bronzo! Di bronzo, cara mia bella!

— Non importa, meglio averlo aperto a ogni tenerezza — replicò con la forza del suo innocente animo.

— Vi preparate un brutto avvenire, Luisa, — disse lui, glacialmente.

— Non importa — ella ribattè, per la terza volta, con il supremo coraggio dei cuori buoni.

Ed era così bella della sua gioventù, del suo candore, della sua abnegazione, così bella per sè, e per quello che confusamente ma fortemente sentiva, tanto nobile abbandono, tanto alto sacrificio da lei traspariva, che egli si arrestò, un po’ smarrito, ammirando quella creatura semplice e sana, che si gittava nel precipizio a occhi chiusi, sorridendo.

I.

— Povera Luisa — mormorò soltanto lui, carezzandole la manina inguantata che si appoggiava fidente al suo braccio.

— Non mi compatite — ella rispose, crollando il capo, sorridendo a una idea — io sono più felice di voi,

— Forse — disse lui, con voce breve.

Adesso, dopo avere oltrepassato il ponte di Posillipo, quel largo poggiuolo che da una parte si affaccia alla collina folta di vigneti, e dall’altra sopra, una valle che discende al mare, mollemente, lasciato il lastricato del ponte che suonava sotto i loro passi, nella notte, erano entrati in un sentiero oscuro, fra una siepe alta di more spinose, e una muraglia alta, tappezzata di edera, che serra le due ville ultime sul mare di Posillipo, la villa Postiglione e la villa Sans souci. Era sparita la luna dietro la muraglia, e sullo stretto sentiero che discendeva, essi non vedevano che un’altissima striscia di cielo, tutta chiara, dove le pie stelle avevano un tremolìo bianco e languido. Dagli orti, di nuovo, un confuso olezzo di fiori e di erbe odoranti arrivava, dove più acuto signoreggiava il profumo del gelsomino: ed essi andavano in quell’ombra, in quel fresco notturno, ignari della loro strada, sul molle terreno umido di brina che si faceva elastico sotto i loro passi. A un tratto, levando gli occhi, un’immensa linea di paesaggio si schiuse loro innanzi, tutta candida sotto la luce lunare. Erano al Capo, in quel posto che la fantasia popolare ha chiamato il Paradisiello: e il gran golfo di Napoli era come una immensa conca chiarissima, cinta da lumi vividi, scintillante fin nelle borgate, scintillante fino laggiù, laggiù all’estrema punta di Massalubrense, dove l’abbraccio si chiude; e da qui tutto il gran mare che bagna i Campi Flegrei e Pozzuoli e Cuma, in una curva nobilissima e poetica, in un silenzio di cose e di uomini, quasi che niuno più, dopo i greci e i romani, fosse venuto ad albergare in quel bellissimo e felice paese. Lo scoglio del Capo si avanzava fra i due golfi, bagnato di luce da una parte, oscuro dall’altra, ma tutto il mare, dovunque, qui sotto lambente la pianura vasta dei Bagnoli, laggiù, sotto l’isola di Nisida, e lontano lontano, era un chiarore immenso, immobile e quieto.

— Dio, quanto è bello! — ella disse, con la voce velata dalla emozione.

Là innanzi, creata dalla natura, è una piattaforma quasi rotonda, una terrazza messavi dal Signore, a cui gli uomini hanno aggiunto un muretto rotondo per appoggiarvisi, per sedervisi; di là tutto si vede. Di giorno su quella terrazza vi sono tre o quattro mendicanti, vecchie e piccine, che chiedono fastidiosamente l’elemosina agli stranieri estatici; ma di notte non un’anima, non un passo. Sulla terrazza, lungo il muretto e dietro ad esso, pei greppi, cresce l’erba selvatica odorosa e qualche piccolo fiore agreste. Essi si fermarono colà silenziosi, appoggiati al muretto, senza lasciarsi, penetrati dalla poesia ineffabile di quell’ora, in quel paesaggio: poesia intima e profonda che misticamente li avvolgeva.

— È tutta dolcezza — disse la fanciulla, la cui voce si era velata, affievolita.

— Infinita dolcezza — rispose lui come un’eco.

— Chi abita in quell’isola, lassù? — chiese ella, levando la mano, indicando Nisida.

— Una gente trista.... — e pareva non volesse continuare.

— Che gente? — insistè lei, piegando il suo bel viso chiaro verso di lui.

— I galeotti: lì v’è il bagno penale.

— Una gente infelice — ella corresse, umilmente. — Ma le belle notti estive, le belle notti lunari, si levano anche per essa.

— Cara Luisa.... — ripetè lui, vagamente.

Ella lo guardava pronunziare il suo nome, non solo assaporandone la musicalità, ma sentendone acutamente tutto il tono, tutta la intenzione. Ogni volta che questo nome usciva dalle sue labbra, ella aveva un piccolo tremito interno: quando già il nome era stato portato via dalle onde dell’aria, ancora in lei, nel suo cuore si allargavano più grandi, più grandi i cerchi di quel tremore.

— Guardate quelle casette, laggiù? — continuò ella, per sfuggire alla sua crescente commozione, accennando alle casette dei Bagnoli. — Son tutte chiuse, non un lume. Tutti riposano felici, senz’aver bisogno di ammirare la notte e la luna.....

— Gli abitanti di quelle casette videro un giorno un orribile spettacolo — rispose lui, macchinalmente — è qui che hanno fucilato Misdea.

— Qui?

— Laggiù, in quella pianura.

— In una notte come questa?

— No, in un’alba freddissima.

— Perchè lo hanno ucciso?

— Perchè aveva ucciso.

— Voi mi dite sempre delle cose tristi — ella osservò malinconicamente, con un lagno infantile.

— Ho torto — confessò lui — anche questa bell’ora dev’essere guastata. Scusate, cara. Vi assicurò che sono molto infelice.

— E perchè? — ella chiese, curvandosi a interrogare il suo volto.

Ma gli aveva sfiorato con la guancia la spalla.

— Ho scherzato — rispose Massimo, con la voce un po’ alterata. — Volete sedervi?

E le lasciò il braccio, si sedette sul parapetto e accese una sigaretta. Ella, in piedi, un po’ triste di essere stata abbandonata, con le braccia pendenti lungo la persona, lo guardava.

— Volete fumare?

— No — ella disse.

— Peccato! una sigaretta è deliziosa, qui, a quest’ora.

— Se vi piace, la fumerò.

Egli le offerse il portasigarette russo, di argento, aperto: ella ne prese una, di sigarette, con le dita sottili: ma mentre gli chiedeva del fuoco, Massimo, preso da un subitaneo moto di collera, le strappò la sigaretta e la buttò giù, pei greppi.

— Non fumate, è una brutta cosa, somigliereste a tante donne che fumano.... tante donne....

— Come volete — disse ella, rassegnatamente.

Ma avendolo visto restar torvo, seccato, cogli occhi bassi, battendo col tacco contro il muretto, ella voltò le spalle e si allontanò un poco, girovagando, discendendo verso i Bagnoli, risalendo, affacciandosi alla vallata. Egli la seguiva con lo sguardo, ombra bianca attraverso il chiaror bianco della luna, camminare senza rumore, con appena un fruscio del vestito fra le erbe; e quando ella ritornò a lui, portava dei ramoscelli fioriti di menta selvatica. Picciolissimi fiorellini lilla sopra minutissime foglioline verdi; ella ne odorò un ramoscello e glielo porse.

Il viso di Massimo parve si rischiarasse: egli prese il ramoscello, l’odorò lungamente e poi, invece di metterlo all’occhiello, lo nascose nell’apertura del soprabito, dentro, dentro, in modo che non si vedesse più, deposto e serrato sul petto. Allora ella fece un passo e con un salto leggiero gli si sedette accanto sul parapetto. Tacevano. Adesso voltavano un po’ le spalle al paesaggio marino e avevano innanzi solo la via donde erano venuti e le campagne basse di Fuorigrotta. Ma guardavano, forse, senza vedere. Erano seduti proprio accanto, le spalle e le braccia si sfioravano, ad ogni lieve movimento. Sempre fumando la sua sigaretta, egli le sollevò la mano guantata e ne arrovesciò lentamente il morbido guanto di camoscio. Pallida e sottile apparve la manina della fanciulla, col braccio rotondo e bianco.

— Avete una bella mano, Luisa — disse.

Le sue labbra, delicatamente si posarono sulle dita piegate della bella mano: un bacio che era un soffio. E restò a giocherellare con le dita, senza poter lasciare quella mano. Ella non poteva parlare.

— Perchè non portate tutti quei cerchiolini di oro, di argento, di platino, quei braccialettini che tintinnano, salgono e scendono, continuamente, quando la donna si muove? Sono carini, è vero?

Ella lo fissò, trasognata, come se non avesse udito che l’armonia della sua voce, senza intendere il senso delle parole.

— Sono carini.... — egli ripetè — ve li donerò io, se li volete da me; mi piacciono tanto.

Ancora scherzava con la mano, quasi attirando a sè la persona e l’anima della fanciulla: e la bella persona e la povera e cara anima, non sapeano che piegarsi a lui. La testolina si appoggiò con la guancia alla spalla di lui, socchiudendo gli occhi; e pian piano, delicatamente, quasi a sorreggerla, Massimo le passò un braccio dietro alla cintura, abbracciandola, reggendola.

— State bene così? — le domandò, con voce roca.

Ella accennò di sì, con le palpebre, non potendo parlare.

— Non vi addormentate alla luna, almeno, Luisa. La luna fa impazzire chi si addormenta al suo chiarore.

Ella ebbe un sorriso così profondo, così enigmatico che lo scosse. Poi, tacquero. Passò del tempo, così. Confusamente, ogni tanto, nella mite e intima delizia di quella solitudine, di quella vicinanza, ella sentiva tremare, talvolta, nella sua, la mano di Massimo; e talvolta, sentiva il respiro di lui affannarsi. Allora levava le palpebre a guardarlo: lo trovava intento a fissare il suo volto, intensamente, con tale un ardore concentrato di visione e di attenzione, che non aveva ella mai scorto. Il tempo passava, sulle loro teste vicine, sulle mani dalle dita intrecciate, immobilizzati in quell’atteggiamento. E ad essa sembrava d’immergersi in un sogno lungo, senza fine, che ricominciava sempre dal principio, dove passavano sulle sue mani dei baci leggieri come un soffio, dove carezzava i suoi capelli una mano molle e lenta, dove un acuto profumo di fiori che si appassivano, le saliva al cervello, dove una voce ripeteva il suo nome, sempre, con la profondità dell’amore: un sogno tutto chiaro di luce lunare, in un divino paesaggio, un sogno ammorbidito dalla rugiada, dai fremiti della campagna, dal palpitare del mare sotto la luna. Invero, Massimo, reggendo la bella persona, tenendone la manina nella sua, sentendo tutta la seduzione di Luisa e delle cose, dell’ora e del tempo, restava immobile, con gli occhi socchiusi, cercando di riunire tutti i suoi pensieri, per essere forte, per vincere il fascino immortale che ha la beltà della donna e la beltà delle cose, la innocenza della gioventù e la solenne purità della notte, nella campagna, innanzi al mare. Non lui sognava, che era uomo, che aveva vissuto, che sapeva; ma quasi vedeva, dietro le tenui palpebre abbassate di Luisa, negli occhi pronti di dolcezza che si schiudevano levandosi a lui, vedeva il sogno d’amore, il sogno di quella notte d’estate distender la sua sottile e salda rete d’argento sull’anima della fanciulla. E ogni tanto, come il fascino di tanto muliebre candore, di tanta fede, di tanta giovinezza fragrante si faceva più alto, pareva anche a lui di smarrir la testa, partito per sempre, per la siderale, per la selenica regione del sogno. Cercò di riaversi, di riaccapezzarsi, parlando:

— Dormite? — volle dire, scherzando, a Luisa.

Ma egli stesso non riconobbe la propria voce. Chi aveva pronunziato quella parola? Ella scosse il capo, con un sorriso così dolce, che egli non vi potette reggere:

— Vogliamo andar via? — le susurrò all’orecchio. La luna fa impazzire, Luisa, Luisa....

— Ancora un poco — ebbe la forza di dir lei, nella innocenza della sua passione.

Ancora un poco. Egli abbassava il capo, soffocando le parole che gli sgorgavano dalle labbra, interdicendosi persino di carezzare più le fredde dita della fanciulla, non volendo udire il profumo di gelsomino, che veniva da lei, di quell’unico gelsomino che ella aveva raccolto sul balcone e messo in petto, non volendo cedere alla voce di tenerezza infinita che emanava da lei e da tutte le umane cose, intorno. Sì, Massimo vedeva bene che ella sognava, oramai, il suo grande sogno, l’unico e ultimo sogno, sotto la gelida e allettatrice luce della luna, simile a Elena, la bionda: sentiva che vincendo la ragione dell’età, del pericolo, dell’esperienza, che vincendo finanche il profondo segreto del suo cuore, egli stesso, per la ignota forza di sentimento che rinasce dalle sue ceneri anche nei cuori inceneriti dalla passione, egli stesso sarebbe stato trascinato dolcemente in quel sogno, perduto anche lui, come una volta, come sempre. E facendo, in quell’atto, una delle più dolorose rinunzie della sua vita, il braccio che sosteneva Luisa si rallentò, un poco: pian piano le lasciò la mano. Ella trasalì, comprese: si levò, col volto così pallido che pareva vi si fosse infiltrato il raggio lunare, a raffreddarne per sempre il sangue e le fibre, si levò con le palpebre battenti, gli occhi smorti, come coperti da una nebbia torbida.

— Andiamo — ella disse, voltandosi ancora a salutare il mare, la campagna e il cielo.

Camminarono presto, vicino, senza darsi braccio; Massimo pareva oramai colto dal freddo, con un desiderio di rientrare in casa. La via era assai lunga, mentre, al venire, non se ne erano neppure accorti: a ogni nuovo gomito che faceva la via, egli si piegava, con una certa ansietà, per vedere se erano vicini; ella lo guardava di sottecchi, camminando presto anche lei, non osando dirgli nulla. Alla fine gli espresse il suo pensiero.

— Speriamo di trovare una carrozza.

— Speriamo — ripetè ella.

Ma per un pezzo non ne trovarono; la notte era altissima, tutte le ville erano chiuse e silenziose, la strada di Posillipo era deserta, la luna, salita già allo zenit sul cielo, vi batteva a picco, dandole oramai un aspetto un po’ spettrale. Egli osservò che la fanciulla si stringeva nella mantellina, trasalendo.

— Avete freddo, è vero?

— Un poco.

— Siamo stati troppo tempo.... laggiù....

Luisa non rispose: camminava a occhi bassi, senza voltarsi nè a destra, nè a sinistra.

— Forse avete paura, cara?

— Un poco.

— E di che?

— Di tutto.... la via è così deserta.... gli alberi sembrano fantasmi....

— Abbiate paura degli uomini e non dei fantasmi, cara.

— È vero — ella soggiunse, umilmente.

Forse egli stesso, in quell’ora così tarda, in quella deserta campagna, dove sboccavano tante grotte di tufo dalle immani bocche nere aperte, aveva come un leggiero brivido di confuso sgomento. Erano presi dal malessere di chi ha vegliato una notte intera, in preda a una sovraeccitazione spirituale e fisica, e che ne esce stanco e infelice, malcontente di sè e del tempo che è trascorso. Ma durò questo sino a che furono arrivati alla dogana di Posillipo; ivi una carrozza da nolo, di quelle sgangherate con un vecchio ronzino sciancato, una carrozza di notte, infine, stazionava. Dormivano il cocchiere e il cavallo; non si risvegliarono che a metà, quando Massimo e Luisa vi salirono.

— Portaci a Monte di Dio — disse Massimo al cocchiere.

Costui, sempre sonnecchiando, domandò se doveva alzare il soffietto.

— Sì: fa freddo — rispose secco secco Massimo.

Il viaggio in carrozza si compì pure lentamente, poichè il cavallo si riaddormentava, ogni tanto: e quando era sveglio, andava con un trotterello affannoso di sciancato, facendo dei passetti corti corti. Nella carrozza Massimo e Luisa non scambiavano una parola: ma ella sentiva che l’ora precipitava e ogni tanto i suoi occhi si rivolgevano a quelli di Massimo, interrogando. Essa voleva sapere da lui una cosa, voleva sentirgli dare risposta alla domanda che le ferveva nell’anima, da quando erano andati soli, per le vie di Napoli, per mare, sotto la luna. E tacitamente, nell’ombra, con gli occhi, lo pregava di dirgliela, la parola; e lui intendeva la interrogazione continua, supplichevole, di quei cari occhi amorosi che volevano essere amati, niente altro, e si voltava in là, come distratto, cercando di sfuggire a quella muta domanda. Una amarezza, un’inquietudine lo teneva agitato, non potendo neppure più fumare le sue eterne sigarette: ed ella sentiva che il suo sogno non era completo, se Massimo non parlava. Passava l’ora, fuggiva l’ora, essi ritornavano con la carrozza per la via fatta, e lui non voleva, non voleva dire....

— Che avete? — finì per domandare lei.

— Sono stanco.

— Vi siete annoiato? — chiese timidamente Luisa.

— Sapete bene di no: non domandate, dunque — disse recisamente.

Ella si scosse al tono un po’ duro: e con quanta tenerezza di amore poteva esservi in lei, dopo qualche minuto di silenzio, non seppe fare altro che chiamarlo:

— Massimo.

Che fu l’effetto di quella voce, di quella parola? Che gli mise innanzi, che gli ricordò? È certo che egli quasi quasi si levò, parendo volendo buttarsi dalla carrozza, fuggendo alle prese di uno spettro: poi ricadde e con una voce fievole le disse:

— Luisa, non mi chiamate più così, non pronunziate il mio nome, ve ne prego, se mi volete bene....

Ella tremò, non intese che l’ultima frase, sorrise, con le lagrime della gioia agli occhi. Erano giunti. Salirono presto, l’uno dietro all'altro: si fermarono sul pianerottolo, prima di dividersi. Appoggiata al muro, come esausta, ella lo interrogava ancora con gli occhi, perchè le rispondesse. Ma egli, turbatissimo, la salutò: ognuno entrò nella propria casa, lentamente, le porte si richiusero con un rumor sordo. Faceva un po’ di freddo. Albeggiava. La notte di estate era finita.


II.

Per un mese di seguito Massimo e Luisa si erano riveduti spesso, ma per pochi minuti, sempre. Quando egli si affacciava al balcone, alla mattina, la trovava lavorando dietro alla persiana, e vedeva, al brillare di quegli occhi, che essa lo aspettava: quando egli rientrava alla sera, trovava la porta di Luisa socchiusa, ella dietro la porta, sorridendo, e si scambiavano qualche parola. Due volte, attirato da quell’irresistibile fascino di giovinezza, da quella irradiazione simpatica che mette attorno a sè l’amore, egli era andato a farle visita e contando di restar poco, era poi restato molto, tanto l’ingenuo e profondo amore della fanciulla lo commoveva. Egli la trattava con una tenera cortesia, con un’affettuosità repressa, e vedeva scintillare nei begli occhi tanta gratitudine, che la sua cortese tenerezza cresceva. Ma come i primi temporali di settembre ebbero spezzata l’aria calda, egli sparve per qualche giorno, e invano, ansiosa, impaziente, infelicissima, ella lo aveva atteso sera e mattina. Infine, una sera, a metà settembre, ella lo vide rientrare; dalla porta socchiusa ella spiava: non osò chiamarlo, tanto le sembrò tetro il suo volto. Ma dopo un’ora, ella non ebbe più ritegno, e andò pian piano a bussare all’appartamento di Massimo. Il servitore, senza domandare nulla, la introdusse nel salotto: ivi, dietro la scrivania, sotto il gran paralume di seta rossa trasparente con merletti bianchi, Massimo scriveva. Era grave, pensoso, e si fermava ogni tanto a riflettere, con la penna appoggiata alle labbra: in una di queste pause, vide Luisa.

— Oh cara, cara — disse, levandosi e stringendole le mani — giusto.... vi scrivevo.

— A me?

Si era seduta dall’altra parte della scrivania e lo fissava, pallidissima.

— Mi scrivevate? perchè?

— Per.... nulla — disse vigliaccamente lui. Poi, vergognandosi, soggiunse presto:

— Per salutarvi. Parto.

— Partite? — esclamò lei, alzandosi a metà sulla sedia.

— Sì. Parto.

— Per poco?

— Per molto, invece.

— Quanto tempo?

— Quattro, sei anni.

— Ah! — disse ella, chiudendo gli occhi, come se svenisse. Anche lui era smorto; ma aveva una nervosità che lo ringiovaniva.

— Dove andate? — soggiunse ella, pigliando fiato a stento.

— A Pietroburgo.

— Tanto lontano, tanto.... — mormorò ella, con voce di pianto.

— Già — fece lui, con indifferenza — lontano assai.

— E.... non vi fa pena.... non vi dispiace andarvene?

— No — disse lui, brutalmente, sperando guarirla con la crudeltà.

Ella appoggiava la testa a una mano, col gomito sulla scrivania: si nascose gli occhi coll’altra mano e si mise a piangere zitto zitto, a lagrime lunghe che le piovevano sulle guancie, sul collo, continuamente.

— Perchè piangete? — domandò lui, nervosissimo.

Essa gli fece cenno di non domandare; seguitava a piangere, tacitamente.

— Non è mica morto qualcuno.... — tentò di scherzare lui.

— Sì, sì, è morto qualcuno — -rispos’ella, a bassa voce — veramente, veramente, è morto qualcuno.

E, levando il capo, con la santa audacia della passione, gli disse:

— Non ve ne andate: io vi voglio bene.

— Io non merito il vostro bene, cara; fate male a volermene.

— Non posso fare diversamente; vi voglio bene, non ve ne andate.

— Io sono stanco e vecchio, e laggiù il dovere mi chiama.

— Non m’importa: se non potete restare, verrò con voi.

— Cara Luisa, voi perdete la testa, figliuola mia....

— Sì, sì, è da quella notte che l’ho perduta — ella rispose con aria smarrita.

— Da quale notte? — chiese lui, inconsciamente.

Ma si pentì subito. Presa da un impeto di disperazione, essa scoppiò in singhiozzi, torcendosi le mani, battendo la testa sulla scrivania, gridando fra il pianto:

— Oh Dio.... egli ha tutto dimenticato.... Signore, Signore, egli ha potuto dimenticare.... Oh Dio mio, ha dimenticato, ha dimenticato....

Sgomento innanzi all’opera che egli aveva fatta, non trovava parole per consolarla, come il malvagio monaco medievale del poeta, che evocato il demone, non aveva poi più il motto magico per rimandarlo all’inferno. La lasciava farneticare, impaurito e dolente, pentito e amareggiato, sentendo tutta la verità di quel dolore, sentendo ancora una volta la fatalità dell’amore aggravarsi nella sua vita. Poi, non reggendoci più, si levò, le andò vicino, le prese le mani, la chiamò per nome e allora un novello fiotto di tenerezza invase l’anima dell’infelice; ella si mise a domandargli, con una desolazione, con uno strazio di far pietà:

— Oh Massimo, Massimo mio.... perchè mi lasci, perchè te ne vai?... come posso stare, senza di te, come posso restare sola, se ti voglio bene.... Massimo, Massimo, non andartene, non essere senza cuore....

— Luisa, ti prego, non piangere, non dirmi queste cose....

E le tenne le mani, la guardò negli occhi, ipnotizzandola, tenendola sotto la sua volontà.

— Massimo.... Massimo.... — ripeteva lei, calmandosi dolcemente, come se una speranza le rinascesse nel cuore.

— Se è vero che mi vuoi bene, devi farmi una promessa....

— Prometto.

— .... Di esser buona, di non piangere, di ascoltare con pazienza, con rassegnazione.

— Prometto — mormorò lei.

— Senti, senti — riprese lui, tenendole le mani, guardandola, sempre negli occhi — te lo debbo ripetere, tu fai male ad amarmi: io non merito questo tesoro così prezioso, della tua giovinezza, del tuo cuore, io sono un uomo senza gioventù, senz’entusiasmo e senza illusioni. Io so tutto, io ho conosciuto tutto, io ho cento anni come Faust e non vi è più Margherita che possa farmi ringiovanire. Io sono un uomo morto, Luisa. Perchè ti sei innamorata di me?

— Così — diss’ella, con la voce monotona della disperazione.

— Senza una ragione?

— Così.

— Non basta, Luisa....

— Credevo..., sì, credevo che tu mi amassi....

— Ti sei ingannata — le disse. — Io non ti ho mai amata.

— Mai amata! — fu l’eco desolata della infelice.

— Perchè hai tu creduto questo, Luisa! Non sai tu dunque che cosa sia l’amore?

— Ho creduto.... ho creduto.... che vuoi, ho creduto! — disse ella, aprendo le braccia, con un gesto desolatissimo.

— Tu non sai nulla, cara.

— Forse non so nulla, hai ragione — replicò ella, con la umiltà dei vinti, dei perduti.

E chinando il capo, volendo almeno trovare una scusa alla sua follia, cercando ancora un barlume di speranza nei ricordi, riandò tutto quel sogno di una notte di estate per cui ella aveva fissata la sua vita. E a ogni dolce particolare, a ogni piccolo e pur grande fatto che le si presentava alla memoria, ella trasaliva, ella ricadeva nella sua illusione e alla fine, rendendo tutto il suo pensiero:

— Eppure tu mi hai amata, quella notte, Massimo.

— Si ama sempre un poco la donna che abbiamo accanto — mormorò lui, con un’ombra di sorriso.

— Qualunque sia?

— Qualunque sia.

— E dopo?

— Dopo, si dimentica subito.

— Ed essa?

— Se è savia, gode del fugace momento e.... non lo rimpiange.

— E se ama, se ama?

— Luisa, tu mi hai promesso di esser calma....

Ella si era alzata e gli parlava concitatamente:

— Ma che ne so, io, di questa vostra ipocrisia sociale, di questa vostra galanteria mondana; la chiamate galanteria, non è vero? Io sono una fanciulla semplice, una sciocca, una illusa, io ti amavo già, quando, quella sera mi hai detto di venir teco. Ma quando si porta via, di notte, una donna, con le dolci parole che tu mi dicesti, costei deve credere che tu l'ami! Ma tu, nella barchetta, te ne ricordi? hai passato un’ora a chiamarmi sottovoce, come se solo le sillabe del mio nome esistessero! Te ne rammenti? E dopo, dopo, tu non devi averlo dimenticato, hai preso le mie mani, nell’oscurità della grotta di donn’Anna, tu le hai strette, domandandomi così qualche cosa, io ho risposto sì, stringendoti le mani, questo, certo, neppure lo puoi avere obliato, io l’ho nell’anima, quella stretta di mani.... e laggiù, laggiù, ti rammenti, ti ho dato il fiore di menta, lo hai baciato perchè aveva toccato le mie labbra, lo hai conservato gelosamente, lo hai chiuso sul tuo petto, come se volessi che appassisse colà, al calore del tuo cuore: io ho il tuo gelsomino, dove è dunque andato il fiore di menta? Ma tu hai baciato la mano, questa qui, in questo punto, lentamente, dolcemente, con una lentezza e una dolcezza che mi parve mi facessero morire: ma tu hai tenuto la mia testa sulla tua spalla, ma tu mi hai abbracciata te ne ricordi, certamente, te ne ricordi, chi può avere scordato queste cose? ma insieme, insieme a me tu hai sognato, abbiamo sognato laggiù, nel paradiso, il nostro paradiso. Oh angeli santi, voi stessi avete dovuto sorridere, poichè quello era l’amore buono, l’amore bello, l’amore santo, poichè io amava e tu mi amavi, Massimo, non mentire, non mentire, non togliermi questa fede....

— Vi sono una quantità di cose che somigliano all’amore e che l’amore non sono — disse lui, glacialmente. — La sera è chiara, vi è una buona e bella fanciulla, vi è il mare, vi è la gran poesia di questo paese nostro, la notte è lunga, il cuore è malinconico — e allora un nome, chi non lo pronunzia, un fiore chi non lo chiude sul petto, un bacio chi non lo dà? Sciocco colui che lascia sfuggire questi purissimi brevi piaceri dell’anima e dei sensi, puri piaceri che non hanno la macchia del peccato, che non debbono portare alle lacrime, alla tragedia e che vi fanno egualmente cara una notte, un giorno! Tutto questo non è affatto l’amore nel suo immenso turbamento, con le sue lotte quotidiane, con la sua gelosia feroce, con la sua insaziabilità crudele e con la sua sazietà scorante! È invece un’altra cosa che all’amore rassomiglia, una cosa carina, graziosa, che resta dolce nella memoria, che non lascia ferita e che imbalsama poi, col suo profumo, le ore della vecchiaia. Amore no: tenerezza, simpatia, fascino, eterna attrazione del femminile, una cosa mite e tanto cara, senza dolori, senza singhiozzi.... Luisa, Luisa, l’amore è un’altra cosa, è una vampa, è una vertigine, è uno sconquasso, Dio vi salvi....

— Io sono perduta — ella disse, brevemente, — perchè vi amo e non mi amate.

Come egli parlava, pianamente, con quella velatura d’ironia che rendeva triste la sua voce, con quel senso di disdegno che rivelava l’uomo esperto delle tempeste, come egli le veniva dolorosamente dimostrando la inanità delle sue illusioni, ella aveva inteso a poco a poco mettersi fra loro due una grande distanza, quasi che Massimo fosse già partito, già in viaggio per il gelido paese nordico. Ogni parola che infrangeva le sue speranze, le s’imprimeva nella mente, col lieve sogghigno che l’avea accompagnato, con la intonazione sprezzante che era stata pronunziata: e un lavoro di distruzione si operava in lei, la parola di lui spegneva tutta la cieca fiducia che ella aveva avuto nel suo sogno. Illusione, illusione, il bacio, il fiore, il nome, la voce tremante, la carezza, l’abbraccio, illusione tutto, morto tutto, finito tutto, finito. Una luce fredda le si era fatta dinanzi agli occhi della mente: egli aveva ragione, tutto quel sogno di una notte di estate, sotto il pallido, morbido raggio lunare, era una cosa graziosa, carina, niente altro, da dimenticare immediatamente, da ricordare poi più tardi, molto più tardi, con una certa soavità, anche con un po’ di gratitudine. Ella vedeva, vedeva bene, adesso. La scienza della vita le arrivava di un colpo solo, netto e preciso come quello di una mannaia che recide una mano: tutto sanguinava, ma, ella vedeva la verità. E si sentiva, perduta.

Egli taceva. Era tornato al suo posto e giocherellava con la sua penna di avorio bianco: ma era scomposto nel volto. Affettava una calma che non aveva: capiva che la crisi non finiva lì e soffriva per sè e per lei, immensamente. Ma le sue burrasche passate gli davano la forza di combattere ancora. La fanciulla taceva e pensava, quasi che nulla più le restasse da dire: anzi si alzò, come per andarsene. Ma arrivò sino al balcone chiuso e appoggiò ai vetri la fronte febbricitante. Stette qualche tempo così. Poi, ritornò. Pareva tranquillizzata. Ma si passava ogni tanto la mano sulla fronte, con un gesto che faceva pena.

Si sedette di nuovo. Massimo la guardava, con una certa ansietà. No, tutto non era ancora finito....

— E.... ve ne andate? — chiese ella, cercando di rafforzare la propria voce.

— Sì.

— Quando?

— Domani mattina: o anche stasera.... meglio stasera.

— Infatti.... meglio stasera — rispose lei, monotonamente. — E.... non mi avreste salutata?

— Vi scrivevo....

— Lasciatemi vedere — diss’ella, pregando.

Egli obbedì, dandole la carta, dove erano scritte soltanto queste poche linee.

“Cara, cara Luisa — io debbo lasciare, per forza, questo caldo e bel paese, per un paese freddo e brutto. Me ne vado, pieno di ricordi della vostra bontà, me ne vado, addio, pregandovi di volermi un po’ di bene, da lontano, per quanto bene vi voglio io....„

— Come potete mentire così? — diss’ella, fieramente, levando la testa.

— Non mento: vi voglio bene: vi ho una gratitudine immensa, mi siete carissima....

— E partite, partite?

— Parto.

— Ah io non so più nulla, non so più nulla, io ho perduta la testa. Da quella notte.... — mormorò ella, nascondendosi il viso fra le mani. Ma dopo qualche minuto, ella si levò, andò vicino a Massimo, si sedette accanto a lui, con una espressione di ansietà, di angoscia sulla faccia che avrebbe impietosito il cuore più duro.

— Sentite, sentite, voi non avete nessuna colpa, è vero, io non posso dire nulla contro di voi, voi non mi avete ingannata, sono io che ho voluto ingannarmi, lo confesso. Ma pure.... io vi amo, io non posso levarmi dal cuore questo amore, io non resisto al pensiero di restare sola, qui, mentre voi ve ne andate, così lontano; morirei; sentite, non ho mai mentito, morirei. Bisogna pur concedere qualche cosa agli illusi, agli esseri semplici. Il mio destino è di amarvi, Massimo, non vi è altro, per me. Che volete, il mio sogno continua, io non mi sveglierò che per entrare nella tomba. Sentite. Lasciatemi venir con voi: andate solo, andate triste, laggiù, in un paese ove non avete nè amici nè parenti. Io, qui, non lascio nessuno. Posso disporre della mia persona, della mia vita. Direte che vi sono sorella, nipote, governante, direte che sono la vostra serva, mi contento. Purchè io possa seguirvi, vi servirò, laggiù. Non mi vedrà nessuno; non uscirò, non andrò in chiesa, rinunzierò al mondo, a Dio, a tutto, pure di vivere accanto a voi. Non importa, se non mi amate: portatemi via, vi amo, non posso restare qui. Laggiù, non importa se mi tratterete male, non importa se mi dimostrerete, che vi secco: io avrò pazienza, rassegnazione, come voi mi comanderete di avere. Forse, vedete, non vi nascondo la mia speranza, mi amerete un giorno; lontano, ma può giungere, il gran giorno! Lasciatemi aspettarlo al vostro fianco, segretamente, umilmente, piamente, con la fede degli antichi cristiani; lasciate che io possa spendere la vita mia per voi, non posso farne altro, della mia vita. Voi siete spesso triste, una volta le mie risate vi piacevano; vi piacevano le mie canzoni, io riderò, e canterò per voi, tacerò a una vostra parola, aspettando. Voi non mi amerete mai, forse, ma io vi amerò, sempre. Ah non mi respingete, non mi lasciate; se incontrate di notte, un povero cane senza padrone che vi segue, malinconicamente, voi non lo cacciate via, è vero? Perchè caccereste me? Siete uomo, siete cristiano, avete cuore, avete pietà, non mi riducete alla disperazione, portatemi con voi, voglio morire accanto a voi, non qui, sola, non sola, per carità, portatemi con voi.

E la disgraziata scivolò dalla sedia a terra, cadendogli ginocchioni davanti, con la testa convulsa fra le mani.

— Luisa, Luisa, che fate? — gridò lui, vivamente, cercando di sollevarla.

— No, no, resterò qui, sino a che mi avrete fatto questa grazia — diss’ella, resistendo.

— Luisa, ve ne scongiuro, voi mi fate disperare.... — E la sollevò sorreggendola, aiutandola a risedersi: ella lo guardò supplichevole.

— Ditemi la parola — mormorò abbattuta.

Egli capì che l’ora era giunta.

— Non posso, Luisa.

— Perchè non potete?

— Non posso tenervi nè come moglie, nè come amante.

— A me non importa della mia riputazione: vi voglio bene, voglio venir con voi.

— Non posso.

— Ma perchè?

— Perchè non vi amo di amore...

— Non importa, vi amerò io.

Egli la guardò, smarrito: l’ora era giunta, l’ora incalzava.

— Io amo un’altra donna! — proclamò lui, a voce chiara.

— Oh! — ella disse, come soffocando.

Egli si alzò a metà, come se volesse aiutarla. Fredda, muta, Luisa lo fermò con un gesto. E solo nel guardarla in viso con gli occhi dove il cerchio nero, intorno, era diventato così largo, con le labbra bianche e con due pieghe alle labbra, dove prima si disegnava la curva del sorriso, con dieci anni di più, infine, con quella gioventù che pareva sfiorita per sempre, egli si sentiva torturare dai rimorsi. Ah, che egli non avrebbe mai voluto pronunziarla, la fatale parola, il segreto profondo del suo cuore, la nascosta angoscia di tutta la sua esistenza! Aveva esitato un’ora, arretrandosi davanti agli intimi recessi dove il suo amore viveva, non sapendo violare quel mistero impenetrabile, non sapendo ferire così mortalmente quel giovane cuore sì amoroso e disperato. Giammai, giammai, egli avrebbe confessato ad alcuno che amava, se quella desolazione di anima buona appassionata, non lo avesse spinto a tentarne così una disperata salvezza: il suo segreto sarebbe rimasto chiuso nel cuore, noto solo a Dio e a colei che aveva ispirato quell’amore, bocca umana non lo avrebbe ripetuto, orecchio umano non lo avrebbe udito, morto con lui, il segreto. Ma innanzi a quelle lacrime, a quei singhiozzi, innanzi a quella esistenza perduta, egli aveva finito per chiedersi se non era un poco colpevole, se non doveva espiare, tentando di togliere al naufragio quell’anima, con un rimedio estremo. E aveva dischiuso il tempio dove il suo idolo si ergeva, fiero e implacabile, aveva mostrato alla disgraziata fanciulla che l’altare aveva la sua dea, invitta, immortale. Egli, il più mistico fra i sacerdoti dell’amore, che stava a guardia, silenzioso, immoto, del tabernacolo che niun occhio d’uomo doveva rimirare, aveva adesso sollevato i veli sacri e mostrato all’occhio trasognato di Luisa la immagine divina. Si sentiva adesso fiacco, senza coraggio, senza forza, come se quella parola di rivelazione, avesse vuotato a un tratto le sue vene. Aveva detto.

Luisa non piangeva, non singhiozzava, non sospirava: era seduta al suo posto, con la faccia nascosta fra le mani sovrapposte, non dando segno di vita: anche le mani che avevano tremato sempre, ora erano ferme, bianche come quelle di una statua. Quando le abbassò, quando rialzò il capo e Massimo potette vedere la sua faccia, egli sentì il danno fatto. Oramai la luce di quegli occhi dolci e amorosi si era intorbidata per sempre, e li opprimeva la inguaribile mestizia delle speranze infrante: oramai le traccie del riso erano cancellate da quella delicata e giovanile fisonomia, mentre fra le sopracciglia si creavano quelle due rughe dolorose delle lunghe cogitazioni malinconiche; oramai il sangue era fuggito da quelle fresche, fragranti labbra e il pallore della viola, fiore esangue, fiore dolente, vi si era impresso, per sempre. La disgraziata aveva parlato, nella sua ansia, nel suo abbandono, di risa, di canzoni: ma bastava guardare la serietà oramai incancellabile del suo viso, per intendere che eran finite, per sempre, le canzoni e le risate. Ah veramente, veramente, come l’antico audace che tentò di sollevare la cortina del tempio, come a Salammbo, figlia di Amilcare, che pose sul suo capo il velo di Tani, cosparso di stelle e commise il sacrilegio, così la povera umile fanciulla era stata fulminata perchè aveva tentato di schiudere un cuore, perchè aveva voluto entrare nel sacrario della dea. Invero, egli aveva in sè una pietà immensa e sterile, una pietà fiacca e triste, per quella creatura fulminata: non sapeva dirle più nulla, la fatalità sfugge alla discussione, e non ha conforti che l’attenuino. Infatti, fu essa la prima a parlare. Era una voce senza dolcezza, senza tristezza, non velata, non roca, ma veramente spezzata: nessun sentimento vi vibrava più: infranta. Adesso le domande che faceva, stanche, lente, sembravano l’appagamento di una mesta curiosità, un riandare sulla sventura, così, per sapere: senza che la conoscenza novella potesse mai più cangiare nulla di quello che era stato.

— Voi l’amate.... molto?

— L’amo: quando si ama, si ama.

— Lo so — replicò ella, sempre senza fremito nella voce, sempre senza luce negli occhi. — Lo so: domandavo.... così.... per sapere.

Il braccio di Luisa era disteso sulla scrivania e la mano sottile aperta sul panno scuro. E pareva così abbandonata, così bianca, che a lui sembrò vedere, veramente, una mano di persona morta. Ma salvo ad averne una infinita compassione, che cosa ci poteva fare, lui? Ambedue soffrivano, e malgrado tutto, l’uno non poteva aiutare l’altro nella propria disgrazia; essa lo amava, egli, aveva di lei una pietà grande, ma l’uno non poteva tergere neppure una lacrima dell’altro. Così è, l’amore. La divina armonia di due cuori che si scelgano e che si amino, non risuona che assai raramente, nelle anime umane. E non è, invece, che una catena, l’amore, di cui gli anelli sono di metalli diversi, male appaiati, di forme diverse, che si corrodono e si contorcono, senza potersi spezzare. Che ci poteva fare, lui? Tutto era inutile, tutto.

— Voi l’amate da molto tempo? — ricominciò lei, con quella intonazione d’indifferenza, che faceva più male di uno straziante singhiozzo.

— Da molto tempo.

— Da quando?

— Da.... sempre.

— Non avete mai amata alcun’altra?

— No: mai. Vi è un amore che altri non ne ammette.

— È vero: lo so — ella disse, chinando gli occhi.

Poi, tacque, pensando. Sembrava che riflettesse a un’altra domanda da fare, e che temesse di farla, di cui non potesse ritrovare la forma. Difatti, due o tre volte fu lì lì per parlare, quasi che la parola volesse fuggirle irresistibilmente dalle labbra; ma si rattenne. Egli aspettava, oramai deciso a dir tutto, sempre più debole, sempre più esausto di forze morali. Invero erano due infelici creature: ma non vi era nessun rimedio. Alla fine, ella, si decise e disse:

— Voi l’amerete.... sempre?

Prima di rispondere egli si raccolse e nei brevi minuti del silenzio, ritornò su quello che era stato, su quello che era la sua passione, provò a misurare il valore e la durata di quel vincolo che gli anni, la morale e material consuetudine avevano reso profondo e non risolvibile che dalla vecchiaia o dalla morte.

— Credo.... credo — egli mormorò, esaurito — che l’amerò sempre. Sono vecchio, Luisa: e la vita non si ricomincia. Voi siete giovane.... e potete obbliare....

— Voi non avete diritto di parlarmi così — ella disse, con un amaro sorriso. — Non vi accuso, non mi lagno; ma non cercate di consolarmi con queste vaghe parole. Io valgo meglio di questi banali conforti.

— Scusatemi — egli soggiunse, inchinandosi a quell’altero dolore, che non soffriva di essere turbato da nessuna voce, fosse pur quella della persona amata. — Era un augurio che vi facevo: vi auguro di dimenticare.... con tutto il cuore, ve lo auguro.

Ella scorse il capo, senza rispondere.

— Voi la raggiungete, colà?

— Sì — egli disse, a bassa voce.

— Vi aspetta?

— No, non mi aspetta: ma mi ha chiamato — soggiunse lui amaramente.

— E voi obbedite?

— Obbedisco sempre. Ella mi ha detto di venir qui, nell’estate, lasciandomi senza notizie, senza lettere, senza neppure farmi sapere dove viaggiava: e sono stato qui, tre mesi per obbedirla.

— Ah, va bene, ho inteso — ella disse, senz’altro.

— Adesso mi scrive due parole, dicendomi di raggiungerla, dandomi il suo indirizzo: e io parto, io attraverso l’Europa, vado dove ella è, poichè questo, capite, è il mio destino.

— Essa vi ama?

— No.

— Non vi ama?

— No, niente.

— Non vi ha amato?

— Mai.

— Nè avete speranza?

— Nessuna.

— Ma perchè non vi ama?

— Perchè vie della gente che non ama mai, Luisa — gridò lui, subitamente esaltato.

— È vero, è vero — ella rispose, vagamente. — Vi è molta gente che non ama ed è forse felice.

— Forse.

— Ma perchè vi chiama?

— Perchè le fa piacere di avere un servo.

Un lugubre silenzio si fece intorno: le due vittime si guardarono, smorte dello stesso pallore, esauste dallo stesso morbo morale; e fu lei che per la prima, con una infinita dolcezza, gli disse:

— Voi siete come me.

— Come voi — mormorò l’uomo forte, l’uomo scettico, umilmente, dolentemente.

Niente altro. Ella si sollevò dalla sedia, rimase ritta davanti alla scrivania.

— Adesso me ne vado; buona sera.

— Ve ne andate? — chiese lui, un po’ affannoso.

— Sì, sì, me ne vado; buona sera, Massimo.

— Restate ancora un poco — balbettò lui. — Ditemi....

— Noi ci siamo detto tutto: non vi è nulla nel vostro cuore che io non sappia: voi sapete tutto del mio, non vi è più nulla, più nulla; buona sera.

— Ma che farete? — egli disse. — Voglio sapere che farete!

— Niente — disse lei, voltandosi, facendo un gesto largo con le braccia. — Niente.

— Non ci possiamo lasciare così — disse lui, tutto agitato. — Restate....

— Sarebbe inutile. Non dovete voi andare?

— Sì.

— E io debbo restare. Addio, Massimo.

— Addio, Luisa.

Ella se ne andò senza voltarsi, un po’ curva, ombra tacita e dolente. Egli la vide sparire: udì aprire e chiudere due porte. E pensando che in quel minuto, rientrata nella sua casa deserta, sola col suo dolore, ella piangeva come tutte le misere creature umane, lui, misera umana creatura piegò il capo, nel silenzio, nella solitudine, nel dolore e pianse, di pietà, di rimpianto, su Luisa, su Massimo.

fine.

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