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V.
Vestita di bianco, con un leggiero scialletto di crespo bianco sulle spalle, Clara, in quelle ultime lunghe sere di estate, aspettava Giovanni al balcone. Prima, la solinga donna leggeva un poco, si aggirava come un fantasma per la casa deserta; poi, verso le nove, approssimandosi l’ora dell’arrivo, ella esciva sul balcone, interrogando le penombre di via del Babuino. Malgrado che l’afa di quella fine d’agosto togliesse la gente alle case soffocanti e la spingesse per le vie, in cerca di un fantastico fresco, via del Babuino era spopolata. È lontana dal centro: ed è via di forestieri, che la popolano solo nell’inverno. Pochissima gente l’attraversava; avanzandosi la sera, non più un viandante. Clara guardava l’alto della strada, verso piazza di Spagna, donde giungeva sempre Giovanni, quando giungeva: e appena una persona svoltava l’angolo, essa si piegava sui ferri, cercando distinguere l’alta figura e il passo un po’ lento, a lei così noti. L’ora serotina si svolgeva, calda, spesso attraversata da un molle soffio sciroccale; Giovanni non compariva. Affaticata dallo stare in piedi, ella si sedeva sovra uno sgabello di legno, che era fuori sul balcone; appoggiava la testa ai ferri, in atto di pazienza e di riposo; talvolta, un lieve sonno la coglieva; alle undici e mezzo, che ella sentiva suonare a Santa Maria del Popolo, si levava, rientrava, poichè Giovanni non sarebbe venuto più. Un brivido di freddo la coglieva, in casa: e si accostava alla sua scrivania, per scrivergli un biglietto, una lettera, lagnandosi che egli avesse ancora mancato alla promessa. Ma, sedutasi, si rialzava subito: a che lagnarsi? Su sette sere della settimana, egli mancava cinque: e la lasciava, così, in una interminabile aspettativa, fuori su quel balcone, in una solitudine e in una malinconia grande, sapendo benissimo che ella lo aspettava ogni sera e che era sola, solissima. Adesso, ella non si lagnava più, giacchè le scene la stancavano e la impaurivano, perduta di energia, precipitata e giacente nella inazione spirituale di chi ha troppo amato inutilmente: e non lamentandosi lei, egli non si scusava neppure e aveva l’aria di non rammentarsi che ella non esciva, non vedeva nessuno, per lui soltanto. Oramai, Clara non aveva più quelle crisi di violenza, in cui malediceva l’aridità del cuore di Giovanni e la viltà del proprio cuore che non sapeva infrangere un legame così fittizio e così torturante: ella era in preda a quelle sonnolenti rassegnazioni, che abbattono tutte le persone di carattere impetuoso, dopo un periodo di passione. Sul viso altiero di Clara, dove sempre aveva brillato il sorriso trionfale della donna padrona del proprio destino, ora sedeva l’espressione stanca e paziente della vittima. Quando Giovanni le riappariva innanzi, ella sorrideva tenuemente, gli si sedeva accanto, ma non troppo vicino, non gli faceva un rimprovero, gli parlava a voce bassa, senza ridere mai. Egli la guardava curiosamente: scrutava tutte le impressioni di quel volto mobile, di quegli occhi vivacissimi, e scorgendovi come disteso un velo d’inesorabile e quieta tristezza, crollava il capo, senza dire nulla. Egli stesso era profondamente triste. Forse, s’imponeva di non andare da Clara, più spesso. Forse, per una singolare contraddizione del suo spirito, quell’aspetto di vittima, quel silenzio, quella mancanza di sorriso, lo tormentavano più di una scena furiosa. Nel settembre, egli partì per Napoli, senz’avvertirla neanche; ella gli scrisse, tre o quattro volte, delle lettere pacate, ma senza rampogna; delle lettere dove tutto il fuoco dell’anima di Clara parea fosse stato smorzato dalle lacrime. Ritornò, Giovanni, dopo dieci giorni: ed ella non gli fece nessuna interrogazione, fredda e tenera, fredda e triste, fredda e oppressa da una fatica morale che le traluceva, torbidamente, dagli occhi.
— Che hai? Che hai? — le chiese lui, quel giorno, con ansietà, andando volontariamente incontro a una spiegazione.
— Sono stanca — ella disse, chinando gli occhi.
— Di me?
Ella esitò, un minuto. Disse:
— No.
— Finirai per odiarmi, io lo aveva preveduto — egli soggiunse, desolatamente.
— E perchè, Giovanni? Tu non hai nessuna colpa.
— E tu neanche, poveretta! — replicò lui, prendendole le mani.
Ella si svincolò, dolcemente e freddamente.
— Oh io, sì! — e un vero accento di convinzione, la dichiarava colpevole di quel malinconico ultimo peccato, pieno di tante delusioni.
— La colpa è delle cose, è degli anni, è della fatalità — egli spiegò.
— La fatalità è la scusa dei deboli e degli sciocchi — diss’ella brevemente. — Io ho voluto che questo fosse; la colpa è mia.
— Poveretta, poveretta! — mormorò lui, con voce di pianto.
— Mi sono ingannata, anche questa volta — ella replicò, con una freddezza di ghiaccio.
L’accenno agli amori passati, il primo che ella facesse durante un anno e mezzo di relazione con lui, la comunanza del suo amore con gli altri, nella mente di Clara, gli fece una impressione pessima.
— Io non ti ho ingannata — esclamò lui offeso, contristatissimo.
— Chi sa! — ella disse. — Hai creduto di dirmi la verità: ma quando è che l’hai detta?
— Mai, mai ti ho ingannata!
— Eppure un giorno mi dicevi d’amarmi e un giorno lo negavi. Quando è che mentivi?
— Mai, mai, Clara!
— Vedi bene che tu stesso ignori la verità. Tu non sai niente!
— So che soffro, ecco tutto.
— Anche io, molto, Giovanni, molto.
— Non più di me!
— Più di te, più di te, in un modo diverso, con una intensità maggiore e diversa. Niuno ha mai espiato un peccato più immediatamente e più rigorosamente di me, credilo.
— Povera Clara, io ti ho portato sfortuna! — e la più grande tenerezza vibrava in lui.
Ma queste gelide consolazioni non arrivavano a riscaldare il cuore della donna.
— La fortuna o la sfortuna è in noi — rispose ella, recisamente.
— In me, in me! Sono un essere malaugurato e sventurato.
— E perchè? Non hai amato?
— Troppo presto e troppo male, Clara!
— Non sei stato amato?
— Troppo tardi, troppo tardi.
— I tuoi ricordi saranno dolci, nella vecchiaia — ella soggiunse, con una glaciale tenerezza.
— Io non giungerò alla vecchiaia degli anni, lo so.
— Fortunato te!
Fu l’unica parola profondamente disperata che le uscì di bocca, in quello strano duetto. Ma, adesso, i loro scarsi e rari colloqui diventavano penosi; vi aleggiava una tristezza infinita, i loro volti erano distratti e assorbiti, un soffio di gelo chiudeva la coppia amorosa. Amorosa? Niuna parola d’amore, più. Ella, a poco a poco, gli scriveva meno. Egli se ne lagnò:
— Perchè mi scrivi così poco?
— Ti affliggerei, scrivendoti.
— Tu puoi dirmi tutto, lo sai.
— Non ho da dirti nulla.
Anche quando si vedevano, la conversazione si rallentava fra loro. Prima, Clara si interessava a tutta l’esistenza di Giovanni lasciandosi narrare le sue noie e le sue soddisfazioni: adesso, ella non lo interrogava più. Se egli voleva dirle qualche cosa, lo ascoltava, ma con gli occhi velati, quasi non intendendo.
— La tua anima è lontana, Clara — le disse, una sera.
— Non è che malata, tanto malata — ella si lamentò.
— Non speri di guarire?
— Sperare di guarire? Questa guarigione è anche la morte.
— La morte è di tutte le anime che hanno amato.
— È vero — ella concluse, a capo basso.
Adesso, ogni tanto, guardandola, mentre essa lo guardava, gli pareva di vedere delle lacrime negli occhi. Ma esse si dileguavano. Talvolta, ella si alzava dal suo posto, andava verso un balcone, andava nell’altra stanza: egli indovinava che Clara rasciugava queste poche lacrime: l’avanzo dei grandi pianti antichi.
— Perchè ti viene da piangere, guardandomi? — le domandò, infine, turbato assai di ciò, intravvedendolo.
— Io? No, non piango.
— Perchè me lo nascondi? Non sono il tuo migliore amico?
— Amico? Io non ho amici.
— Il tuo amante, allora? — ribattè lui, dopo una esitazione.
— Io non ho amanti, Giovanni.
— L’uomo che ti ama?
— Nessuno mi ama.
Profondo silenzio. Le lagrime erano inaridite negli occhi di Clara: ma egli vi ritornò sopra amaramente:
— Non vuoi dirmi, perchè mi guardi e i tuoi occhi si orlano di lacrime? Ciò è così triste! Mi pare che tu pianga un morto.
— Sono tanti i modi di morire.
Così, in questo ambiente di gelido dolore, di amarezze quiete e infinite, di grandi veli bigi e fitti che li avvolgevano in una nuvola di orrenda e intima malinconia, evitavano di vedersi in casa, dove soffrivano anche più. Non si davano convegno, ma si incontravano randagi pallidi, vagabondi delle vie remote di Roma, camminando accanto senza parlarsi, o scambiando qualche motto insignificante. Una volta andarono al Colosseo; era un chiarore plenilunare bianchissimo, con un freddo vivido d’ottobre; ella era tutt’avvolta in un mantello col cappuccio. Si sedette, Clara, sovra uno scalino dell’anfiteatro; Giovanni, si sedette più giù, vicino a lei, toccandole le ginocchia con la testa. Il grandioso circo era tutto molle e candido, sotto il raggio lunare. Ella fece un atto, e la sua mano si posò, lievissima, sulla testa di Giovanni. Tacevano: la mano restava lì, lieve, fredda, immota. Egli si volse un poco, prese la mano e la baciò sulle dita, appena appena, con una carezza casta, fugace; la mano ricadde lungo la persona. Si guardarono negli occhi, in quella solitudine, in quella notte chiara, e quello sguardo infinitamente e rassegnatamente desolato fu inteso, da ambedue, per quel che era, per quel che diceva.
L’indomani, nelle ore tarde pomeridiane, si videro al Pincio, dove ella gli aveva dato convegno. Ella era vestita di un abito di seta grigia e aveva una giacchetta di velluto nero; sul cappellino di velluto nero era una fine veletta nera. Egli pensò, vedendola, a quella sera di Armida, oramai lontana, nelle sensazioni e nelle memorie. Ma si forzò a scacciare ogni debolezza, tanto temeva di sè. Clara camminò un poco accanto a lui: poi guardando gli alberi di villa Borghese, dalla terrazza, gli disse la gran frase:
— Dunque, si finisce?
Ah egli si era creduto più forte! Si sentì vacillare, non potè rispondere. Che avveniva, dunque, in lui, di contradittorio, di bizzarro, che questa soluzione tanto da lui invocata, ora gli faceva orrore?
— Non mi rispondi, Giovanni? — ed ella alzava, ogni tanto, il manicotto sino alla bocca, come a reprimere un singhiozzo, un grido.
— Tu non hai pietà di me, Clara?
— Tu pensi troppo alle tue miserie, e non a quelle altrui; io non ti chieggo pietà.
— Tu sei forte.
— Ero forte.
— Tu sei forte.
— La mia unica forza mi ha abbandonata — ella soggiunse, sempre guardando altrove.
— Quale era?
— L’amore. È finita, Giovanni — ed ebbe un cenno largo, definitivo, verso la campagna.
— Non ci vedremo più, dunque? — egli chiese, debolissimo, tremante, come un fanciullo disperato.
— A che servirebbe? A maggiori dolori?
— Come amici.... qualche volta?
— Io non ti sono amica, Giovanni: ti ho troppo amato per esserti amica.
— Io sono il più sventurato fra gli uomini — egli gridò, gittandosi sovra un banco, non reggendo più.
Ella gli sedette accanto: aveva gli occhi bassi, dietro la veletta.
— Giovanni, sii buono, non diminuire il mio coraggio. Vedi.... per giungere a questo, la mia anima ha dovuto fare un così lungo viaggio! Ho detto io, la parola estrema: io! Che ho innanzi, io? Sai che esistenza di solitudine, d’inutili e tardi rimpianti, di pentimenti postumi, di lacrime senza conforto? Sai che lungo e deserto viaggio io intraprendo, sino alla morte, sola?
— Il più sventurato fra gli uomini! — gemeva lui, con la faccia fra le mani, come un fanciullo abbandonato.
— Eppure.... io, io stessa rinunzio. Tutto è stato inutile, fra noi: il tuo amore, prima; il mio amore, dopo.
— Almeno, almeno, non mi avessi amato! — esclamò lui, in un ingenuo scoppio di dolore.
— Ti ho amato, invece, molto, alla mia maniera, che è certo imperfetta, poichè tutti siamo degli esseri imperfetti. Ti ho amato.... così teneramente, così passionalmente.... ma era tardi, era tardi, era tardi!
— Ma io ti voglio bene, Clara! — egli balbettò, smarrito, vedendo che ella era per levarsi, per andarsene.
— Ne sei certo? — gli chiese ella, duramente, come nella prima sera del loro amore. — Ne sei certo?
— Non lo so — rispose lui, annientato, ricadendo sul banco.
— Addio, Giovanni! — ella disse, innanzi a lui, pallida come una morta.
— Non te ne andare, non mi lasciare! — e tese le mani per rattenerla.
Ella si trattenne in piedi, innanzi a lui. Si vedeva che non aveva la forza di fare un passo. Guardandola disperatamente negli occhi, tenendole una mano, egli la supplicava ancora, confusamente, di non lasciarlo, così, in quell’ombra; ed ella non rispondeva, levando il volto, mordendosi le labbra.
— Giovanni, perchè vuoi che io resti? Che ci porterà di nuovo questa sera, o il domani? Non saremo sempre gli stessi? Che si muta, per un discorso o per un giorno? Avevamo strade diverse e ci siamo voluti amare: questo amore è stato il tuo cruccio, allora; è stato il mio cruccio, adesso. Riprendiamo la via, più stanchi e più delusi di prima: Dio benedica la tua strada!
— Non te ne andare, non te ne andare!
— Addio, Giovanni — e gli toccò la mano, con la mano guantata, allontanandosi subito.
Per l’uomo che singhiozzava, lassù, sul banco del giardino solitario, come per la donna che discendeva alla città, senza vedere il sentiero, poichè le lacrime l’acciecavano, il sole era tramontato. Intorno ad essi era la grande, lunga, infinita notte dell’anima.